La critica

La critica

Noto per il poema sinfonico dedicato ai film nitrato Decasia (2002), Bill Morrison torna al cinema per comporre una spensierata ballata sulla corsa all'oro fatta di cinegiornali, melodrammi, commedie e attualità mute. Nella sua analisi Morrison mette in parallelo il cinema dei primi tempi con gli insediamenti bianchi nell'ultima frontiera selvaggia del Nord America, gli scavi archeologici degli storici del cinema con quelli dei cercatori d'oro. Il suo è uno sguardo complesso e olistico sulla storia del Nord America, dagli incontri dei coloni con le popolazioni autoctone, i cui accampamenti per la pesca diventarono il luogo di fondazione di Dawson City, al crollo del capitalismo negli anni della Depressione, con le sue conseguenze devastanti […].
Il film di Morrison offre inoltre un punto di vista originale su come la nostra comprensione della storia venga influenzata dai media che la documentano, e rivela che l'effetto Ken Burns [lo zoom all'interno di un'immagine fissa] venne ideato quando i filmmaker canadesi Colin Low e Wolf Koenig scoprirono e utilizzarono le fotografie di Dawson City di Eric A. Hegg.
[…] Inventivo e arguto, Dawson City stimola sia la riflessione sia l'immaginazione con la sua rievocazione critica di quel mito della frontiera conosciuto attraverso innumerevoli (false) rappresentazioni hollywoodiane.

Sophie Mayer , “Sight and Sound”, 2 novembre 2016




Bill Morrison ci consegna un degno seguito del suo classico del 2002 Decasia con un nuovo poema sinfonico dedicato agli splendori del cinema muto. Ispirato al ritrovamento di centinaia di film muti rimasti a lungo sepolti nella città che dà titolo al film, Dawson City delizierà i cinefili con le sue molte immagini tratte da film precedentemente ritenuti scomparsi. […] Morrison utilizza gran parte di questo materiale come base per un film che affronta diverse tematiche. Racconta la storia della scoperta e della conservazione di queste pellicole, merito soprattutto dei due storici dello Yukon Michael Gates e Kathy Jones-Gates, ma affronta anche la storia del cinema e la storia della città, che una volta esaurita la corsa all'oro dovette affrontare tempi molto bui.

Ma è proprio questo footage muto e tremolante che rende Dawson City indimenticabile. Una parte del materiale è in condizioni perfette, un'altra, come già in Decasia, in vari stadi di decadimento. Che mostri attori ormai dimenticati, star del muto come Charlie Chaplin, Fatty Arbuckle e William Desmond Taylor, figure storiche o eventi tristemente noti come la World Series del 1919, il materiale salvato si dimostra tutto affascinante. E se l'accompagnamento musicale di Alex Somers è a tratti prevaricante (le musiche di Michael Gordon per Decasia erano meno invadenti), esso contribuisce in modo efficace a creare un'atmosfera elegiaca.
[…] il film è una capsula del tempo che ci cattura con il suo struggente elogio di un'età del cinema ormai perduta.

