La materia di cui sono fatti i sogni

La materia di cui sono fatti i sogni

Hitchcock è cattolico […], è stato educato dai gesuiti al londinese St. Ignatius College e si porta dietro sino alla fine il peso del contrasto fra principi ricevuti, tenace aspirazione al vero e un torbido progressivo affiorare di oscure pulsioni interiori. Non è un caso che il suo cinema, a lungo giocato sul filo dell'ironia e dell'umorismo, del grottesco e della bizzarria, nel procedere degli anni si sia orientato con sempre maggiore determinazione verso allucinanti drammi senza sorriso (Psycho, Gli uccelli, Frenzy) specchio della sua personale, dolorosa e crescente inquietudine esistenziale. In questo egli s'inscrive a pieno titolo nella variegata pluralità surrealista, conciliando – o contrapponendo in sé – le due anime del movimento: di chi da un lato coltiva l’elemento ludico e beffeggiatore, e di chi, dall’altro, esprime invece un irrefrenabile stato di angoscia.
Ernesto G. Laura, Hitchcock e il surrealismo, L’Epos, Palermo 2005


Quando siamo arrivati alle sequenze oniriche, ho voluto rompere nella maniera più assoluta con il modo tradizionale in cui il cinema presenta i sogni, con la nebbia che confonde i contorni delle immagini, lo schermo che trema, ecc. Ho chiesto a Selznick di assicurarsi la collaborazione di Salvador Dalí. Selznick ha acconsentito, ma sono convinto che ha pensato che volessi Dalí per la pubblicità che ci avrebbe fatto. L'unica ragione era la mia volontà di ottenere dei sogni visivi con dei tratti netti e chiari, con delle immagini più chiare di quelle del film. Volevo Dalí per il segno netto e affilato della sua architettura – de Chirico è molto simile – le ombre lunghe, le distanze che sembrano infinite, le linee che convergono nella prospettiva... i volti senza forma...
Alfred Hitchcock, in François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997


Prevedibilmente, dato il tema, il momento culminante del film è la sequenza del sogno, tramite la cui interpretazione Constance Petersen perviene alla verità. Hitchcock si rivolge a uno dei maestri europei del surrealismo, Salvador Dalí. Il regista intende infatti distaccarsi dai modi consueti di rendere i sogni sullo schermo, con immagini tremolanti, vaselina spalmata sull’obiettivo per rendere il tutto vagamente nebbioso; [...] al contrario, pensa a immagini tanto luminose e solari che le avrebbe volute girare all'aperto, in pieno sole, anche se poi si adatta a realizzare tutto in studio.
[…] Dalí fornisce molte idee e lavora con Hitchcock per circa un mese realizzando “più di cento schizzi e cinque dipinti ad olio da consegnare allo scenografo (James Basevi)” (Daniel Spoto). Un esperto di effetti speciali, Rex Wimpy, ne cura quindi l’esecuzione tecnica. Il regista gira una prima versione del sogno che dura, montata, circa venti minuti. Benché sia il produttore che Hitchcock la trovino “troppo lunga” e “troppo complicata” e di conseguenza la scartino, c’è chi, come la protagonista Ingrid Bergman, la giudica migliore e più efficace della seconda versione poi inserita nel film.
Ernesto G. Laura, Hitchcock e il surrealismo, L’Epos, Palermo 2005


La sequenza del sogno, nella sua versione originale, era molto più lunga e più interessante. Era veramente qualcosa che poteva stare in un museo. La versione definitiva del film non comprende una complessa sequenza, in cui io, all’interno del sogno dell’uomo, mi trasformo in una statua di gesso (il che rese necessario girare al contrario l'inquadratura in cui io rompevo la statua e ne uscivo fuori). C'era una quantità di cose meravigliose nella scena, ma decisero di tagliarla, riducendo a uno o due minuti la sequenza di venti minuti su cui avevamo lavorato tanto duramente. È stato veramente un peccato. Poteva essere veramente sensazionale
Ingrid Bergman, in Donald Spoto, Il lato oscuro del genio. La vita di Alfred Hitchcock, Lindau, Torino 1999


Parlandone con Truffaut, Hitchcock aggiunge che al rompersi della statua un nugolo di formiche uscivano dalle fessure e si arrampicavano sul corpo della Bergman fino a ricoprirlo. Non c'è dubbio che questo epilogo del sogno s'intonasse perfettamente alla concezione surrealista e si spirasse anche ad alcune opere precise. Pensiamo in particolare a certe tele di Magritte come Le Double secret del 1927 […] o come La Folie des grandeurs II del 1948 dove una statua di donna –che tale è, malgrado l’evidenza di un’epidermide in luogo del marmo – è priva di testa e di arti e spezzata in tre tronconi di diversa grandezza. Non è da dimenticare la ricorrente presenza di statue dal significato inquietante nella pittura di de Chirico, cito per tutte la tela del 1913 L’Incertitude du poète.
Ernesto G. Laura, Hitchcock e il surrealismo, L’Epos, Palermo 2005


