Bergman e Peck secondo Hitchcock

Bergman e Peck secondo Hitchcock

Hitchcock […] decise di costruire la sceneggiatura in funzione di un’attrice che trovava davvero affascinante: Ingrid Bergman. Di più. Man mano che approfondiva la conoscenza della sua futura interprete, delineava il progetto più ampio di affidarle la parte centrale di una serie di film che dovevano mettere in luce le molteplici facce della personalità femminile. Nacque così la trilogia: Spellbound, Notorious e Under Capricorn.
Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Marsilio, Venezia 1986


Da come si parla del dottor Petersen nella prima sequenza è chiara la volontà di ingannare lo spettatore, che si aspetta un uomo; per convenzione, per abitudine, per pigrizia mentale: l’effetto voluto da Hitchcock riesce – naturalmente – alla perfezione: ci si aspetta un uomo che invece si rivela essere una donna ‘travestita’ da uomo. Alla scrivania, i capelli raccolti, il camice, un paio di occhiali che sottolineano il cipiglio, la sigaretta nel bocchino di legno scuro (che pare un sigaro), il dottor Petersen si alza e il camice latteo, nascondendo le forme, la ingloba in una specie di rigoroso scafandro bianco (colore usuale per la divisa del medico, ma che diventerà successivamente la cromia predominante del film). […] La capacità di Bergman (alla quale viene ancora dato un cognome nordico, Petersen) di offrirsi in una sorta di armatura virile (non è la prima volta, si pensi a Senza volto, mentre il pensiero già corre all'imminente Giovanna d’Arco) è perfetta […]. Hitchcock si diverte con Ingrid. Regista e attrice estraggono da Constance un’altra donna, che arricchisce la prima in un caleidoscopio di ruoli e sfumature: ora è la poliziotta che indaga, e che per questo non esita a giocare la parte dell'ingenua e manierata mogliettina (seduta sul divano dell'hotel, dialoga con l'agente dell’albergo per ritrovare il marito). Con il suo incedere a passi veloci e decisi – Bergman non ha mai un'andatura propriamente femminile, neppure quando interpreta una seduttrice (si pensi a Casablanca) – Constance non mostra tentennamenti e si trasforma in una madre decisa, amorevole ma energica, che decide la fuga, pilota alla meta, tiene a bada le proprie paure e stimola appena possibile la memoria dell’uomo. Scuote e conforta, anche con una certa violenza fisica, procurando al paziente crisi e confortandolo subito dopo, senza mai perdere la calma. […] Hitchcock e Bergman creano una donna da sogno: l’innamorata appassionata e dolce; l'impeccabile adepta della scienza che si trasforma in madre risoluta e protettiva; un cavaliere coraggioso, un San Giorgio che non esita ad affrontare il duello finale contro Murchison rimettendosi l’armatura (camicetta bianca e occhiali) perché sa di poter sconfiggere il male; un poliziotto al quale non sfuggono tracce e indizi; un sacerdote che crede con ostinazione nella vittoria del bene, da perseguire anche a rischio della vita, sfidando la morte nel precipizio finale. È l’ostinazione irriducibile di Constance – il nome non è casuale – che si mostra nella sequenza successiva all’arresto di Ballantyne, in montaggio incrociato, tutta dedicata, “coreografata”, sulla protagonista in primo piano che, vestita di scuro come una vedova (ma anche come un sacerdote, o una suora con veste accollata e cappello a larghe falde) ribadisce, con lo sguardo commosso ed esaltato insieme, che salverà Ballantyne ridandogli la libertà.
Nuccio Lodato, Francesca Brignoli, Ingrid Bergman. La vertigine della perfezione, Le mani, Recco 2010