 Frank Scheck, “The Hollywood Reporter”, 26 ottobre 2016




Per oltre trent'anni, il filmmaker Bill Morrison ha riportato in vita immagini dimenticate ricollocandole in contesti storici e culturali altrettanto trascurati. I suoi lavori, tra i quali Decasia (2002) e The Miners’ Hymns (2011), non fanno luce solo sulla storia del cinema ma svelano il passato in modi che altri documentaristi non sono mai stati in grado di eguagliare. Morrison è come un tecnico forense che costruisce i suoi film a partire da prove concrete.
Nel suo ultimo Dawson City, la prova è rappresentata dalle bobine di pellicole nitrato sepolte sotto una pista da hockey in una città dello Yukon verso la fine dell'epoca muta. Riscoperti quasi quarant'anni dopo, i materiali poi conservati e restaurati includevano anche le uniche copie esistenti di lungometraggi, corti e cinegiornali girati tra l'inizio del secolo e metà anni Venti. Utilizzando una parte di questi filmati e altri materiali d'archivio, Morrison indaga l'ascesa e la caduta di Dawson City, città dedita all'estrazione dell'oro che ha ispirato romanzieri, drammaturghi e cineasti.
Morrison tratta temi ancora oggi attuali. Il consolidamento del capitale, lo sfruttamento del lavoro, l'inquinamento ambientale, lo sviluppo dell'industria dell'intrattenimento, si ritrovano tutti all'interno del film. Mescola scene e performance da film che abbracciano decenni e crea una nuova narrazione che aiuta a illuminare il passato. Le immagini sono legate tra loro dalla drammatica colonna sonora di Alex Somers, collaboratore dei Sigúr Ros (il cui fratello John ha collaborato al sound design). Come altri lavori di Morrison, Dawson City dà allo spettatore la possibilità di godersi la lucentezza della pellicola nitrato. Dal 1906 i film si sono perfezionati ma, stando a queste immagini, raramente sono stati così belli.

Daniel Eagan, “Film Comment”, 6 ottobre 2016




Ci sono almeno tre film diversi dentro Dawson City: Frozen Time. Tre storie che hanno tutte a che fare con il cinema e che del cinema sono a loro modo declinazioni, espressioni, riflessi. Il documentario di Morrison – che potrebbe essere riscritto e ricostruito in innumerevoli modi, perfino come una trilogia o come un film dell'orrore – è una storia di fantasmi, di morti che tornano in vita ed è un viaggio nella memoria di un tempo perduto di cui il cinema è vero e proprio medium. Inteso nel senso esoterico di qualcosa che è in grado di resuscitare i defunti.
Lo spunto da cui parte Dawson City è il ritrovamento, avvenuto sul finire degli anni Settanta, di una innumerevole quantità di pellicole cinematografiche sepolte in una vecchia piscina (interrata) nella città di Dawson, regione dello Yukon, estremo nord del Canada. Queste pellicole, risalenti agli anni Dieci e Venti, erano state inviate dai distributori per essere proiettate al cinema della città. La norma prevedeva che una volta esaurite le repliche, i rulli dovessero essere rispediti al mittente, ma data la difficoltà dei collegamenti con lo sperduto Yukon, era molto più economico disfarsi in loco di tutte le pellicole che via via si accumulavano. Il grosso del materiale fu gettato nei fiumi Yukon e Klondike, che proprio a Dawson confluiscono, ma una certa quantità, appunto, fu interrata nella vecchia piscina comunale. Recuperati e restaurati questi film – quasi cinquecento – sono raccolti oggi nell'Archivio cinematografico canadese e nella Biblioteca del congresso degli USA.
E il motivo per cui tante pellicole furono spedite, nei primi del Novecento, fino al cinema di un luogo così isolato, è che Dawson City fu il centro geografico della grande Corsa all'oro del Klondike. Fra il 1897e il 1905 un villaggio di poco più di quattro case si trasformò in una città di oltre quarantamila abitanti (il maggior agglomerato urbano di tutto il Canada nordoccidentale) calamitando attività di ogni genere e specie, comprese quelle illegali. Il film si sofferma a lungo sull'esplosione demografica della città e sulla Gold Rush, inserendo numerose didascalie e utilizzando spezzoni delle pellicole recuperate nella piscina (che portano i segni del tempo e sono offuscate da una sorta di fumo bianco) e decine di splendide fotografie d'epoca. Come detto questa parte potrebbe essere un film a sé stante, la storia di una città che è anche la storia di un secolo nuovo fatto di sconvolgimenti e rivoluzioni che proprio da lì hanno in qualche modo origine. Ma il terzo film che sta dentro Dawson City è certamente il più suggestivo. Le pellicole sotterrate infatti, per via del nitrato di cellulosa del quale erano fatte, erano estremamente infiammabili e diedero origine, durante gli anni in cui furono stipate nei magazzini della città, a numerosi e dannosissimi incendi che contribuirono a semidistruggere Dawson. Questa natura esiziale della pellicola, generatrice di una vera e propria "cinefobia", è messa in risalto nel film come una sorta di potere medianico, capace di sopravvivere alla morte e di dare vita ai fantasmi. Dentro le immagini dei film recuperati a Dawson stanno non solo la memoria e la traccia del cinema muto, ma la vera essenza magica e spirituale della settima arte. Che è nata nello stesso anno della corsa all'oro e in fondo un po' nello stesso modo: come una scommessa, un gioco, un'ossessione della quale ci sia ammala.

