Antologia critica

Antologia critica

Visto che si tratta del soggetto di Effetto notte, parliamo di cinema. Quello di François Truffaut, in modo quanto mai evidente, essenzialmente alla ricerca di una giusta tonalità e di uno stile sempre più raffinato. Come tutti i cineasti che si pongono molte domande, Truffaut aveva più chiaro cosa voleva evitare rispetto a ciò che voleva ottenere. Detestava quella forma di cinema che potremmo definire 'abusivo': l'enfasi, lo sfruttamento dell'erotismo, la violenza, la sistematica accentuazione dei toni. Nell'accingersi a girare Effetto notte, Truffaut non è tanto interessato all'idea di fare un film sulla creazione demiurgica come  di Fellini, quanto piuttosto a cercare il giusto tono per descrivere la vita reale che anima il set di un film. A Truffaut piace sviluppare questa arte dell'aneddotica che ammirava nel cinema di Jacques Becker e che fa somigliare Effetto notte a una sorta di equivalente cinematografico della canzone di Charles Trenet Moi, j'aime le music-hall, nella quale il cantante ricorda in modo raffinato e divertente gli artisti in voga e il piacere leggero dello spettacolo. Nel film assistiamo quindi a una successione di scenette, come quella del gatto che si rifiuta di bere il latte, o dell'attrice che accetta di girare solo a patto che a colazione le venga servito un intero panetto di burro, o quella dell'apertura della porta, che Valentina Cortese, troppo stressata, sbaglia ogni volta; tutti questi 'aneddoti', per Truffaut, contano molto più dei tormenti creativi del regista Ferrand, interpretato da lui stesso. Come accade sempre nei suoi film, ci troviamo di fronte a un personaggio (Ferrand) che deve raggiungere uno scopo (finire il film). Ma in questo caso la meta è un po' come il trasporto delle mandrie in Il fiume rosso (Howard Hawks 1948): un pretesto per elencare tutte le difficoltà che sopraggiungono prima di arrivare a destinazione. L'accumularsi di imprevisti durante le riprese rende Effetto notte un film completamene costruito sull'arte della narrazione, ma privo di veri punti di forza. Un racconto che si sviluppa attraverso un susseguirsi di colpi di scena, di colpi di testa dei personaggi, senza alcuna preoccupazione psicologica. Presa separatamente, ogni sequenza sembrerebbe gratuita, priva di interesse. L'arte di Truffaut si basa sul legame tra gli elementi, non sugli elementi stessi.
Da qui l'aspetto di 'film corale' di Effetto notte, la mancanza di gerarchia tra la star e la segretaria di edizione. Truffaut struttura il suo racconto e la sua regia secondo il sistema della gravitazione tanto caro a Jean Renoir. Per poter esistere, ogni personaggio deve costantemente girare intorno agli altri. Questo movimento gravitazionale genera il tono leggero e piacevole proprio della commedia; ma le scene in albergo, che evocano irresistibilmente quelle recitate nei corridoi del castello della Colinière in La regola del gioco, assumono di colpo un tono grave, serio, persino sofferente. È per questo che il film è così emozionante: possiede il ritmo segreto della gravitazione perpetua e dei movimenti della vita. Truffaut si concentra sulla verità di un attore o di un personaggio, che può essere completamente diversa dalla verità dell'istante seguente. Questo spiega il gusto del cineasta per i personaggi contraddittori (Jean-Pierre Léaud), animati da riflessi imprevedibili. Le riprese descritte nel film sono dunque sistematicamente messe in pericolo dalle pulsioni degli attori che vi recitano. Le inquadrature di Truffaut sono aperte, non pongono limiti. Profondità di campo, ampiezza, spazio aperto a destra come a sinistra: tutto ciò che può generare aneddoti e difficoltà durante le riprese del film sembra sempre esistere ai margini o fuori del campo. Tuttavia anche ciò che è presente in campo può uscirne in qualsiasi momento, come il gatto che l'attrezzista cerca in tutti i modi di trattenere all'interno dell'inquadratura e che continua ad andarsene.
Rimane il fatto che la discontinuità dei comportamenti che disturba le riprese di Je vous présente Paméla è attribuita, come spesso accade in Truffaut, a problemi di identità e di 'paternità' che i personaggi si trovano ad affrontare: la segretaria di edizione è incinta, l'attrice Julie Baker ha sposato (nella vita) un medico che potrebbe essere suo padre, Valentina Cortese si dà all'alcol a causa della leucemia del figlio, e così via. E come sempre nei film di Truffaut, i personaggi inseguono le promesse della scrittura (qui, della sceneggiatura). Se la lavorazione di un film rappresentava per Truffaut un soggetto ideale, tutto doveva avvenire in fretta, precipitosamente, in modo che il tono di insolita inquietudine che caratterizza il suo cinema potesse trovare piena espressione nello stato di panico e di finta calma che caratterizza la vita di un set.

