Antologia critica

Antologia critica

Caro Cesare Zavattini, non so se hai ancora voglia di scendere dalle tue 85 gloriose primavere e andare qualche volta al cinema. Ma se nei giorni delle feste ti riprendesse la nostalgia dello schermo acceso, vai a vedere Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. È un film alla Zavattini, ma non nel senso che si è attribuito ai tuoi imitatori degli anni Cinquanta. Wenders non ti mette fra i suoi angeli custodi (che sono, nella dedica affettuosa del film, il giapponese Ozu, Truffaut e Tarkovski), magari non ti ha neppure letto. Come probabilmente non ha letto il bel libro I semidei (Adelphi), scritto nel 1914 da James Stephens ‘gemello irlandese’ di Joyce: la storia di un angelo che strappa le proprie ali per amore di una ragazza. […]
Ti consiglio questo film, carissimo Za, e lo consiglio a tutti anche perché tra quelli annunciati per le feste mi sembra uno dei pochi di matrice non consumistica e forse l’unico permeato di spirito natalizio: nel senso che celebra l’amore del prossimo ovvero semplicemente l’amore. Insomma Der Himmel über Berlin (Wenders dice che il titolo in tedesco è più bello, una specie di poemetto in un verso solo) non si consuma nell’emozione passeggera, lascia qualcosa dentro anche a un tipo come me, che non sono riuscito in tutta la vita a vedere più di un angelo o due e dispero ormai di vederne altri.
Perché noi adulti, come spiega il film, gli angeli non li vediamo. Li vedono solo i bambini; e tra bambini e angeli si scambiano sorrisi complici perché hanno in comune un misto di furberia e ingenuità. Gli angeli ci vedono in un bellissimo bianco e nero, nella trionfale fotografia démodé del quasi ottuagenario Henri Alekan: una sfida ai mascalzoni che stanno colorando elettronicamente Il mistero del falco e altri capolavori del passato. […]
Film a bocca chiusa, intessuto di ‘pensieri parlati’ anziché di parole dette, Il cielo sopra Berlino è più bello a vedersi che a raccontarsi. È chiaro che al di là del travestimento spiritualistico, questo è un racconto che si sforza di parlare dell’oggi. […] Non vorrei, tuttavia amareggiare il mio Zavattini, eterno ribelle, che magari leggendomi si sarà fatta l’idea di un film evasivo, legato alle molteplici rinunce del Riflusso. In Wenders, come in tutto il nuovo cinema tedesco da Fassbinder in poi, l’elemento ‘contro’ c’è sempre; ed è nello stile. […]
Fin dalla scelta polemica del bianco e nero, Wenders opera contro le abitudini e le pigrizie del cinema contemporaneo: predilige i tempi lenti e antitelevisivi, si abbandona all’appunto occasionale e alla divagazione sapiente, lascia spazi di meditazione allungando fino all’estenuazione certi episodi […]. Forse è per effetto di questa dialettica che dopo aver contemplato l’angelo diventato uomo lo spettatore esce dal cinema desiderando, almeno per un minuto, di diventare un angelo.
Tullio Kezich, “La Repubblica”, 1987


È tante cose questo film appassionato, amorevole e insolitamente ottimista nel suo elogio della ‘terrestrità’, ma è anzitutto un film su Berlino, un’affascinante, inquieta, bellissima sinfonia di una grande città come quella che sessant’anni fa girò Walter Ruttmann, compatriota di Wenders. Con Il cielo sopra Berlino che è anche una riflessione sul Tempo e sulla Storia (quella delle guerre e degli assassini) Wenders ha tentato di recuperare la memoria storica e visiva di Berlino e della sua gente. Non è soltanto un documentario oggettivo su una grande e difficile città, unica al mondo per le note ragioni storico-politiche. È una sorta di poema unanimista composto di frammenti di storie individuali, un repertorio di casi umani di cui nella colonna sonora ascoltiamo gli echi, condannati all’incompiutezza.
Morando Morandini, “Il Giorno”, 1987


