Antologia critica

Antologia critica

Com’è noto (vedi Émilie Deleuze), non è mai facile essere figlia del proprio padre. Eppure, con questo esordio più che promettente, Sofia Coppola dimostra che si può crescere tra la megalomania e il genio cinematografico e produrre comunque un’opera che non deve nulla a nessuno. […] Invece di una commedia acida per adolescenti, Il giardino delle vergini suicide racconta di una lenta discesa agli inferi in cui, dietro alle cerimonie della morale tradizionale, la famiglia Lisbon lotta per nascondere una follia tanto più temibile quanto più addomesticata. Nonostante qualche leziosità e un calo del ritmo a metà racconto, questo film rigoroso e ottimamente diretto dimostra che Sofia Coppola (autrice anche della sceneggiatura, tratta da un romanzo di Jeffrey Eugenides) è già una cineasta da seguire con attenzione.
Olivier De Bruyn, “Positif”, n. 461-462, luglio-agosto 1999


Questo film mette insieme elementi che appartengono a generi tanto distinti quanto ben noti: il racconto adolescenziale, il romanzo di formazione, l’evocazione dolceamara di uno stile di vita particolare, che si colloca dopo la contestazione e prima dell’Aids, in un’America benestante e di provincia. Tutti questi ingredienti sono presenti nel film con un’intensità iperrealista che a volte rasenta il burlesco e a volte sfiora il terrore. Ma la regista ha un modo tutto suo di dispiegare e tenere insieme questi differenti elementi drammatici, mentre si librano le immarcescibili melodie di anni che sono meno i Settanta e più quelli di un tempo remoto, sulle impalpabili volute degli arrangiamenti del gruppo francese Air.
Jean-Michel Frodon, “Le Monde”, 27 settembre 2000


Leggere Le vergini suicide significa soccombere a un nebuloso sogno a occhi aperti linguistico. Il suo narratore è un pronome collettivo; la sua fine è rivelata nella prima frase. E i suoi personaggi principali – le cinque sorelle che si tolgono la vita per ragioni che rimangono misteriose – sono figure sacramentali e sacrificali, più simili a creature di fantasia o leggenda che ad adolescenti americane. Tutto ciò ha richiesto alla Coppola di creare un lungometraggio essenzialmente senza personaggi o storia, e di mantenere l'interesse dello spettatore attraverso stati d'animo, associazioni e immagini significative. Che lo abbia fatto è impressionante, e Il giardino delle vergini suicide dovrebbe calmare il brusio di scetticismo che ha preceduto questo film. Sì, Sofia Coppola è la figlia di un famoso regista e la moglie di un altro, ma è anche lei una regista sicura e fantasiosa. Il suo istinto le dice chiaramente che il film non è solo un mezzo visivo ma anche emotivo, ed è ansiosa di affrontare il dolore, la frustrazione e la sofferenza che ribollono sotto la tranquilla opulenza del suo sobborgo incantato.
A.O. Scott, “The New York Times”, 21 aprile 2000


Debutto sorprendente, quello di Sofia Coppola con Il giardino delle vergini suicide. Come è sorprendente (o non lo è, da un altro e altrettanto legittimo punto di vista di cultura familiare) che dopo cinque minuti di film, se ci si distrae un attimo, non si sia più sicuri di essere in un film della ragazza Sofia, tanto aleggia sulla storia e sullo stile l’aura nostalgica di leggenda contemporanea alla maniera di Rusty il selvaggio e di Peggy Sue si è sposata, entrambi firmati dal padre di Sofia, Francis Ford Coppola. Ed è lo stile la sorpresa del film. Ma è appunto lo stile di Sofia Coppola – elegante, onirico anche nel realismo borghese, sempre a un passo dal Kitsch senza caderci mai dentro, pieno di dettagli precisi e di precisa conoscenza dei movimenti e dei sogni dell’età verde – a dare forza a una storia che avrebbe potuto essere (e per certi versi è) pura fantasia morbosa, non a caso costruita da una mente maschile che affabula dall’esterno, come i ragazzini del vicinato, sulle cinque dee bionde. E, più che gli acuti della tragedia, restano nella memoria la bravura con cui Sofia Coppola sa evocare i comportamenti adolescenziali: come il dialogo via telefono tra due giradischi (si chiamavano così negli anni Settanta in cui si svolge il film) o il risveglio crudele di Lux sul campo sportivo dopo la sua notte d’amore, immediatamente abbandonata dal solito maschietto predatore.
Irene Bignardi, “la Repubblica”, 18 settembre 2000