Lorenzo Rossi, Cineforum n. 558, 10/2016




Agli inizi degli anni ’30 Rudolph Arnheim denunciò come l’introduzione del sonoro avrebbe privato i film del loro valore artistico, rendendoli di fatto indistinguibili dalla realtà, in un abbraccio mimetico così stretto da non lasciare spazio alla categoria della differenza. Il regista americano Bill Morrison con il suo Dawson City: Frozen Time, sembra di contro voler dire che il cinema, con o senza sincronizzazione sonora, è invece sempre stato immagine differente, ripresa di un movimento differito nel tempo della sua ricezione.
Il film comincia con il ritrovamento, nel 1978, in una piscina di Dawson, centro della regione subartica dello Yukon (Canada), di 500 scatole contenenti pellicole di film muti d’autore e di filmati amatoriali che raccontano la vita della città. In un arco temporale di circa trent’anni, dai primi decenni del ’900 agli anni ’30, quei frammenti fanno parte della storia di Dawson, raccontano in maniera diretta o indiretta la famigerata corsa all’oro nel Klondike, la nascita della città di Dawson, lo straordinario diffondersi della febbre estrattiva, l’espansione selvaggio e poi il declino di un mondo avido e violento, desideroso di denaro e divertimento. Il seppellimento delle pellicole risale agli anni ’30, all’arrivo dei film sonori, quando gli esercenti e i detentori dei diritti di distribuzione dei film, volendo disfarsi di film ormai inutile, gettarono buona parte dei loro archivi nel fiume Yukon o, per l’appunto, lo sotterrarono.
Morrison fa rivivere quelle pellicole mute (con il tempo salvate, restaurate, catalogate, studiate), rimontandole con una poetica operazione di found-footage dove la forma sembra più che mai coincidere con il contenuto. Il regista fa sua la lezione di Ejzenstejn, in quanto rende evidente come la vera lingua, la vera voce di un film, risieda nel montaggio; come il montaggio, divenendo responsabile del contenuto dell’opera, assuma immediatamente un valore etico. La lezione è ravvisabile soprattutto nelle geometrie tracciate da Morrison: la direzione circolare della macchina dragatrice che setaccia l’oro, le donne turbinanti dei primi film muti, il montaggio lirico che procede per accostamenti sinestetici e metaforici tra la storia del cinema e quella di Dawson.
Se da un lato Dawson City si rifà alla tradizione del film-saggio, con lo zoom sulle fotografie d’epoca che rimandano alla Jetée e all’essenza del cinema in quanto susseguirsi di fotogrammi, dall’altro aderisce a questa tradizione con un intento più documentaristico, dunque didascalico e divulgativo, nella misura in sono citati molti film e registi d’epoca.
Le pellicole rovinate dall’acqua, nelle quali l’immagine è circondata da una schiuma bianca, sfociano poi, a volte, nella video-arte, con la schiuma stessa o il bordo che invadono il campo e fanno emergere un dettaglio, un occhio, un oggetto... L’effetto del tempo diviene così un valore aggiunto al senso del tempo nel film.
Rispetto alla leziosità di Spira Mirabilis, Dawson City rimanda a una dimensione primitiva dell’essere. Come se fosse un frammento di filosofia presocratica. L’acqua è il fiume che scorre, conserva e distrugge alla stessa maniera del fuoco, che ha permesso la nascita del cinema (le prime pellicole erano infatti di nitrato altamente infiammabile), ma anche, per le stesse ragioni, la sua distruzione.

Giada Biaggi, “Cineforum”, 6 settembre 2016