Antologia critica

Antologia critica

Con questo abbiamo concluso. È praticamente tutto.
Le cose sembrano essersi messe bene per Walter e Dude,
è stata una bella storia, pulita, non vi sembra?
Lo Straniero (Il grande Lebowski)



C'era da aspettarselo. I Coen, funamboli del gioco nichilista, sono affezionati ai nomi propri: anche Il grande Lebowski ha nel titolo (originale e italiano) un nome proprio (di due persone). Il nome nel titolo serve a indicare con precisione che quella persona lì è proprio lei, che quel posto lì è proprio li. (O no?) La cosa è stata più volte segnalata: ad esclusione del primo Blood Simple, i Coen hanno sempre dato ai loro film un titolo (un nome) con dentro un nome di persona o geografico […]. Ci aspettavamo anche che i protagonisti della storia fossero stravaganti e che alcuni personaggi fossero perfettamente scemi, visto che i Coen hanno eletto da sempre le stranezze e le stupidità umane a terreni adatti per coltivarvi la loro lussureggiante vegetazione narrativa. Eravamo altresì sicuri di incontrare dei personaggi laterali che, appena affacciatisi nella storia, ne sarebbero subito usciti […]: e qui ce n’è una quantità, dal Jesus Quintana (“Non si scherza con Jesus”) di John Turturro che, per due volte, fa il suo numero e se ne va, fasciatissimo nella tutina viola; […] fino al povero Donny di Steve Buscemi, che gira per tutto il film al traino di Dude e di Walter e trova la sua ragion d’essere narrativa soltanto alla fine quando, in questo finto noir pseudochandleriano con neanche un morto ammazzato, è l’unico a crepare, e non di pistola ma di attacco di cuore, e finisce in cenere. […] Ci aspettavamo insomma che Il grande Lebowski fosse, come sempre con i Coen, ricco di segnali e suggerimenti, riferimenti e invenzioni. Eravamo preparati. Eppure siamo rimasti interdetti nel constatare come nel film ci siano molte ma molte più cose rispetto alle tantissime che eravamo sicuri di trovarci. I Coen hanno gonfiato il Grande Lebowski fin quasi a scoppiare. L'hanno fatto rotondo e pieno come una boccia da bowling. E dire che è un film nichilista, che ruzzola e rimbalza, come gli altri dei Coen, sul nulla.
Bruno Fornara, Gira, rimbalza e rotola, “Cineforum”, n. 374, maggio 1998


Abbiamo spesso sottolineato che i film dei fratelli Coen, da Arizona Junior a The Hudsucker Proxy (Mr. Hula Hoop), da Miller's Crossing (Crocevia della morte) a Barton Fink, contengono nel titolo i nomi propri di personaggi e/o luoghi. Questa scelta dice molto sul loro contenuto. […] Il grande Lebowski, con i suoi colori vivaci e le sue ambientazioni anni Sessanta, riflette il mondo di Jeffrey Lebowski, detto Dude, un fricchettone nella Los Angeles dei primi anni Novanta.
La sequenza d’apertura funge da modello per il racconto. Un narratore fuori campo, che non partecipa all'azione, evoca la personalità di Dude attraverso le immagini di un tumbleweed che, sballottato dal vento, lascia le distese del deserto, attraversa senza problemi Los Angeles e il suo intenso traffico stradale e termina il suo viaggio tranquillo su una spiaggia paradisiaca. Queste poche inquadrature riassumono il film, che potrebbe essere descritto come un viaggio miracoloso del suo antieroe stravagante attraverso una trama tanto intricata quanto pericolosa. […]
Questa struttura a trompe-l’œil permette ai fratelli Coen di rinnovare il loro approccio a un tema (il rapimento di una donna sposata e le rivalità generate dalla prospettiva di recuperare il riscatto) che avevano già trattato in Fargo. […] Dude, un antieroe le cui uniche aspirazioni sono giocare a bowling con i suoi amici e fumare erba, viene costretto da tutte le parti in gioco (il marito, sua figlia, un re del porno e naturalmente gli ineffabili nichilisti) a trovare il famoso riscatto che crede sia sparito per colpa sua. Tutto perché un teppista ha urinato sul suo tappeto. Questo punto di partenza la dice lunga su quella che gli autori descrivono come “la loro versione contemporanea di una storia di Chandler, con una trama misteriosa e un personaggio che assomiglia a un detective privato”. Con grande disinvoltura, prendono tutti gli elementi del film noir e li ribaltano.
Philippe Rouyer, The Big Lebowski: Le grand bowling, “Positif”, n. 447, maggio 1998


Anche in questo caso, come in tutti i loro film a partire da Blood Simple, il substrato di riferimento è mitico. I Coen sanno bene che l’universo – le cose, gli esseri – è strutturato come discorso e immaginario cinematografico, che il mondo è fabula. Nel Grande Lebowski, è noto, la struttura a cui si rimanda è quella del noir chandleriano. I luoghi comuni del genere ci sono quasi tutti, è inutile elencarli, sia nei personaggi che nelle situazioni, sia soprattutto nelle false piste disseminate lungo questa improbabile detection. La catena del prendere un facsimile per un fac-simile è infatti quella che fa sì che ogni citazione venga convocata per essere smentita, messa in ridicolo e quindi falsificata (la scena del blocchetto, ripresa da Intrigo internazionale, è in questo senso l'esempio più esilarante). Esattamente per questo il mondo descritto da Il grande Lebowsky non contiene le tracce di quella paranoia che così tanto aveva intriso certa cinematografia (e anche letteratura) americana di stampo metalinguistico. Certo, il Dude è per certi versi ancora lo schlemihl di tanta narrativa ebraico americana, lo sfigato, il capro espiatorio ebreo perennemente preso a botte e perseguitato: ma lui stesso è il primo a non darci troppa importanza. Qui infatti non c'è altro ‘complotto’ che quello di un gruppo di deficienti nichilisti capaci di tagliarsi da soli un dito del piede. Non c'è sentimento paranoico quando le cose sono e non sono al tempo stesso, quando gli stessi personaggi sanno unire simultaneamente alle ragioni dell'identità (questo è un chandler movie) la forza della differenza (questo non è un chandler movie).
Michele Fadda, La segatura e le cariole, “Cineforum”, n. 374, maggio 1998