Jean Douchet, Enciclopedia del Cinema Treccani – I film (2004)


Giunge spesso nell’opera di un regista il momento metalinguistico e metacritico: Keaton, Chaplin, Renoir, Clair, Schoedsack, Powell, Fellini, Antonioni, Berkeley, Donen, Russell, Hopper, Robbe-Grillet, Godard sono solo alcuni nomi fra coloro che con alterni risultati vi hanno provato. Truffaut l’ha fatto per tutta la vita.
Jules et Jim è una lunga confessione d’amore per il cinema; la macchina da presa, nervosa, inquieta è per Truffaut il mezzo della sua comunicazione-confessione, e come tale egli la guarda affascinato, attento, deciso a trarne fuori tutte le possibilità tecniche. In La sposa in nero essa è, fra l’altro, l’occasione di un omaggio a un maestro a lui caro, quell’Hitchcock su cui ha scritto un
fondamentale volume. In Baci rubati è l'occhio che gli permette ai seguire passo passo Antoine (ovvero se stesso) come una specie di lente d'ingrandimento della verità quotidiana che vuole comunicarci. In Non drammatizziamo... è solo questione di corna è il filtro finissimo della sua ironia, efficace fino all’assurdo (la geniale trovata di quel fiore rimasto bianco in mezzo agli altri colorati di rosso!). E così via. Oggi tutto questo, e altro ancora, svela programmaticamente la sua impalcatura tecnico-narrativa. Parafrasando Stendhal, diremo che in Effetto notte il cinema è uno specchio portato davanti alla macchina da presa. Ma è uno ‘specchio magico’, perché non solo riflette il set, non solo riflette, svelandoli, coloro che operano fuori del campo: nello specchio vediamo infatti riflesso lo specchio stesso, il cinema, o meglio, la vita.
Effetto notte narra di due film, quello ‘fittizio’ e quello ‘vero’. Ma Truffaut si chiama Ferrand e gira un film la cui credibilità è più che sospetta. Dirà Julie, dopo un momento di incertezza, a chi solleva questa domanda: “Nel momento in cui accetto un copione credo che questo piacerà anche al pubblico”. La debolezza della risposta è rivelatrice: Je vous présente Pamela non è un film di Truffaut, è solo un film, e come tale è metafora di qualunque film. Non è un film ‘politico’, non è un film ‘erotico’: Ferrand/Truffaut, ce lo dice lui stesso, non ne fa. Je vous présente Pamela è semplicemente un archetipo cinematografico, così come archetipo è il suo soggetto. […]
L'impiego di questi riferimenti, meglio, di queste presenze, non è certo gratuito e puramente cinefilo o narcisistico. Semplicemente, è il corrispettivo tangibile dell’iter culturale di una ‘generazione’ di registi, ed è la storia personale di Truffaut raccontata enumerando i propri affetti inestricabili. Perché come e più degli altri suoi film (perfino di Il ragazzo selvaggio), Effetto notte è anche un film sugli affetti. Su affetti culturali, certo, ma anche su affetti umani (e chi può dire, in Truffaut, dove finiscono gli uni e incominciano gli altri?). Ed è questo il senso e il valore finale delle sue ‘dediche’ (a Langlois Baci rubati, a Renoir La mia droga si chiama Julie, a Léaud Il ragazzo selvaggio, alle Gish Effetto notte). Se il cinema è “più armonioso” della vita (in quanto in esso i frammenti di cui è fatta la vita riescono a riunirsi) è normale che esso sia per Truffaut la sua vita, vissuta insieme nel momento operativo come in quello descrittivo. Truffaut, si diceva, ci racconta se stesso (come del resto fa qualsiasi artista: Thomas Wolfe diceva di non conoscere romanzo più autobiografico di I viaggi di Gulliver), identificando, più o meno direttamente, questo racconto con quello che il cinema fa del cinema.

