La genesi del film secondo Wenders

La genesi del film secondo Wenders

Anzitutto non c’è cosa che si possa descrivere se non un desiderio, o i desideri in genere.
È così che si comincia quando si vuole girare un film, scrivere un libro, dipingere un quadro, comporre musica, insomma quando inventare significa fare una scoperta.
Si prova un desiderio.
Il desiderio che qualcosa esista, e poi ci si lavora finché esisterà. […]
Io ho provato un desiderio, e mi è balenata la luce di un film A Berlino, e quindi anche SU Berlino.
Un film che potesse dare un’idea della storia di questa città dalla fine della guerra. Un film che riuscisse a far lievitare, a palesare nelle sue immagini ciò che in tante pellicole ambientate qui manca, ma che appena si arriva in questa città sembra esser lì davanti ai tuoi occhi in modo così tangibile: un insieme di sensazioni, certo, ma anche un qualcosa nell’aria, che senti sotto ai tuoi piedi, che ritrovi nei volti degli altri: insomma tutto ciò che fa la differenza tra vivere a Berlino e in un’altra città.
A questa descrizione, a chiarimento del mio desiderio, aggiungo che l’interessato è tornato in Germania dopo una lunga assenza, e che soltanto in questa città poteva e voleva riscoprire la sua ‘indole tedesca’. Pur non essendo io un berlinese. Del resto, chi lo è ancora? […]
Evidentemente il mio desiderio non si limitava a un film su Berlino, su un luogo. Proprio in questa città volevo qualcosa d’altro. Volevo parlare degli uomini, e quindi dell’unica e perenne questione: “Come dobbiamo vivere?”.
Dal che BERLINO, nel mio desiderio, fa le funzioni del MONDO. […]
Berlino è divisa come il nostro mondo, è scissa come il nostro tempo, è separata come lo sono uomini e donne,
giovani e anziani,
poveri e ricchi,
è frantumata come ciascuna nostra esperienza. […]
Il film si intitolerà:
IL CIELO SOPRA BERLINO,
essendo il cielo, oltre al passato ovviamente,
l’unico elemento comune
alle due città contenute in questa città.
Quasi a dire “Sa il cielo...”
se ci sarà un futuro comune a entrambe.

Wim Wenders, Descrizione di un film indescrivibile, in Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Ubulibri, Milano 1989