Il grande Lebowski serve a ricordare che i Coen non sono niente di più enigmatico di questo: i più puramente ludici dei registi americani contemporanei. […] La scelta di Jeff Bridges sfrutta furbescamente la sua immagine di ultimo bravo ragazzo di Hollywood, un attore in grado di incarnare in modo convincente e affabile la rettitudine anticonformista. Crea un duetto meravigliosamente calibrato con l'irascibile veterano del Vietnam convertito all'ebraismo interpretato da John Goodman – un'accoppiata perfetta, per quello che sembra materiale da sitcom. Alla fine potrebbe trattarsi di un ‘film sul nulla’ in stile Seinfeld, niente di più che una serie di battute che fanno ridere i Coen (Dude, a quanto si dice, è basato su un loro vero conoscente, un certo Jeff ‘the Dude’ Dowd, che era realmente un membro del gruppo di attivisti The Seattle Seven). Ma in fondo, fare un film così denso di non-sequitur, così sfacciatamente leggero, sembra un atto eroico nel cinema americano contemporaneo. Il grande Lebowski è allo stesso tempo assolutamente insignificante e un bel colpo per l’estetica cinematografica dei fannulloni. La sua ricompensa morale è che, come Marlowe, Dude rimane uguale a se stesso: non ha bisogno di essere redento, di essere allineato con il mondo che abita. Allo stesso modo i Coen, in barba alle regole del genere e perseguendo allegramente il proprio divertimento, si riservano il diritto di rimanere se stessi, ineffabili e neanche lontanamente enigmatici.
Jonathan Romnay, In Praise of Goofing Off, “Sight and Sound”, maggio 1998


Sebbene i fratelli Coen neghino costantemente la possibilità che ci sia un significato calcolato nei loro film, sanno produrre opere sottili e sostanziali anche nei loro esercizi apparentemente più frivoli. Forse nessun film esemplifica meglio questa sorniona negazione e affermazione di significato della loro commedia del 1998 Il grande Lebowski. Parodia della narrativa hard-boiled e dei film noir, combinata con il western, le commedie di Cheech e Chong, i musical di Busby Berkeley e, naturalmente, con il bowling, il film contiene tuttavia una seria disanima sul ruolo del passato, e in particolare della tradizione antibellica degli anni Sessanta, nelle ansie contemporanee per la politica, la guerra e la mascolinità. I Coen si sono appropriati dei temi e delle convenzioni della crime fiction e del film noir per produrre un film sulla separazione netta tra la controcultura degli anni Sessanta e la politica degli anni Novanta, un film sull’abisso invalicabile tra passato e presente.
Più opera nostalgica, quindi, che opera sulla nostalgia, Il grande Lebowski rappresenta il passato attraverso un ampio e vorace pastiche culturale. Uno dei riferimenti più importanti è l'appropriazione da parte dei Coen della trama e dei personaggi del romanzo Il grande sonno (1939) di Raymond Chandler. Superficialmente, questa appropriazione sembra essere strettamente parodica, visto che i Coen aggiornano il detective Philip Marlowe trasformandolo nel perenne fattone Jeff ‘the Dude’ Lebowski. Tuttavia, il loro adattamento è più scrupoloso di quanto possa apparire: ripropongono molti dei temi di Chandler e creano una narrazione noir in cui i personaggi sono ‘intrappolati dal loro passato’, attanagliati da una nostalgia incrollabile e spesso distruttiva. Questa nostalgia rende Dude, come Philip Marlowe prima di lui, ‘un outsider nel mondo moderno’, una reliquia vivente della controcultura degli anni Sessanta che in qualche modo è sopravvissuta in un mondo che svilisce e disprezza lui e i suoi valori. […]
Non è un caso che il film sia ambientato durante la Guerra del Golfo, mentre l'anziano George Bush cerca di scacciare lo spettro del Vietnam con una rapida vittoria sull'Iraq. […] Dude e i suoi compagni si confrontano sulla risposta appropriata all’aggressione e sulla definizione stessa di virilità. I Coen suggeriscono ripetutamente – in un modo che è diventato uno dei loro tratti distintivi, mascherando la sincerità con lo sberleffo – che Il grande Lebowski ruota intorno alla domanda “Che cosa fa di un uomo un uomo?” e che Dude è “l'uomo al posto giusto nel momento giusto” – un improbabile rappresentante della virilità e della virtù che si pone in netto contrasto, ma non può correggere, i valori corrotti della sua epoca.
Marc Singer, ‘Trapped By Their Pasts’: Noir and Nostalgia in ‘The Big Lebowski’, “Post Script”; vol. 27, n. 2, inverno 2008