Hitchcock si sedeva pazientemente e ascoltava le mie obiezioni riguardo al fatto, per esempio, che non mi potevo muovere dietro a un certo tavolo o che un dato gesto o una data condotta erano inopportuni. Poi, quando avevo finito di lamentarmi e pensavo che il mio punto di vista l'avesse convinto, diceva con molta dolcezza: “Fai finta!”. Più tardi, questo consiglio mi è stato di grande aiuto, quando altri registi volevano qualcosa di difficile e io pensavo che sarebbe stato impossibile. Dopo, mi ricordavo di quando Hitchcock mi diceva: “Fai finta!”.
Ma sul set non si mescolava mai con noi. Era educato, ma se qualcuno disturbava, sapeva come fare per ottenere il silenzio. Abbassava la voce fino a renderla quasi un sussurro, in modo che nessuno potesse sentirlo. E pian piano tutti si zittivano. Probabilmente era una specie di tecnica intimidatoria. Naturalmente tutti avevamo sentito dire che per lui gli attori erano bestiame e ci aspettavamo il peggio. Per farci arrabbiare diceva: “Bene, ora che siete arrivati voi attori, il mio divertimento è finito”. Siccome tutto il suo piacere stava nella preparazione, nella scrittura, nel posizionare le macchine da presa, nelle fantasticherie della sua mente, ci considerava degli intrusi nelle sue fantasie. Ma si controllava sempre molto. Non perdeva mai la calma, né urlava mai contro qualcuno. Malgrado ciò, otteneva sempre quello che voleva.
Ingrid Bergman, in Donald Spoto, Il lato oscuro del genio. La vita di Alfred Hitchcock, Lindau, Torino 1999


Poche volte come in questo film fu data ad una deviazione spirituale, attraverso le immagini un'evidenza così angosciosa [...] Spellbound è un film in parte prezioso e del tutto ambizioso. [...] Senza Ingrid Bergman, che messi gli occhiali è la dottoressa innamorata, molta suggestione del film mancherebbe [...]; in questa sua interpretazione è presente una cupa disperata volontà di soccorrere con l'intelligenza e la sensibilità Gregory Peck che è con lei.
Arturo Lanocita, “Corriere della Sera”, 4 settembre 1947


Peck ebbe molti ammiratori quando Io ti salverò fu distribuito. Selznick in persona fu deliziato dai brusii d’ammirazione con cui le spettatrici salutavano l'apparire di Peck sullo schermo: gli garantivano d’aver sotto contratto un bene sicuro. Peck se ne accorse benissimo: “David mi fece recitare con Ingrid Bergman perché lei era al culmine della sua carriera, e io, in un certo senso, potevo espormi di riflesso al suo immenso pubblico”. Ma, nel giudicare la propria interpretazione, è drastico: “Facevo schifo”. Per fortuna né Selznick né il suo pubblico né Hitchcock condivisero questa opinione.
Tony Thomas, Gregory Peck, Libri edizioni, Milano 1980


A produzione ultimata, Peck trovò che lavorare con Hitchcock era stata “un’esperienza notevole [...]. Lo ammiro molto. È il più grande esperto di tecnica cinematografica e ogni regista può imparare da lui”. Parlando dell’interminabile lavoro di “preparazione” al quale Hitchcock si dedicava con febbrile attività prima di iniziare le riprese dei suoi film, Peck osservò: “Quasi come un architetto, non inizia a dirigere un lavoro prima che il piano sia perfetto e che anche la più piccola inezia non sia perfettamente a posto. Penso che, per quanto riguarda gli attori, Hitchcock si trovi più a suo agio con attori ‘tecnici’ – come Cary Grant ad esempio – che posseggono cioè una tecnica perfezionata e non hanno difficoltà a produrre certi effetti, perché per acquisire le loro tecniche hanno lavorato sodo. Questo fa piacere a Hitchcock, che ama controllare l’esecuzione, l’espressione e l’emozione dell’attore così come ama controllare la preparazione del testo, dei set e della cinepresa. Gli piace eliminare l’inafferrabile, se questo è possibile. Così credo che si trovi meglio con attori ‘tecnici’, mentre tende ad essere un po’ impaziente con quegli attori che, mancando ancora di una propria identità, devono scavare all’interno di se stessi per trovare la realtà emotiva di una situazione prima di poterne riprodurre l’esatto effetto esterno. Non sono il suo genere di attore. Ma – aggiunge Peck – non l’ho mai visto umiliare un attore [...]. È fin troppo saggio e umano”.
John Griggs, Gregory Peck, Gremese, Roma 1984