C’è molto di antico in questo Il cielo sopra Berlino: referenti culturali, un’atmosfera che si vuole esplicitamente richiamare al ‘realismo poetico’ degli anni Trenta […]. Era il periodo che, complice la pièce di Ferenc Molnár, faceva spuntare le ali e il sorriso persino al cinema di Fritz Lang, la cui prima e ultima opera francese, La leggenda di Liliom (1933-34), di sicuro non è ignota a Wenders: un cinefilo come lui può non conoscere lo Zavattini (e il De Sica) di Miracolo a Milano ma non le avventure tra la terra e il cielo di Charles Boyer. Comunque oltre Carné- Prévert e Molnár-Lang (o Frank Capra), altre cose aleggiano in questo cielo berlinese, per esempio la caleidoscopicità ‘neo-oggettivista’ di un Ruttmann (Berlino, sinfonia di una città, 1927) oppure il topos del mondo del circo di Dupont (Varieté, 1925).
Moduli e stilemi del cinema degli anni Venti e Trenta – basta pensarci un po’ su tornano in mente a dismisura soprattutto a osservare la prima parte in bianco e nero del film architettata magistralmente dal ‘circo Alekan’, ma lo stile (o ciò che richiama) arcaico, quasi desueto non accompagna un’operazione rétro anzi è vero il contrario. Lo strabismo contraddittorio e produttivo del cinema vague e immediatamente post-vague si va rinchiudendo, nell’opera wendersiana degli anni Ottanta, in un orizzonte pacificato, in un ambito che è quello della riscoperta/ricerca dei valori assoluti (la Famiglia, l’Amore), con ciò incontrando il gusto di un pubblico giovanile che ha eletto Wenders suo regista di culto. […]
Ancor più che in Paris, Texas qui si esibisce una moderna fiaba dell’omnia vincit amor coniugata – sullo sfondo della metropoli per eccellenza dell’incomunicabilità – a una nuova, ingenua possibilità di comunicazione. […] Wenders, per esprimere l’essenza problematica del suo cinema, si è affidato alla scorciatoia dell’immediatezza, a una primigenia purezza pre-civilizzazione e prestorica dei sentimenti e della comunicazione. […] L’amore è un fatto tout-court, esiste perché esiste, è la riunione predestinata di due anime gemelle che – topos e cliché romantico – si devono cercare e riunire.
Giovanni Spagnoletti, Wenders, l’angelo e la trapezista, “Bianco e Nero”, n. 1, gennaio/marzo 1988


Laddove Paris, Texas vedeva l'America come ‘spazio’ e la esplorava orizzontalmente, Il cielo sopra Berlino vede l'Europa (Berlino in particolare) come ‘tempo’ e la esplora verticalmente. […] L’estetica del film è apertamente contro la ‘prosa’ hollywoodiana e a favore di un cinema di ‘poesia’. Sessant’anni dopo Berlino, sinfonia di una città, la lenta rappresentazione del film offre un correttivo umanista alla riduzione della vita urbana a ritmi e schemi di movimento fatta da Ruttmann; le gioie e i dolori degli uomini sono la città. Ci sono echi di Liliom di Lang nell’idea che gli angeli siano invisibili agli adulti e nella visione sentimentale dell’innocenza infantile. La dicotomia tra il colore e la vista in bianco e nero degli angeli deriva direttamente da Scala al paradiso di Powell e Pressburger, e si fa cenno anche a un altro film monocromatico con inserti a colori, Diario di un ladro di Shinjuku di Oshima, la cui scena culminante della libreria (dove i libri ‘parlano’ con la voce dei loro autori) ispira la scena migliore di Wenders, quella della Biblioteca Nazionale, con il brusio dei testi dei libri che vengono consultati.
Tony Rayns, “Monthly Film Bulletin”, 1° luglio 1988


Ambizioso e audace, il lungometraggio di Wim Wenders si concentra principalmente su quanto viene visto e sentito da due angeli (Bruno Ganz e Otto Sander) mentre sorvolano e camminano nella Berlino contemporanea. Sono gli angeli del poeta Rilke, non gli angeli benedetti o caduti del cristianesimo. Wenders e il cosceneggiatore Peter Handke li usano per realizzare un documentario poetico e sorprendente sulla vita di questa città, concentrandosi su una star americana (Peter Falk nel ruolo di se stesso), una trapezista francese (Solveig Dommartin), e un professore tedesco in pensione che ricorda com’era Berlino un tempo (Curt Bois).
Jonathan Rosenbaum, “Chicago Reader”, 1° luglio 1988


Si viene sedotti dall'incantesimo di questo film […]. Scorre lentamente, ma non si diventa impazienti, perché non c’è una trama vera e propria, e quindi non ci si preoccupa di passare alla prevedibile tappa successiva. È una pellicola sull’essere, non sul fare. […] Crea uno stato d’animo di tristezza e isolamento, di desiderio, di transitorietà delle cose terrene. Se l’essere umano è l’unico animale che sa di vivere nel tempo, il film tratta di questa consapevolezza. […] Per me, è come una musica o un paesaggio: libera uno spazio nella mia mente, uno spazio per delle domande. Alcune sono poste nel film: “Perché io sono io? Perché sono in questo luogo e non in un altro? Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?”.
Roger Ebert, “Chicago Sun-Times”, 12 aprile 1998


La fantasia romantica, stravagante e profondamente letteraria di Wim Wenders, concepita insieme a Peter Handke, viene riportata in sala e oggi ancora di più sembra un’elegiaca ‘sinfonia urbana’ su Berlino. È straordinario pensare che solo due anni dopo l’uscita del film, il Muro e la divisione della città in est e ovest – che erano apparsi poeticamente fissi e immutabili come la riva di un fiume – erano scomparsi. Con le sue incredibili riprese dall’alto, il film di Wenders vola, si libra e fluttua sopra la città, superando l’odiato muro, mettendo in scena il desiderio dei berlinesi di superare in qualche modo la gravità della storia e di oltrepassare questa orrenda barriera. […]
In questa favola di angeli benevoli, Wenders ha qualcosa di Frank Capra, di Powell e Pressbuger, e anche qualcosa di Marcel Carné o persino della Terra desolata di T.S. Eliot.
Peter Bradshaw, “The Guardian”, 22 giugno 2022