Gli attori: più importanti dei personaggi

Gli attori: più importanti dei personaggi

Quando si fa un film, si lotta per farlo, lo si fa con sofferenza o con gioia. E poi, rivedendolo qualche anno dopo, si dimenticano gli errori di regia che ci hanno fatto soffrire durante il montaggio o il missaggio; si dimenticano gli errori di sceneggiatura; si dimenticano, al limite, anche gli errori di produzione. Ma l'unica cosa che non si può dimenticare è l'errore nella scelta di un attore. Quando hai preso un attore che non dovevi prendere, rivedendo il film sette anni dopo è ancora una sofferenza. Ti dici: eh no, mi sono sbagliato, non bisognava prendere quello là.
Questa volta, invece, ho l'impressione che la fortuna del film sia stata di formare un cast che funziona benissimo e ogni tanto dà l'impressione che i ruoli siano molto vicini agli interpreti, anche se non è vero, perché a volte c'è una grande differenza. Però, malgrado questo distacco, esiste questa omogeneità che sono felice di aver ottenuto, questo confronto tra attori professionisti e altri meno noti che interpretano il ruolo dei tecnici che si sono mescolati ai veri tecnici di Nizza. E se tutto ciò dà l'idea di una famiglia molto omogenea, ebbene ne sono felicissimo.
François Truffaut in François Truffaut. Tutte le interviste sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 2005


Jaqueline Bisset

Per Truffaut, Jaqueline Bisset corrisponde perfettamente al personaggio di Julie Baker. Di origine scozzese per parte di padre, francese per parte di madre, l'attrice, dopo una carriera di modella, ha cominciato la sua carriera in Inghilterra con Non tutti ce l'hanno (1965) di Richard Lester e Cul de sac (1966) di Roman Polanski, prima di stabilirsi a Hollywood nel 1968. Bullit (1968) di Peter Yates (con Steve McQueen), Inchiesta pericolosa (1968) di Gordon Douglas (con Frank Sinata), Airport (1970) di George Seaton (con Dean Martin e Burt Lancaster) e L'uomo dai sette capestri (1972) di John Huston (con Paul Newman) l'hanno resa una star hollywoodiana. Il suo incontro con Truffaut, che lei ammira da molto tempo, avviene in un modo insolito. Durante un soggiorno di qualche giorno a Parigi, Jaqueline Bisset riceve in albergo una chiamata di Gérard Lebovici: “Sono l'agente di François Truffaut e vorrei sapere che cosa ne pensa della sceneggiatura”. L'attrice pensa inizialmente che si tratti di uno scherzo. “Pensavo che quell'uomo al telefono stesse scherzando – riferisce Jaqueline Bisset – e gli ho chiesto di ridirmi chi fosse e che cosa volesse. "Sono l'agente di François Truffaut, l'ho contattata per sapere se le piace la sceneggiatura". Stupefatta, gli ho risposto che non avevo mai sentito parlare di una sceneggiatura”. Chiarito l'equivoco, Jaqueline Bisset chiede di farsene lasciare una copia in albergo. “Ho pensato che la parte non era molto lunga, ma l'avrei fatta anche se avessi avuto una sola battuta da pronunciare”. Più tardi, parla al telefono con Truffaut: “Mi ha detto che non aveva molti soldi per fare il film, quindi non avrebbe potuto pagarmi tantissimo, che la parte non era molto importante, che era un film con parecchi personaggi. Tutto con una grande educazione e una grande umiltà”. Da solo, il cachet abituale di Jaqueline Bisset equivarrebbe al budget totale di Effetto notte. Ma il contratto che firma l'attrice nel marzo del 1972 con la Carrosse specifica che, oltre alla sua retribuzione di 200.000 franchi, riceverà il 20% sugli incassi. Quella è una chiara prova del suo desiderio di lavorare con Truffaut, uno dei cineasti che ammira di più al mondo insieme con Ingmar Bergman.
Antoine de Baecque, Serge Toubiana, François Truffaut. La biografia, Lindau, Torino 2003