Negli ultimi anni dopo Paris, Texas, Berlino era diventata il mio ‘pied-à- terre’. Cominciavo a sentirmi quasi a casa in questa città, come se la vedessi con gli occhi di una persona che è stata altrove per molto tempo.
L’idea di fare un film prima di Fino alla fine del mondo si è subito collegata a Berlino. Qualche giorno dopo aver preso questa decisione, ho scritto un primo trattamento intitolato Descrizione di un film indescrivibile. Sinora in tutti i miei film il racconto si era sviluppato dal punto di vista del protagonista. Questa volta volevo cambiare: rifiutavo l’idea di un personaggio principale che tornava per riscoprire Berlino e la Germania ma non riuscivo a immaginarmi un’altra figura attraverso la quale si potesse vedere la città. […]
Non so esattamente come sia arrivato agli angeli. Un giorno ho annotato sul mio taccuino questa idea in cui, all’improvviso, si concretizzava un film su Berlino: “Angeli”, al plurale e l’indomani: “Disoccupati”. Forse mi era stata suggerita da Rilke che stavo rileggendo in tedesco – senza tuttavia pensare al film – perché mi ero accorto che tutti i suoi scritti sono popolati da angeli e, leggendolo ogni sera, mi ero abituato alla loro presenza. […]
Generalmente si delinea quasi subito un ‘filo conduttore’ da cui vengono regolati i rapporti o gli incontri tra i personaggi. Gli angeli invece permettevano di cogliere tutte le opportunità, la linea di collegamento era ovunque; si poteva andare in qualsiasi punto della città, anche a caso. Si poteva attraversare il Muro, entrare in una casa per la finestra, guardare la gente nella metropolitana; un passante qualsiasi diventava a un tratto il protagonista di un film possibile. […]
Il cielo sopra Berlino ha ancora un’altra ‘idea di partenza’, già presente in una delle scene finali di Paris, Texas quando Nastassja ritrova in albergo il piccolo Hunter; […] avevo il forte desiderio di scegliere una donna per il ruolo principale. Ho esitato a lungo sull’eventualità di fare del mio angelo una figura femminile. Ma, poiché volevo che diventasse un essere umano, trovavo più interessante rappresentare un angelo-uomo che paga il prezzo di divenire mortale per potersi unire a una donna. Volevo girare in autunno ma in agosto non avevo ancora una sceneggiatura. C’è sempre una barriera tra me e la scrittura; ho quasi paura a scrivere qualcosa che debba trasformarsi in una scena perché sono convinto che a quel punto io l’abbia già distrutta: non c’è più niente da inventare. Con gli angeli la lingua acquistava una particolare importanza: dovevano esprimersi in un linguaggio poetico. Dopo avere girato quattro film in inglese, sentivo il bisogno di tornare alla mia lingua d’origine che nei dialoghi doveva essere molto curata. Allora ho invocato il mio arcangelo, Peter Handke. […] Sono andato da lui a Salisburgo e gli ho raccontato tutto quello che sapevo sui miei angeli. Abbiamo trascorso una settimana a immaginare una dozzina di situazioni-chiave all’interno di una storia possibile e, su queste basi, Peter ha iniziato a scrivere. Per tutto il mese di settembre, ho ricevuto ogni settimana una busta che conteneva i dialoghi senza nessun tipo di indicazione, come in un testo teatrale. Non avevamo più nessun contatto; lui scriveva partendo dalle nostre chiacchierate mentre io preparavo il film. Sempre più cresceva la differenza tra il lavoro che faceva Peter a distanza e il film che cominciava a profilarsi nelle discussioni con gli attori e nella preparazione concreta a Berlino. I suoi dialoghi – molto belli e poetici – erano come monoliti caduti dal cielo. Ma i diversi elementi non si amalgamavano bene: tra il testo, le scene previste e i luoghi di ripresa regnava il caos totale.
Non avevamo ancora chiuso la produzione; la scenografia non era pronta, gli angeli non avevano né i costumi né il trucco – mancava proprio tutto. Perciò abbiamo cominciato a girare con i bambini, all’inizio del film. Mi dicevo: “Se continuo a preparare, andrà tutto perduto. Sapremo esattamente cosa fare ma il risultato sarà un film prevedibile. Questa confusione invece, ci aiuterà a scoprire qualcos’altro sugli angeli”. All’idea del film si è subito associata quella del bianco e nero per le caratteristiche della città, naturalmente, ma ancora di più per gli angeli: loro non possono toccare veramente gli oggetti, non conoscono l’aspetto fisico del mondo e logicamente, nemmeno i colori.
Inoltre il bianco e nero è legato alla dimensione del sogno ed era eccitante immaginare che il colore apparisse ad un certo punto del film con il valore di una nuova esperienza. Desideravo lavorare di nuovo con Henri Alekan perché sapevo che non conosceva Berlino e quindi mi avrebbe rivelato uno sguardo nuovo. È riuscito a creare, attraverso l’illuminazione, delle forme immateriali come se egli stesso, con il segreto della luce, avesse accesso all’universo fiabesco degli angeli. […] Durante la fase di ideazione, quando riempivo di appunti i miei quaderni, non mi sono mai posto il problema del ‘casting’: le tre foto di Solveig, Bruno Ganz e Otto Sanders appese sul muro davanti a me mi hanno ispirato sin dall’inizio.
Sentivo che Solveig, come per Fino alla fine del mondo, era all’origine di questo film; era chiaro che vi avrebbe recitato. Aveva lavorato alla corda in una scuola di circo a Parigi, ma solo come dilettante. L’idea che la donna fosse una trapezista non era tirata per i capelli: a Berlino, su uno dei numerosi terreni abbandonati, c’è sempre un circo e questo poi, grazie alla presenza dei bambini, è un luogo privilegiato. Inoltre volevo che facesse un mestiere rischioso – anche in questo modo la ragazza seduce Damiel, che non aveva mai conosciuto il pericolo di cadere. E mi sono immaginato questa giovane trapezista volare sotto il tendone con delle ali. Se l’angelo l’avesse vista così, senza dubbio avrebbe riso. Forse si sarebbe anche innamorato di lei...
Quando ho raccontato tutto ciò a Solveig, non era affatto sicura che io lo pensassi sul serio. Ma l’indomani ha ricominciato il suo corso di trapezio a Parigi con Pierre Bergman. Ha subito rifiutato la possibilità di utilizzare una controfigura; voleva eseguire lei stessa il numero del trapezio, come una professionista. […]
Peter Falk è stato l’ultimo a unirsi al gruppo. La sua parte era quasi un’idea da commedia. Doveva essere una persona molto famosa, di cui si scopriva un po’ alla volta che in passato era stato un angelo. Dapprima ho pensato a pittori, scrittori e persino a uomini politici, ad esempio Willy Brandt! Ma non era possibile girare con gente tanto occupata. Inoltre doveva essere qualcuno talmente noto da poterlo riconoscere subito e dire: “Ah, anche lui è stato un angelo...”. Così si è imposta la scelta di un attore e necessariamente americano. Soltanto loro infatti sono celebri in tutto il mondo. Una sera ho telefonato a Peter Falk e gli ho raccontato una storia confusa di angeli custodi, di un circo, di una trapezista e di un attore americano che adesca i suoi ex-colleghi. Dopo una pausa mi ha chiesto se potevo mandargli la sceneggiatura. Gli ho risposto: “Non è possibile. Non posso spedirvi una sola pagina che riguardi l’ex-angelo perché la parte non è stata ancora scritta. È solo un’idea”. Può sembrare strano, ma se avesse letto la sceneggiatura forse non avrebbe accettato. Invece, visto che non c’era niente, ha detto: “Ah, ho già lavorato così con Cassavetes e, a dire il vero, preferisco girare senza sceneggiatura”.
Ci siamo parlati per telefono soltanto due volte. Un venerdì sera è arrivato a Berlino, abbiamo sviluppato le sue scene nel fine settimana girandole in quella seguente. La troupe e il lavoro gli piacevano tanto che alla fine è rimasto una settimana in più. Sperava sempre di poter girare ancora qualche cosa. Non conosceva Berlino e andava a passeggio tutto il tempo. Somigliava un po’ al suo personaggio nel film: lo cercavamo sempre e intanto lui se ne stava in giro.
Wim Wenders, Le Souffle de l’ange, in Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Ubulibri, Milano 1989