Così lontani, così vicini

Così lontani, così vicini

Calling All Angels
Calling All Angels
We’re Cryin’ and We’re Hurtin’
And We’re Not Sure Why...
Jane Siberry con k.d. lang, Calling All Angels


Uno dei problemi principali che abbiamo affrontato girando Il cielo sopra Berlino è stato questo: come interpretare un angelo? Di solito interpreti un personaggio, per cui rifletti sulla psicologia e ti chiedi: “Com’è questo tizio? Che cosa sente e cosa sta pensando? Come si esprimerebbe?” e anche “È arrabbiato? Affamato? Assetato? Stupido?”. Ma diventa un problema se devi interpretare un angelo. Che cosa puoi fare? Puoi provare a camminare come se sapessi volare, e in ogni caso continui a essere te stesso, non puoi fare niente. Sei soltanto lì. Per cui ha ragione lui. Si può descrivere così: essere se stessi. C’è proprio un ‘non recitare’: liberi la tua presenza fisica. Non c'è spazio per le questioni psicologiche tra gli angeli, e questo era davvero un problema per noi.
Bruno Ganz, intervista di Richard Raskin, “p.o.v.”, n. 8, dicembre 1999, ora in Wim Wenders, a cura di Stefano Francia Di Celle, Torino Film Festival/Il Castoro, Torino-Milano 2007


Il cielo sopra Berlino mantiene, anzi esibisce volutamente, alla fine, la sua originaria vocazione magmatica e sinfonica, assolutamente funzionale al soggetto stesso – Berlino – che si proponeva di raccontare. Il paesaggio urbano si rivela il vero e assoluto protagonista di un film che trova, al fondo, la sua unica coerenza strutturale […] nella dimensione spaziale, là dove Wenders riesce a dare felicemente concretezza alla dialettica fra Storia e storie, fra grande e piccolo mondo, fra la lontananza della prospettiva angelica sulle cose e la vicinanza di quella umana. Anche in Il cielo sopra Berlino, a dispetto di ogni sforzo di recuperare la trama di un racconto, il regista torna così a confermare la sua più schietta vocazione di pittore di paesaggi, mosso dalla primaria ambizione di cogliere, anche nel medium cinematografico, la dimensione del tempo dentro quella dello spazio, di guardare e di descrivere, più che di narrare. Il cielo sopra Berlino si consegna così alla storia del cinema come il geniale e amorevole ritratto di una città che stava per scomparire, con un’atmosfera e un’umanità pronte per un’irreversibile metamorfosi.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004


Cammina cammina Wilhelm Wenders Meister è arrivato fino in cielo. Ora, appollaiato (è il caso di dirlo) su una torre-orologio che domina Berlino, medita sulla sorte degli umani: si deve volare oltre le nuvole o per essere angeli basta possedere un’idea nuova e incorrotta del mondo? Il cielo sopra Berlino parla di due creature alate, Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), cadute sulla Terra dal pianeta proibito ai vivi. Hanno la capacità di udire i pensieri della gente, vedono in bianco e nero, si raccontano l’un altro gli episodi curiosi a cui hanno assistito in città.
La biblioteca pubblica è piena di angeli d’ambo i sessi, circospetti e misurati come attori sul palcoscenico. Indossano lunghi soprabiti scuri e una sciarpa grigia, i capelli sono raccolti in un codino da un piccolo, prezioso papillon nero. Angeli da passerella, eleganti, postmoderni, un po’ snob. Angeli-personaggi in cerca d’autore, senza spettatori e spettatori essi stessi, perché la scena è il mondo e loro sono costretti a osservarlo. Damiel è il più autocritico: “Non entusiasmarsi solo per lo spirito, ma finalmente anche per un pranzo. Essere un selvaggio”.
Amore scuote brutalmente il fair-play dell’angelo, partecipe e distaccato al tempo stesso, la mestizia lirica e l’infelicità messianica che caratterizzano la sua maschera eterea. Damiel infatti ha incontrato un’anima gemella, la trapezista Marion (Solveig Dommartin), che vola sotto la tenda del ‘Circus Alekan’ (Henri Alekan è il direttore della fotografia) con ali posticce, bellissima. La segue, la spia, sente che è triste perché il circo è fallito e la stagione si conclude in anticipo: “Come devo vivere, come devo pensare? All’interno degli occhi chiusi chiudere ancora gli occhi, allora anche le pietre sono vive. Stare in mezzo ai colori. Il piacere di amare”.
Damiel è perduto: da stilista/stilista, artista alla moda, si scioglie il codino […], perde le ali, vende la sua corazza di rame per farsi uomo. E, presso il muro di Berlino, scopre improvvisamente i colori. “Voglio conquistarmi una storia”, afferma. “Basta con il mondo dietro al mondo”.
Se Damiel è il regista (Wenders che riflette ancora una volta su se stesso; Marion: “Guardarsi allo specchio vuol dire vedersi pensare”) o il cinéphile, quel mondo dietro al mondo indica uno spazio mitico, la soglia magica fra sogno e realtà che periodicamente ogni creatore attraversa. L’angelo ha scelto di cambiare posto, di passare davanti alla macchina da presa, di essere attore sul set o entrato (nella vita) liberandosi del costume di scena, per lasciare tracce – forme concrete – sulla terra.
Stefano Socci, in Aa.Vv., Wim Wenders, il cinema dello sguardo, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1995