Nel personaggio interpretato da Jacqueline Bisset ho messo molti ricordi del lavoro con Julie Christie in Fahrenheit 451: sono tutte e due inglesi e le attrici inglesi hanno qualità morali diverse da quelle delle attrici francesi. Sono franche, leali e allo stesso tempo molto femminili. Qualche volta, per esempio, sono molto brutali nelle domande che pongono... Jacqueline Bisset è in questo film la sintesi delle quattro inglesi con cui ho lavorato.
François Truffaut in François Truffaut. Tutte le interviste sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 2005


Jean-Pierre Leaud

Jean-Pierre Léaud è Alphonse, romantico, spesso capriccioso e instabile, al punto da fare interrompere le riprese. Assomiglia moltissimo al Léaud dei primi anni Settanta, incoraggiato da Truffaut a intraprendere una 'vera carriera di attore'. Dopo Le due inglesi, Léaud ha recitato per Glauber Rocha (Il leone a sette teste, 1970), Luc Moullet (Une aventure de Billy le Kid, 1971), Bernardo Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, 1972), e soprattutto Jean Eustache con il quale ha appena terminato La Maman et la putain (1973). Nonostante le sue esperienze, l'attore ha difficoltà a liberarsi del personaggio di Antoine Doinel e dell'immagine di 'figlio di Truffaut'. Depressioni, euforie, voltafaccia, problemi di soldi, fallimenti sentimentali si succedono nella sua vita, tanto da disorientare la gente del cinema. […] In Effetto notte, il personaggio di Alphonse è fragile quanto Jean-Pierre Léaud nella vita. E il suo rapporto con Ferrand sembra ricalcato su quello che lo lega a Truffaut.
Antoine de Baecque, Serge Toubiana, François Truffaut. La biografia, Lindau, Torino 2003

Jean-Pierre Léaud m'ispira molto. Mi basta partire da un'idea, aggiungerci Jean-Pierre e ho già un terzo della sceneggiatura. Me lo immagino subito in questa o quella situazione, so cosa gli farò dire, so come reciterà, e questo mi stimola molto. […] So che Jean-Pierre Léaud oggi è contestato, ma è contestato perché comincia a esistere. La gente mediocre non la si contesta. Léaud fa parte di quegli attori, come Jeanne Moreau del resto, tanto generosi da dare a volte troppo o in modo sbagliato; e a quel punto gli si dà addosso. Ma la loro ricchezza consiste proprio in questa capacità di dare tanto, e io non sto affatto in pensiero per Jean-Pierre.
François Truffaut in François Truffaut. Tutte le interviste sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 2005


Valentina Cortese

Esistono personaggi che determinano il corso di un’intera carriera, quando questa sembra essersi ormai assestata verso un pur onorevole viale del tramonto o, di convesso, una monumentalizzazione data dal grande avvenire dietro le spalle. Scene che entrano nella memoria personale e collettiva degli spettatori, immagini, parole, suoni talmente esatti da definire un orizzonte unico e universale al contempo. La performance di Valentina Cortese in Effetto notte fa parte di questo mondo.
Séverine è la quintessenza del mestiere d’attore. Anzi: del mestiere d’attrice. Non più giovanissima, non più sulla cresta dell’onda, non più in palla. Valentina/Séverine si ricerca nello specchio: con addosso la parrucca, la sessione di trucco è l’occasione per fare un punto sulla propria carriera, addomesticare i dolori privati con la terapia del lavoro, accettare l’idea che invecchiare fa schifo e un bicchierino può aiutare, magari senza esagerare, ma come fai a non eccedere con quello statuto divistico?
Dove riconosci la grande attrice? Nelle scintille. Valentina è Séverine, al netto della vita. C’è la sua vita dentro quel personaggio, e quella di tutte le attrici di mezz’età giudicate troppo vecchie per essere ancora le protagoniste, le eroine romantiche, le amanti impetuose. C’è un pezzo di Effetto notte che è un trionfo di scintille, un capolavoro d’attrice: Séverine è sul set, un po’ brilla, trattiene le lacrime perché è una professionista, non si ricorda le battute giuste e allora le legge su fogli appesi in posti strategici, sbaglia ad aprire le porte e costeggia la follia.
Lorenzo Ciofani, Valentina Cortese e come si aprono le porte sbagliate