Franco La Polla, “Filmcritica”, n° 237, settembre 1973


Ce film est dédié à Lillian et Dorothy Gish (François Truffaut)
“Con Alexandre scompare tutta un’epoca del cinema. Si abbandoneranno gli studi, i film saranno girati per le strade, senza divi e senza copioni. Non si faranno più film come Je vous présente Paméla”. Non è la più bella dichiarazione che Truffaut possa fare, in un ‘film di sintesi’ come La Nuit américaine – la definizione è sua –, per celebrare, retrospettivamente, la nouvelle vague, di cui è stato uno degli artefici? Je vous présente Paméla, con Alexandre (Jean-Pierre Aumont) nel ruolo del padre che ruba la moglie al figlio Alphonse (Jean-Pierre Léaud) è il film (a) nel film (b) intitolato La Nuit américaine: il film-campione a, vecchio stile, immaginato da Truffaut come una superproduzione all’americana girata negli storici studi La Victorine a Nizza, con tanto di star, scenari ricostruiti e dispendio di trucchi e illusionismi. Per cui b è il dietro le quinte di a, con gli attori, non più di cinque – più il regista Ferrand impersonato dallo stesso Truffaut, il produttore, la script girl e alcuni tecnici –, che alla fine delle riprese svestono i panni della cronaca d’ambiente inglese (in a Alphonse ucciderà Alexandre in effigie, in b Alexandre morirà davvero in un incidente d’auto) e tornano a essere se stessi, alle loro vicende personali, spesso, come nel caso di Léaud, ingarbugliate al punto da creare interferenze tra a e b. È in questo sottile gioco metacinematografico che consiste il fascino di La Nuit américaine, in questo suo continuo incrociare a con b, con un gioco speculare in virtù del quale, grazie a b, Truffaut può svelare gli artifici di a: da quelli tecnici, come appunto la nuit américaine, il trucco, nato negli studi hollywoodiani, della metamorfosi del giorno in notte (day for night) con l’adozione di un semplice filtro ottico, a quelli recitativi, con l’emozione della vita reale che si sublima in cinema, pienamente risolto in se stesso. Perché “i film sono più armoniosi della vita, i film avanzano come treni nella notte, e arrivano sempre a destinazione”, dice Ferrand/Truffaut all’eterno cucciolo Léaud, sempre a un passo dal diventare adulto e sempre incapace di compiere quel passo.

Sergio Arecco, Il Cinema Ritrovato XXXI edizione, Edizioni Cineteca di Bologna, 2017


Il saggio conosce l’amore di Dio; sa che l’amore deve essere fatto di innocenza, di pietà e di tenerezza. Truffaut è un saggio, è pieno di amore, e capisce Léaud nel suo essere rimasto bambino. […] Il grande uomo di cinema è di conseguenza un saggio, è un Dio che distribuisce equamente i suoi doni; per tutta la lavorazione di Paméla, Truffaut ci fa vedere con la grazia della sua musica e dei suoi segni, del suo insegnamento e del suo amore, che bisogna sforzarci di amare per imparare a saper amare. La parabola di Truffaut è sempre stata qui, nella grande tenerezza che quotidianamente si sforza di capire, di aprirsi, di diventare segno e sostanza. Il professore davanti al ragazzo selvaggio trovato nella foresta si comporta così, e così in La mia droga si chiama Julie Belmondo con la Deneuve: qui la parabola balzachiana era talmente scoperta da diventare (vedi poi Le due inglesi) effettistica: l'amore vinceva sul desiderio della distruzione, investiva il nostro povero mondo fatto di oggetti vuoti, di danaro e di stupida ambizione.
Truffaut è un saggio pieno di amore, è un padre che non ha avuto figli e ama tutti i figli del mondo, della commedia banale e dolce. Truffaut è sempre profondo nella sua apparente superficialità, egli ci dice che il cinema non è mai superficiale, che un film non è mai banale e vuoto. I libri che egli pone sul tavolo mentre discute ai telefono sulla musica del suo film sono libri dedicati a Hawks, Godard, Rossellini, Lubitsch, ai maestri del pensiero lucido e lieve, della saggezza misurata sulla matrice del linguaggio filmico severo e dolce.
Questo di Truffaut ci presenta un bambino che non guarda le donne dal buco della serratura ma ama il cinema nella sua avventura, nel sogno e nell'amore, un bambino che fa raccolta di fotografie di film, come facevo io e come del resto ogni persona che ami il cinema ha fatto, dato che è inutile fare del falso raziocinio, fare i duri e i razionali ad oltranza: se una cosa la si ama la si vuole sempre accanto, la foto della persona amata, Hitchcock, Hawks e Rossellini... Con questa difesa/amore dei cinema non è che la vita si nasconda e si eluda, non è che noi si corra su e giù per i campi elisi, con la cinepresa e con le foto di Hawks, non è che si sogni: la vita viene arricchita, il cinema è un mezzo per capirla, amarla e quindi renderla con un linguaggio vero e autentico.
La grazia di Truffaut, questo suo oltre fatto di profonda armonia interiore, non è un segno esteriore e meccanico, viene da un lungo amore, dal perdono, da un senso di pietà e di riconoscenza, per tutti quelli che hanno fatto il cinema, da Hedy Lamarr a Lubitsch. Truffaut ha dato al pubblico la prova di un grande rispetto e quindi di un amore veramente libero e consapevole.

