Il discorso finale

Il discorso finale

Per concludere: il finale. Mi sembrava la fine più logica per questa storia. Qualcuno ha scritto che è in contrasto con il personaggio del barbiere. E con ciò? Cosa c'è di male ad aver deciso di concludere la mia commedia con una nota che riflette, in modo onesto e realistico, la situazione in cui viviamo facendo appello a un mondo migliore?
Sarebbe stato molto più semplice far scomparire il barbiere e Hannah sulla linea dell'orizzonte, al tramonto, in cammino verso la terra promessa.
Ma non esiste alcuna terra promessa per gli oppressi del mondo intero. Non esiste nessun luogo oltre l'orizzonte in cui possano rifugiarsi. Devono cercare di restare in piedi, come noi.
(Charlie Chaplin, 1940)




Il momento clou del film arriva alla fine. Invece di arringare la folla come tutti si aspettano, Charlie pronuncia un appello potente e ostinato a favore della democrazia, della tolleranza e del buon senso. È un discorso straordinario, una sorta di Discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln in inglese hollywoodiano, uno dei messaggi di propaganda più forti che abbia sentito da molto tempo. […]
Qual è, dunque, il dono speciale di Chaplin? È la capacità di rappresentare l’essenza più profonda dell’uomo comune, di riporre una fiducia incrollabile nell’etica, nella moralità che risiede nel cuore delle persone comuni. Viviamo in un’epoca in cui la democrazia sta progressivamente scomparendo, il mondo è messo in scacco da dei ‘superuomini’, il concetto di libertà ci viene spiegato da capo e i ‘pacifisti’ trovano argomentazioni per giustificare il rastrellamento degli ebrei.
(George Orwell, The Great Dictator, “Time and Tide”, 21 dicembre 1940, poi in All Art Is Propaganda: Critical Essays by George Orwell, a cura di Keith Gessen, Mariner Books, New York 2009)




L’ultima gag del film è quella in cui, per la prima volta, Chaplin parla. È lui che pronuncia la requisitoria. I formalisti e gli esteti gli hanno rimproverato questa scelta, per loro la trama dell’opera è più importante dell’appello di un essere umano. Ma Chaplin la pensa diversamente. Film dopo film ha maturato l’urgenza della protesta sociale. Nelle sue comiche, e anche ne Il monello, la sua critica era rivolta alla divisione tra ‘buoni’ e ‘cattivi’. Eppure l’incubo sanguinoso del fascismo, frutto ripugnante del capitalismo, ha dato a Charlot la voce per gridare la sua protesta a pieni polmoni.
(Sergei M. Eisenstein, 1941, in La protesta di Chaplin nel giudizio di Eisenstein, “L’Unità”, 3 febbraio 1961)




Durante gli anni Trenta, un lungo viaggio nel cuore dell’Europa avviata verso la Seconda guerra mondiale permise a Chaplin di allargare ulteriormente gli orizzonti delle sue riflessioni. Probabilmente, tra tutte le personalità che ebbe occasione di incontrare, quella che maggiormente esercitò un impatto sul suo pensiero, perché forse più affine già in partenza, fu proprio Albert Einstein. Nel marzo del 1931, durante la sua tappa berlinese, Chaplin fu invitato a prendere un tè nella casa a sud-ovest della città dove Einstein riceveva regolarmente scienziati, attivisti, scrittori, filosofi, giornalisti e artisti, con cui discuteva di teoria quantistica, guerra, razzismo, religione, politica e sionismo.
Da quanto si deduce leggendo i suoi diari di viaggio, l’incontro offrì a Chaplin un’occasione per sfoggiare il suo neonato interesse per la materia politico-economica, per esporre il suo punto di vista su questioni complesse quali l’effetto dell’introduzione delle macchine sulla richiesta di manodopera, il sistema capitalistico, il prezzo del denaro e il sistema aureo. Ma di fatto appare indubbio che il vero terreno di condivisione tra Chaplin e Einstein fosse quello di un profondo umanesimo nella sua accezione più moderna, la fiducia nella ragione scientifica e i valori di una libera condizione individuale e collettiva. Nell’appello finale del Dittatore riecheggiano gli scritti, le lettere pubbliche e i discorsi pronunciati da Einstein durante la prima metà degli anni Trenta: la sua esortazione all’uomo a riappropriarsi delle proprie sorti e ad ostacolare in ogni modo l’asservimento del progresso al nazionalismo distruttivo.
(Cecilia Cenciarelli)




L'appello agli uomini non tratta il nazismo come un incidente di percorso della storia, ma come il frutto di una scelta che è insieme politica ed etica. Quando mette in scena le paranoie di Hynkel e dei suoi proseliti (Goering e Goebbels in primo luogo, ma anche il buffonesco Napoloni), rappresenta un mondo che è moralmente votato alla sconfitta, ma con la consapevolezza che questa sconfitta non è altro che un sogno, l'infrazione di quel minimo di paradigma di realtà che rimane nella deformazione comica. Alle parole incomprensibili e violente di Hynkel, ai suoi urli scomposti e rabbiosi, oppen l'accoratezza di una presa di posizione etica, non un'ideologia opposta e perciò complementare. Il nazismo – sembra dirci Chaplin – non si combatte con un diverso programma politico, democrazia o comunismo che sia, bensì solo gridando il proprio sdegno e la propria illusione.
È facile oggi – col senno di poi – accusare di ingenuità l'appello agli uomini che chiude il film: facile da destra, per evitare corresponsabilità e sensi di colpa più o meno revisionisti – e facile da sinistra, come a dire un più solido impianto politioc, per esempio marxcista, avrebbe avuto più successo sulla storia. Come se un film potesse cambiare il mondo... Non è escluso che Chaplin ci abbia in qualche modo creduto, ma non cambia nulla: quello che conta è che ci ha rivolto quelle parole e non altre. […]
Intendiamoci: non c'è da scherzare né sul nazismo, né sull'Olocausto; ma ciò non toglie che si possano deridere coloro che li hanno sostenuti o li sostengono tuttora. L'evidenza della crudeltà e della prevaricazione che è alla base di ogni fascismo colpisce più in quelle parole retoriche che non in un trattato di politica che pochi leggerebbero. In questo senso Il dittatore è ancora un film estremamente moderno.
(Giorgio Cremonini)

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