Ci sono cinque ragazze. Cinque apparizioni immerse in una luce che ha la consistenza ipnotica della formalina. E poi ce le tolgono. Sofia Coppola non cerca di spiegare, di trovare giustificazioni, non vira nell'indagine psicologica, non si addentra in inutili introspezioni, perché sa – figlia di che padre – che a fondare le storie al cinema, è il sentimento del tempo. Il giardino delle vergini suicide [...] riesce a evitare quello che succede spesso quando il cinema rilegge un libro: contraddistinto dalla sua famelica fretta il film sembra leggere d'un fiato e poi darci lo svogliato riassunto di ogni capitolo. [...] In questo film ogni rumore fuori campo – una cicca masticata, una risata, un canto sussurrato – sembra avere il fascino evocativo di un'eco: è un brusio di sottofondo che circonda come fosforescenze elettriche i visi delle ragazze; la casa dove abitano sempre più preda dell'ombra e del buio; il quartiere stesso, che vive dei lenti riti del buon vicinato. Un film che è una piccola, deliziosa lampadina elettrica: un punto di luce – sempre più fioco e intermittente – su cui inchiodare gli occhi.
Silvia Colombo, “Duel”, n. 83, ottobre 2000


Il giardino delle vergini suicide [...] tenta di rifondare la dimensione stantia (sempre più spesso troppo scritta troppo programmatica troppo prevedibilmente già vista) del cinema indipendente americano (stile Sundance). E la rifondazione passa per un film di tracce, che descrive l’orma dilatata del tempo, il vuoto allucinato di una provincia profonda, trova un andamento, una poetica sensibile e intensa, dura e crudele, scopre il ritmo del proprio sguardo. Fotografate dalla luce lividamente visionaria dell’herzogian-wendersian-schraderiano Edward Lachman, queste cinque anime dai contorni pre-raffaelliti, languide e suadenti, vivono la loro breve esistenza in un universo che si vorrebbe glacialmente chiuso [...], ma che invece si espande sulle linee infuocate di sguardi voracemente curiosi e attenti, di sensorialità tese ad apprendere, conoscere, sentire il corpo dell’altro.
Lorenzo Esposito, “Filmcritica”, n. 509, novembre 2000


L'interpretazione insieme nitida e onirica che Sofia Coppola dà del romanzo di Jeffrey Eugenides, ambientato negli anni Settanta, nasce dal desiderio di creare “un film per giovani donne che le rappresenti in modo rispettoso”. Agli insistenti sguardi maschili (dai marciapiedi, attraverso le aule scolastiche fino alle telecamere che sorvegliano le strade) il film contrappone gli sguardi seducenti delle ragazze stesse, trasformando le cinque sorelle Lisbon, chiuse nel loro isolamento, in misteriosi oggetti di fascino cavalleresco per i ragazzi della periferia locale. La cinepresa indugia con vertigini femminili su Josh Hartnett, il rubacuori della scuola, e si diletta con Kirsten Dunst, Lux, affamata d'amore, che salta in macchina per baciarlo con ferocia animale. È un film sull'osservare e sull'essere osservati, che cresce di intensità nel momento in cui le ragazze si riducono a fissare l'esterno proibito, dopo che la madre religiosa (una sottile, austera Kathleen Turner) le costringe agli arresti domiciliari. Coppola crea un effetto impressionistico, inserendo le fantasie velleitarie dei ragazzi sulla vita da recluse delle ragazze accanto ai ricordi scomposti, frammentati che compongono la narrazione.
Kate Stables, “Sight and Sound”, n. 5, vol. 33, giugno 2023