Giuseppe Turroni, “Filmcritica”, n° 237, settembre 1973


Effetto notte (titolo che traduce esattamente, nel gergo tecnico del cinema, l'originale francese La nuit americaine) sarebbe, adottando la numerazione felliniana e includendo nel conto il mediometraggio Antoine e Colette, il '13 e 1/2' di François Truffaut. Dieci anni dopo l'insuperabile modello italiano, egli 'osa' (il verbo è suo) intraprendere il suo film “solo perché si fermava ‘prima’ delle riprese e riguardava solo la preparazione”. Truffaut desidera invece confrontarsi non con l'idea nella mente dell'autore (impersonato da un mediatore, cioè da un attore 'alter ego'), bensì proprio con la lavorazione concreta governata da un regista dal nome fittizio (Ferrand), ma impersonato da lui stesso. Entrambe le opere hanno una forte componente autobiografica, ma è l'unico legame che hanno. Se Fellini/Mastroianni è in crisi (o almeno dichiara di esserlo) e il progetto del film gli si forma e consolida attraverso l'indagine di questa crisi, al contrario Ferrand/Truffaut si dimostra sicuro del fatto suo e in pieno possesso dei propri mezzi; e il film filerebbe come un "treno nella notte", se non ci fossero gli inevitabili ma superabili intralci, comuni – da che cinema è cinema – a tutte le lavorazioni. Vale a dire quei problemi caratteriali, sentimentali, tecnici e finanziari che il regista è chiamato, come un deus ex-machina, a dirimere, se vuol condurre a buon fine il progetto stesso. Sono le irruzioni della vita reale, che può essere "disgustosa" e comunque è sempre imprevedibile, nel bel mezzo della "finzione" che, come tale può essere sognata e organizzata nella maniera più classica e "armonica", con un suo inizio, un suo svolgimento, una sua conclusione. Perfino alla più irreparabile delle tragedie umane – la morte – il cinema, nella sua "magica" onnipotenza, riesce a trovare rimedio: un attore che scompare può essere sostituito dalla controfigura. Una volta, moltissimi anni prima, un regista francese intitolò un suo film La macchina per rifare la vita. Poi venne Cocteau a definire il cinema "la morte al lavoro". Quanto a Truffaut, ha sempre sostenuto – ribadendolo in modo speciale per Effetto notte – il cinema come personale "ragione di vivere". Eppure nessuno di questi concetti è, per lui, opposto agli altri. Il rapporto tra vita e morte, e del cinema con entrambe, è in Truffaut inscindibile, ed è la chiave fondamentale per entrare nella sua opera.

Ugo Casiraghi, Vivement Truffaut, Lindau, Torino 2011


Léaud non ha, non vuole, non riesce ad avere un padre, dentro o fuori dal film. Truffaut-regista non è per lui padre, ma amico paziente (“il film, avanza come un treno nella notte, al di là dei problemi personali”, gli dice per riscuoterlo in un momento di sconforto... amoroso): e anch'egli, apparentemente così calmo e misurato, ha i suoi problemi, i suoi incubi. Fare un film vuol dire decidere ogni momento, scegliere tra mille cose, per esempio tra infiniti diversi angoli di ripresa. Per questo un film è anche, sempre, un manifesto di morale. Poi ci sono le ombre dei padri, dei maestri, dei testimoni di matrimoni: al regista arriva durante la lavorazione un pacco di libri ordinati a Parigi, libri su RosselIini, Hitchcock, Renoir, Dreyer, Bresson, Godard, Hawks, Bergman, Lubitsch... Lubitsch; L’incubo del regista è infatti la notte americana, il bambino che nella notte in bianco e nero si avvia furtivo a staccare dai tabelloni del cinema chiuso le foto del film amato: Quarto potere. Non stonano queste citazioni, dato che è un film sul cinema, molto chiaro e molto confessato (contemporaneamente misterioso), non stona la partenza stile western della troupe lungo rue Jean Vigo. Mentre Godard ha fatto un film (uno? lungo però venti ore) sull'impossibilità di fare un film, Truffaut ne fa uno sull’impossibilità di non farlo, per chi ama li cinema, pur muovendosi nella melma. La magia del cinema cioè, di certo cinema.

Enrico Ghezzi, “Filmcritica”, n° 237, settembre 1973