Il colore delle Margheritine

Il colore delle Margheritine

L’utilizzo della pellicola positiva Orwo – combinata con il negativo della pellicola a colori Eastmancolor e con il negativo della pellicola in bianco e nero Kodak – si rivela per i giovani cineasti cecoslovacchi occasione funzionale sia alla sperimentazione tecnica sia all’eversione artistica: le opere filmate su pellicola Orwo mostrano oggi allo spettatore non solo la natura chimica della pellicola utilizzata, ma anche e soprattutto l’effetto lisergico tout cout provocato.
Il primo film proposto in rassegna è probabilmente il più esemplare: Sedmikrásky (Le margheritine, 1966) della regista Vĕra Chytilová, opera grottesca e sublime, pirotecnica e dolente, sulla generazione che da lì a poco avrebbe intrapreso la rivoluzione dei fiori.
Le due giovani e attraenti protagoniste -entrambe di nome Maria, una bruna l’altra bionda- alternano i bagni di sole lungo il fiume ai locali notturni, la camera da letto agli atelier di moda, così come la monotonia alla spregiudicatezza, la frustrazione allo svago. La regista solleva il sentimento di irrequietezza affidando al direttore della fotografia, Jaroslav Kučera, la procura di un provocatorio gioco ellittico cromatico. Le sequenze si susseguono infatti senza apparente legatura narrativa, laddove invece lo svolgimento dei quadri è costruito sullo straniamento visivo: di volta in volta le immagini sono virate in color seppia o abbacinate dai colori primari o azzerate nel bianco e nero. In alcuni casi, la continua ripresa del medesimo controcampo è restituita modificando la cromia del quadro. E così la direzione della fotografia si organizza in prima istanza nella peculiarità di utilizzo e dell’emulsione della pellicola -e non nel posizionamento della camera e delle luci sulla scena. La sarabanda cromatica – nella intentio della giovane regista cecoslovacca e sul solco della nuova cinematografia del suo Paese – suscita tutt’oggi reazioni bizzarre su cui fa leva la psicologia del colore. Fonte dichiarata – per chi scrive – è Della teoria dei colori che Goethe scrive nel 1810, in cui allo studio scientifico della percezione del colore affianca piuttosto la lettura cromatica in senso poetico, estetico, simbolico e psicologico.
Le margheritine, il cui titolo richiama la ghirlanda di margherite indossata sulla testa della bionda Maria, suggerisce un’esperienza visiva che si introduce nei binari cinematografici dello sperimentalismo underground, coevo delle operazioni di Brakhage.
Alberto Spadafora


Io penso che si tratti soprattutto di stabilire entro quale misura il colore possa avere una funzione anche in senso drammatico, non soltanto in senso puramente estetico. In parole povere, il colore può avere un effetto piacevole, gradevole, o, al contrario, sceglierete i colori in modo tale che il risultato sia brutto a vedersi. Con tutto ciò, infine, si può giocare a livello cosciente e a livello incosciente. Un'altra possibilità è quella di dare un significato a uno, due, tre colori, un significato che bisognerà chiarire debitamente, offrendo una chiave di lettura, e a questo punto potete cominciare a lavorarci.
Dopo di che ci sono le variazioni di queste possibilità. Tutto è molto collegato. Mentre magari ascoltate una musica nuova, vi vengono in mente un sacco di cose che hanno a che fare con l'immagine. Magari sullo scomporsi della realtà in elementi, per ciò che riguarda il tono, il colore, il movimento... Prendiamo l'esempio basilare del movimento: osservate il movimento a velocità normale, ma poi potete tagliarlo, accelerarlo, rallentarlo, e così, con un intervento esterno, influite sulla realtà.
Ma per tornare ancora al colore: la cosa più importante è il rapporto tra almeno due toni, due colori. Un colore solo, in se stesso non significa nulla. E lo stesso vale per un incontro casuale di colori. Del resto, niente viene fuori esattamente nel modo in cui ve lo immaginate. Da questo punto di vista Sedmikrásky (Le margheritine) è un esempio interessante. Quello che volevo fare era mettere insieme molte cose attraverso una visione cromatica, non desideravo affatto evocare un'impressione estetica di bellezza. Solo che in alcuni punti è successo che il mettere insieme delle cose abbia prodotto un'estetica di cui, all’inizio, non avevo affatto supposto i risultati.
Jaroslav Kučera in Nová vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, a cura di Roberto Turigliatto, Lindau, Torino 2004