Antologia critica

Antologia critica

I segreti reconditi della mente vengono esplorati con un effetto brillante e terrificante [...]. Grazie alla convincente sceneggiatura di Ben Hecht e alle splendide interpretazioni di Ingrid Bergman e di Gregory Peck il film si può considerare un capolavoro dei gialli psicologici, [...] capace di assorbire irresistibilmente lo spettatore [...]. La Bergman e Peck hanno dato il meglio di se stessi sotto la guida di Hitchcock. […] Il ritratto del dottore malato di mente ex militare, offertoci da Peck, è modulato abilmente ed è perciò molto con vincente [..]. Io ti salverò fa parte della tradizione di film come Private Worlds [Mondi privati, di Gregory La Cava, 1935]. Ed è il migliore di tutti.
Howard Barnes, “New York Herald Tribune”, 1945


La storia è macchinosa e si regge sull’abilità tutta di mestiere di Hitchcock – specialista in vicende tortuose e più o meno drammatiche – e sulle grandi doti di due attori sensibilissimi: Ingrid Bergman e Gregory Peck.
Enzo Biagi, “Giornale dell’Emilia”, 14 ottobre 1948


Ambientata in un ospedale psichiatrico, la trama di lo ti salverò, scritta da Hitchcock con il vecchio amico Angus MacPhail, interseca quattro storie d'amore, tra le quali quella di una psichiatra con il suo paziente affetto da amnesia, che riecheggia la struttura di una commedia di William Congreve interpretata dai pazienti di un istituto, Così va il mondo. Mentre scia verso un precipizio con la sua amante e medico, l’eroe affetto da amnesia finisce per ricordarsi che l’uomo che crede di avere ucciso è morto accidentalmente e tutto finisce con un happy end. Hitchcock e Ben Hecht abbandonarono la costruzione della commedia, ma mantennero la storia della dottoressa innamorata del suo paziente. Selznick li spinse a integrare nel tema un enigma criminale con il direttore dell’istituto, quale assassino nel finale. Aggiunsero anche una buona dose di Freud, compreso un sogno raccontato, ma non visualizzato in cui i dettagli dell’omicidio si fondono ai traumi infantili all’origine dell’amnesia dell'eroe. Verso la fine del sogno, questi capisce che tutto ciò che deve ricordare è contenuto in un libro, ma il suo sostituto perde il testo che si rivela essere un simbolo della cinepresa con cui (come nella versione di MacPhail) filmò il suo compagno di sci in occasione della sua morte. Recuperata nella neve, la cinepresa rivela l’identità dell’assassino, elemento della trama che fu eliminato. Hitchcock riprese allora un nuovo sogno che concepì con Hecht e fece dipingere da Salvador Dalí, inserendo in omaggio al pittore un riferimento a Un chien andalou: un uomo armato di un paio di forbici gigantesche ritaglia un occhio dipinto su una tenda. Gli occhi sulla tenda rappresentano le guardie dell'istituto; forse l’occhio tagliato a metà poteva essere spiegato dai cinquanta secondi del sogno tagliati dopo una prima visione, un apporto di informazioni in immagini sui sentimenti del paziente nei confronti del suo medico. Plausibilmente l'occhio simboleggiava anche la macchina da presa, la cui presenza è costantemente evocata dagli abbaglianti primi piani che caratterizzano lo ti salverò. Quando nell'epilogo del film l’assassino rivolge l’arma contro se stesso in un primo piano della cinepresa, il celebre atto di aggressione surrealista in cui Buñuel e Dalí tagliano un occhio in primo piano è sorpassato; lo spettatore assiste in diretta al suicidio della macchina da presa.
Bill Krohn, Alfred Hitchcock al lavoro, Rizzoli, Milano 2000


Lo sgargiante frudismo di questo film di Hitchcock del 1945, sostenuto da una sequenza onirica ideata da Salvador Dalí e una roboante colonna sonora di Miklós Rósza, può renderlo difficile da apprezzare, ma al di sotto della superficie c'è un intrigante studio alla Hitchcock sul ribaltamento dei ruoli, con medici e pazienti, uomini e donne, madri e figli che capovolgono le relazioni assegnate, con risultati avvincenti e sovversivi. La performance taciturna di Gregory Peck nel ruolo dell'eroe amnesico è problematica, anche se si possono notare le qualità di Peck che più hanno intrigato il regista (sia qui che nel Caso Paradine): il suo monumentale autocontrollo, l’autoconsapevolezza e l’insicurezza di base. La sua interpretazione è una prova generale per il notevole lavoro di Tippi Hedren in Marnie. Con Leo G. Carroll e Ingrid Bergman ironicamente utilizzata come icona di radiosa salute.
Dave Kehr, “Chicago Reader”, 26 ottobre 1985