Solo in questa città lo sguardo libero dell’angelo – che coincide con quello della macchina da presa, mobilissima ed instancabile nel tracciare sinuosi ed avvolgenti movimenti aerei – può rinunciare all’estraneità per piegarsi alla necessità di compromettersi con la materialità del reale. Autentico protagonista del film, lo sguardo dell’angelo realizza il sogno del narratore, quello di attraversare impalpabilmente i muri e le finestre per ‘entrare’ nelle vicende della gente che lo circonda, quello di accostarsi non visto, per strada o in un metro, ad un passante qualsiasi per elevarlo per un momento ad eroe di una storia possibile. Ma, allo stesso tempo, questo sguardo segna il distacco e l’impotenza di chi può vedere tutto ma delle cose non riesce a catturare che la forma, l’essenza immateriale, come Cassiel che, provato a sollevare un oggetto, stringe in mano solo la sua apparenza. Partecipe del dolore e della solitudine di tutti gli uomini, eternamente mortificati nella vana aspirazione all’‘angelicità’ (la professione di Marion), capace di raccogliere dovunque un immenso ma effimero repertorio di frammenti individuali destinati all’incompiutezza, all’inenarrabilità, l’angelo non riesce tuttavia a salvare il singolo che ha scelto di morire (l’impotenza di Cassiel di fronte al suicida del grattacielo).
In questa incapacità sta il limite, anzi il fallimento di uno sguardo dall’esterno che consegue l’illusione dell’oggettività al prezzo di un’estrema solitudine, di una separazione dal mondo che è la stessa cui è condannato il narratore. La scelta della mortalità, della finitezza, diviene allora lo sforzo necessario per essere autenticamente ‘presenti’ agli altri, una fiduciosa immersione nelle fatiche del quotidiano cui tanti altri angeli – come l’insospettabile, perché familiare, Peter Falk – si sono già deliberatamente votati.
Filippo D’Angelo, Wim Wenders, Il Castoro, Milano 1995


Il film è infatti popolato di minute notazioni che i due angeli si appuntano e si scambiano poi in luoghi diversi (davanti al muro, seduti in un’automobile in un autosalone). I due si struggono per quelle stesse cose minime che gli uomini sembrano ignorare o di cui non sanno riconoscere il valore perché abituali, quotidiane: “Avere la febbre, le dita nere per aver letto il giornale, non entusiasmarsi solo sempre per lo spirito ma anche finalmente per un pranzo, per la linea di una nuca o di un orecchio”, dice Damiel a Cassiel.
La condanna degli angeli nel film, come degli uomini nella realtà, sembra dire Wenders, è di vivere le cose solo per finta: zum Schein, in apparenza. Gli angeli sono allora una metafora (a trick, un artificio, è la parola usata da Wenders) per continuare a parlare di ciò che al regista tedesco da sempre interessa: la ricerca di una vita più autentica. Gli angeli protagonisti del film si riconnettono per questo motivo a tutta quella ricerca di autenticità ed esperienza che era il significato più profondo della cultura del viaggio.
Se l’idea degli angeli è venuta a Wenders dalla frequentazione delle Elegie duinesi di Rilke (ma anche, come segnalato sia pure fugacemente nella sequenza della biblioteca, dell’Angelus Novus di Benjamin e Klee) non è estranea all’ispirazione fondamentale del film la riflessione di un autore che Wenders conosce bene: T.W. Adorno. In particolare, l’idea che la perdita di autenticità e di capacità di far esperienza dell’uomo contemporaneo risiedesse in un errato rapporto con le cose e gli oggetti, era fra le intuizioni migliori di Minima moralia.
Luca Antoccia, Il viaggio nel cinema di Wim Wenders, Dedalo, Bari 1994


La principale e irripetibile peculiarità di Berlino consiste per il regista, dunque, proprio nella simultaneità di piani temporali che è inscritta nel suo paesaggio, ma che difficilmente si lascia cogliere dalla gente comune, mentre si offre con assoluta evidenza ai tanti angeli che si aggirano per quelle strade e che Wenders ha scelto come protagonisti con la principale funzione di introdurre una percezione della realtà diversa e incontaminata, perché librata al di sopra di ogni ordine dello spazio e del tempo. Gli angeli sono infatti pura essenza, creature non soggette al divenire, capaci di una conoscenza immediata e disgiunta dall’esperienza sensibile. Da sempre, dall’epoca mitica anteriore all’inizio della Storia che in ogni momento possono evocare dentro al presente, essi sono i testimoni silenziosi delle vicende degli uomini, ne ascoltano le voci interiori e segrete […] e ne sono assediati in un brusio costante e diffuso, lo stesso in cui sono immerse le prime sequenze del film. Soprattutto, come vuole suggerire il grande occhio che si schiude sui titoli di testa, gli angeli sono dotati di uno sguardo in movimento, capace di associare fatti che avvengono contemporaneamente in luoghi diversi, di spostarsi attraverso le stratificazioni del tempo, di ignorare i confini e le barriere volute dagli uomini. Tutte queste sono prerogative che rendono la loro visione del mondo straordinariamente simile a quella perseguita dal cinema, tanto più dal cinema di Wenders, il quale attraverso l’artificio narrativo degli angeli ha potuto in fondo mantenersi fedele – anche in questo film solo apparentemente più statico – alla sua poetica del viaggio, da sempre inteso come un movimento che si svolge nella dimensione del tempo più che in quella dello spazio.
Eva Banchelli, Il cielo di Atlantide, in Da Caligari a Good Bye, Lenin! Storia e cinema in Germania, a cura di Matteo Galli, Le Lettere, Firenze 2004