Alla cerimonia degli Oscar del 1974 Ingrid Bergman, caratterista di lusso nel film all-star Assassinio sull'Orient Express che Sidney Lumet ha ricavato da un classico giallo di Agatha Christie, è omaggiata da un nuovo Oscar, il suo terzo, come attrice non protagonista. […] Sul palco, quando tocca a lei ritirare il trofeo, commenta: “E sempre piacevole ricevere un Oscar, ma spesso le scelte dall'Academy risultano frettolose e inopportune. L'anno scorso, dopo aver visto Effetto notte, tutte noi attrici abbiamo capito che l'interpretazione migliore dell'annata era quella di Valentina Cortese. Io sono qui al suo posto e non lo trovo giusto... Ti prego di scusarmi, Valentina”. Le telecamere inquadrano l'attrice italiana, seduta in platea, che le manda baci con la punta delle dita. Il giorno dopo, Charles Champlin scrive sul “Los Angeles Times” di aver assistito al “gesto più nobile del decennio”.
Roberto Casalini, Maria Grazia Ligato, L'avventurosa storia degli Oscar, Rizzoli, Milano 2002


Truffaut attore

Il fatto che io abbia interpretato il ruolo del regista è la causa che mi ha impedito, forse, di dire certe cose che avrei detto se avessi scritturato un attore. Penso di aver detto più cose sui personaggi che circondano il regista che non sul regista stesso. Ma vedendolo comunque collegare tutti i fili – in fondo è il suo lavoro all'interno di questa équipe – credo che si indovinino molte più cose di quante ne avessi voluto dire apertamente, almeno spero. […]
Ho provato l'emozione di trovarmi davanti alla macchina da presa, ‘accanto’ a Jean-Pierre. Sono stato più a mio agio a recitare in questo film che nel Ragazzo selvaggio, forse perché non c'è la rigidità dei film d'epoca, del costume e della lingua, e anche perché l'ho visto come un reportage, come se si facesse un film televisivo sul mio lavoro.
Perché l'apparecchio acustico? Avevo bisogno di un piccolo scollamento dalla realtà. Ho problemi di comunicazione e questo apparecchio mi dava l'equivalente di un posticcio per un attore. Volevo qualcosa che non fosse legato al trucco, per non perdere tempo ogni mattina a mettermi un naso finto o una parrucca o cose del genere. Perciò ho scelto questo apparecchio acustico che mi bastava mettere nell'orecchio e mi aiutava a recitare. Sapevo di non essere più me stesso, non ero più veramente Truffaut, ero Ferrand (il mio nome nel film). Ferrand è un regista al quale ho regalato molte delle mie reazioni. Insomma, mostro più o meno qual è il mio comportamento durante la lavorazione di un film, cioè cercare di mantenere una buona atmosfera, non mostrare che sono preoccupato quando lo sono, dimostrare che bisogna accettare l'idea che gli attori sono più importanti dei personaggi che interpretano, l'idea che ciò che è vivo conta più di ciò che è teorico. Questa teoria viene da Renoir, ma io l'ho sempre sentita come mia. L'idea, infine, che anche le sciocchezze possono servire a migliorare, possono servire ad arricchire un film invece di impoverirlo.
François Truffaut in François Truffaut. Tutte le interviste sul cinema, a cura di Anne Gillain, Gremese, Roma 2005