“Tutto ciò che è incantevole produce una specie di perpetuo scintillio”, scrive Emanuele Trevi nell’auto-fiction romanzesca che tre anni fa gli guadagnò il Premio Strega, e questo è esattamente quel che accade a Ingrid Bergman in Spellbound, fin dalla scena in cui la dottoressa Petersen rientra affannata e siede al tavolo dove l’attendono per la cena i colleghi, sette nani non tutti benevoli, stretti intorno a una Biancaneve che ha appena avuto il suo bacio. Qualcosa le scintillerà sempre intorno, filtrando tra i capelli appena scarmigliati, accendendosi nelle guance che immaginiamo arrossate; questa natura incantevole, questo incantamento è la legge d’attrazione che dà al film il suo equilibrio. Fu accolto male Spellbound, e dal “surprisingly disappointing” di James Agee si arrivò al “disaster” di Pauline Kael; poi in questi ultimi decenni, nel clima di universale adorazione riservata a Hitchcock, i pochi che ne hanno parlato lo hanno fatto con più rispetto e clemenza. Tuttavia il film rimane una sinuosa danza di stereotipi, lo psichiatra ammattito, lo smemorato ingiustamente accusato, la dottoressa che si toglie gli occhiali e diventa “toute femme”, come scrissero Rohmer e Chabrol, scivolando fino al paterno Freud del New England. Ma tra un passo e l’altro d’una psicanalisi illustrata come una favola, quali squarci formidabili sa aprirsi questa cinepresa: il povero Gregory Peck, che per antico trauma odia il bianco e le righe, s’inoltra nel candore d’un bagno piastrellato, e in un attimo comprendiamo “l’illimitato, criptico terrore che può emanare dagli oggetti” (ancora Agee); poi, il ritorno del rimosso, in due sole inquadrature silenziate, è il più conciso e agghiacciante che potremo mai ricordare. La resa dei conti, col suo finale fiotto di rosso, è scritta sul filo tra pathos e sudore freddo, e sia onore a Ben Hecht. E Salvador Dalí? Dalí venne chiamato a bordo da Selznick, e Selznick è uno dei motivi per cui gli storici hanno trattato il film con distacco, opinando che la mano del produttore si facesse sentire troppo (Hitchcock non ha mai suffragato l’opinione). La lunga scena del sogno rivelatore è un’arruffata stravaganza, ma la singola languida fuga delle porte che si aprono una dopo l’altra ancora ci turba (molto di più, su uno schermo molto più grande) per la sua simbolica, erotica eleganza.
Paola Cristalli, Il Cinema Ritrovato XXXVII edizione, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2023


Chi scrive ha avuto contatti sporadici con i praticanti della psichiatria o con le sfumate astrazioni della loro scienza, quindi non siamo in grado di dire se Ingrid Bergman, che interpreta una di loro nel suo ultimo film, Spellbound, sia rappresentativa di tali professionisti o se i metodi da lei impiegati potrebbero portare effettivi risultati. Ma possiamo senza tema di smentita affermare quanto segue: se tutti gli psichiatri fossero così efficaci quanto lo è lei nei confronti di Gregory Peck, che in questo ottimo film è vittima di amnesia, allora la psichiatria meriterebbe la stessa popolarità di cui sicuramente godrà questa pellicola.
In quanto la signorina Bergman con la sua terapia, come splendidamente qui dimostrato, costituirà per voi una garanzia di cura dai malesseri vi affliggono, così come lo è nel film per il signor Peck. Sto parlando della sua personalità vincente, delicatamente ma fieramente dispiegata in una storia dal contenuto emotivo profondo, della sua ardente sincerità, del suo aspetto splendente e della disinvoltura con cui sfodera battute che si strozzerebbero nella gola di molte altre ragazze.
In altre parole, la deliziosa signorina Bergman è sia il medico che la cura in questo film. È l’unica a stimolarne la logica drammatica, così come la fiducia del pubblico. [...]
È la storia di una psichiatra che s’innamora improvvisamente e disperatamente di un uomo su cui pende l'oscuro sospetto di un omicidio. Tutti gli indizi portano a credere che egli abbia preso il posto dell'uomo ucciso e che stia cercando di assumerne la posizione, almeno fino a quando prudenzialmente scompare. Ma la signora, con piena e toccante fiducia nell'intuitiva giustezza del suo amore, è convinta che il suo amato sia davvero una vittima di amnesia. E così lo segue nel suo nascondiglio, inizia il coraggioso tentativo di sbloccare la sua mente e, sempre due passi avanti agli investigatori, alla fine svela il logorante segreto del suo passato.
Questa storia, possiamo dire, ha una relazione con tutti i precedenti film di religiosa guarigione, ma modalità e qualità della narrazione risultano qui straordinariamente efficaci. La sceneggiatura, basata sul romanzo di Francis Beeding The House of Dr. Edwardes, è stata scritta da Ben Hecht e il regista è Alfred Hitchcock, il vecchio maestro della suspence. Quindi la solidità della trama, la fluidità delle sequenze e dei dialoghi, i colpi dell'imprevisto, l'ampiezza delle immagini, sono tutti felicemente presenti. Ma, in questo particolare caso, il signor Hecht e il signor Hitchcock hanno fatto di più. Hanno plasmato una commovente storia d'amore con gli elementi del melodramma. Qui si verifica qualcosa più di una ‘caccia’ letterale, qualcosa di più di una fuga dalla polizia. Si compie una ‘caccia’ di momento ancora più avvincente nei meandri della mente di un uomo. [...]
La signorina Bergman, lo abbiamo detto, è colei cui più si deve la sincerità di questo film, ma il signor Peck fornisce il suo importante contributo. La sua interpretazione, controllata e raffinata, è esattamente il giusto contrappeso allo squisito ruolo della signorina Bergman. A Michael Cechov, che interpreta un anziano psichiatra complice della ‘caccia mentale’ della signorina Bergman, si deve buona parte dell'eccellente umorismo in questo film. Leo G. Caroll, Wallace Ford e John Emery fanno la loro parte con ottimi ruoli minori.
Bosley Crowther, “New York Times”, 2 novembre 1945