Naturalmente Dalí ha inventato delle cose piuttosto strane, che non è stato possibile realizzare: ad esempio, in una statua si producono delle crepe, dalle fessure escono delle formiche che si muovono sulla statua, poi si vede Ingrid Bergman coperta di formiche! Ero preoccupato perché la produzione non voleva fare certe spese. Avrei voluto riprendere i sogni di Dalí in esterni, in modo che tutto fosse inondato di sole e i contorni diventassero terribilmente taglienti, ma non me l’hanno concesso, così ho dovuto girare il sogno dentro il teatro di posa.
Alfred Hitchcock, in François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997


La versione definitiva del sogno così come risulta dal film è accompagnata dalla voce fuori campo di Gregory Peck che lo racconta ai due psicoanalisti che lo ascoltano, Constance e il dottor Brulov, il vecchio maestro di lei. “Non riesco a capire che razza di posto fosse”, comincia a raccontare Peck mentre lo schermo è dominato da due grandi occhi su sfondo scuro. La camera, tramite un carrello in avanti, si fissa su un enorme unico occhio – vanno ricordati in proposito il grande occhio che domina il quadro del 1922 di Marc Chagall L'occhio verde e quello di un’altra tela di Magritte, Le faux miroir, del 1929 – poi in dissolvenze incrociate alcuni occhi sembrano danzare nell’inquadratura (e qui è d’obbligo ricordare Folly, 1914-1915, di Alberto Martini, che è una vera sinfonia onirica di occhi che fuoriescono da un volto deformato), quindi ancora il carrello in avanti ci fa scoprire trattarsi di un tendaggio decorato con occhi dipinti che fa da sfondo a quella che sembra una casa da gioco. A questo punto compare un uomo con un enorme paio di forbici e si mette a tagliare il tendaggio. Un dettaglio ci mostra un occhio che copre l’intera inquadratura, attraversato in diagonale dalle lame delle forbici; e poi queste lo squarciano. È una citazione alla lettera dell'occhio squarciato – dal rasoio, in quel caso – di Un chien andalou, il primo film di Luis Buñel del 1929 a cui l’amico Dalí aveva strettamente collaborato come coautore di soggetto e sceneggiatura (anche in quel film ci sono, come nella versione scartata da Hitchcock del sogno, delle formiche che investono una donna). Entra in seguito nel locale, vista in campo lungo, una ragazza in costumi succinti che gira fra i clienti baciando tutti. La successiva inquadratura, in soggettiva del sognatore, ci fa vedere un lungo tavolo da gioco attraversato da lunghe ombre di altri giocatori invisibili mentre in fondo siede un uomo con lunga barba indistinguibile nella penombra. Il sognatore scopre una delle carte, è un sette di fiori, l’altro dichiara di avere un ventuno e di aver vinto, ma le carte che getta sul tavolo sono bianche. In quel momento entra in campo un signore col volto coperto da una garza (altra citazione della pittura di Magritte: l'olio Les Amants del 1928) che, affermando di essere il proprietario, lo accusa di barare e minaccia di cacciarlo via. Cambio di scena, inquadratura fissa di un paesaggio tra natura sulla sinistra (un albero di proporzioni gigantesche rispetto alle rocce che sovrasta) e architettura sulla destra (un tetto con grande comignolo, anch'esso sproporzionato rispetto al resto). L'uomo con la barba, poco prima accusato di barare, è pericolosamente in piedi sulla forte china del tetto; mentre la camera si avvicina con un carrello in avanti, lo si vede come minuscola sagoma nera. Il sognatore gli urla di stare attento, ma quello precipita giù lentamente. Dal basso in alto, quasi in controluce, vediamo adesso l’uomo con la garza sul volto in piedi sul tetto accanto al comignolo, in una luce livida che riduce lo sfondo a poche nuvole dipinte sul cielo. Ha in mano una ruota contorta che lascia cadere sul tetto. Il carrello procede in avanti fino a raggiungere il centro della ruota. Stacco. Nuvole coprono lo schermo. Una discesa biancheggiante occupa gran parte dell’inquadratura realizzata su linee aguzze. Il sognatore, ridotto a piccola sagoma scura, corre verso il precipizio sovrastato da un'ombra nera di grandi ali che incombono e lo braccano finché egli arriva alla fine della discesa e si sveglia. Benché il nome – per sua volontà – non sia indicato nei titoli di testa, è bene sapere che nella sua versione definitiva la regia del sogno è stata realizzata, in assenza di Hitchcock che si trovava a Londra, da William Cameron Menzies, scenografo e regista inglese specialista di fantascienza.
Ernesto G. Laura, Hitchcock e il surrealismo, L’Epos, Palermo 2005