Jean Vigo

Jean Vigo

Qual era il segreto di Jean Vigo? È probabile che vivesse più intensamente della media della gente. Il lavoro del cinema è ingrato per il suo frazionamento. Si riprendono da cinque a quindici secondi di film poi si sta fermi per un’ora. Non si trova sul set l’occasione di eccitamento che prende uno scrittore come Henry Miller davanti al suo tavolo di lavoro. Alla ventesima pagina una specie di febbre lo prende, lo trascina e questo è formidabile, sublime forse. Sembra che Vigo lavorasse continuamente in questo stato di trance e senza perdere nulla della sua lucidità. Si sa che era già malato mentre girava i suoi due film e anche che ha girato certe sequenze di Zéro de conduite steso su un letto da campo. È naturale quindi che prevalga quest’idea dello stato febbrile in cui si trovava girando. È assolutamente possibile e plausibile. È esatto che si possa essere effettivamente più brillanti, più forti, più intensi quando si è febbricitanti. A un suo amico che lo consigliava di non stancarsi, di risparmiarsi, Vigo rispose che sentiva che il tempo non gli sarebbe bastato e che doveva dare tutto e subito. Per questo sembra plausibile che Vigo, sapendosi condannato, sia stato stimolato da questa scadenza, da questo tempo contato. Dietro la cinepresa, doveva trovarsi nello stato d’animo di cui parla Ingmar Bergman: “Bisogna girare ogni film come se fosse l’ultimo”.

(François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 2003)




Vigo nasce a Parigi il 26 aprile del 1905. Suo padre è Eugène Bonaventure de Vigo, conosciuto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda, collaboratore e fondatore di importanti giornali anarchici quali “Le Libertarie”, “La Guerre Sociale” e “Le Bonnet Rouge”. Nell’agosto del 1917, in una fase della prima guerra mondiale molto critica per la Francia, è accusato di alto tradimento con il sospetto di essere un collaborazionista della Germania. Imprigionato, muore suicida in carcere in circostanze sospette.
L’infanzia di Vigo è irrimediabilmente segnata da questo evento tragico, che lo porta dapprima a essere privato della propria identità, per evitare di essere riconosciuto come il ‘figlio del traditore’, quindi a essere allontanato dalla madre e a vivere l’esperienza dell’internato nel collegio di Millau. Inoltre, fin da giovane si manifestano i segni di una malattia ai polmoni che condizionerà inevitabilmente la sua vita. Durante uno dei numerosi ricoveri ospedalieri conosce la sua futura moglie, Elisabeth Lozinska detta Lydu, con la quale condivide la passione per il cinema.
I primi contatti con l’ambiente cinematografico Vigo li ottiene a Nizza grazie a Germaine Dulac, una delle prime registe e teoriche francesi d’avanguardia, la quale lo introduce alla Franco-Film dove ottiene il ruolo di assistente operatore in film di scarso rilievo. Dopo questo primo apprendistato realizza À propos de Nice (1929) opera sospesa tra il documentarismo sociale e la sperimentazione linguistica, che si inserisce nel solco delle cosiddette ‘sinfonie urbane’ incentrate sul resoconto della giornata di una metropoli […]. Sempre a Nizza, in quegli anni Vigo fonda un cineclub, Les amis du cinéma, al quale collaborano sua moglie e suoi amici d’infanzia.
Successivamente, realizza Taris (1931), un breve cortometraggio documentario commissionatogli dalla Gaumont-Franco-Film-Aubert sul campione di nuoto francese Jean Taris. Nonostante l’intento didattico e promozionale, Vigo trasforma il ritratto di uno sportivo in un’opera di sperimentazione, ricorrendo a ralenti, sovrimpressioni, inversioni, raddoppiamenti e soprattutto a immagini subacquee.
Dopo alcuni progetti non realizzati, Vigo si trasferisce a Parigi, dove conosce il produttore Jacques-Louis Nounez con il quale realizza Zéro de conduite (1933), un mediometraggio di finzione nato dall’esperienza autobiografica dell’internamento in collegio. […] Completato nel 1933 dopo una tortuosa vicenda produttiva, il film sarà bloccato dalla censura fino al 1945.
Seppur demoralizzato dalla vicenda censoria di Zéro de conduite, nell’inverno tra il 1933 e il 1934 Vigo gira L’Atalante, suo primo e unico lungometraggio di finzione. Dopo aver completato un primo montaggio, la salute del regista peggiora e la pellicola viene rimontata dai produttori Gaumont, che la distribuiscono con diverse musiche e con il titolo Le Chaland qui passe. Vigo muore il 5 ottobre del 1934 a Parigi all’età di ventinove anni per setticemia, senza aver potuto assistere alla diffusione in sala dei suoi lavori più importanti.

(Giacomo Ravesi, L’Atalante. Immagini del desiderio, Mimesis, Milano-Udine 2016)




Jean Vigo e le avanguardie

Al di là del fascino dell’opera maledetta, grande rilievo acquista la posizione di Luis Buñuel e Jean Vigo nei confronti delle avanguardie. Da un canto essi hanno saputo riconoscere i limiti ideologico-politici del surrealismo, superare lo sperimentalismo formale e l’astrattismo delle avanguardie cinematografiche, e dall’altro, pur accettando le regole del gioco dell’industria del cinema, vi hanno aperto con il loro operare specifico delle ferite che tutt’oggi forse non sono ancora sanate. Come Buñuel, Vigo s’impadronisce del patrimonio linguistico-lessicale accumulato dalle avanguardie – non solo francesi – ma evita le secche della ricerca estetica neutrale, la “sottigliezza troppo artistica del cinema puro”, cerca la presa sul reale e lancia la proposta di un “cinema sociale”. […] La mdp di Buñuel e di Vigo discende dai cieli eterei della poesia, dalle altezze dell’assoluto surrealista (si pensi al plongée aereo della prima sequenza di À propos de Nice), per percorrere le strade di Nizza o penetrare nei salotti dell’âge d’or della borghesia dove si consumano i risibili cerimoniali della dépense autorizzata; oppure la mdp emerge dalle acque amniotiche della piscina dove nuota Taris o da quelle della Senna dove Jean cerca la sua amata, per navigare con una chiatta sulle “acque gelide del calcolo egoistico”. […]
Una presenza quasi ossessiva del corporale, della materialità delle cose, della fisicità del reale, percorre l’intera opera di Vigo, che si presenta a noi – come ai censori dell’epoca – quale irruzione della carne nel cinema d’avanguardia e nel cinema europeo tutto. Se il corpo intero è il luogo dell’unità, dell’armonia e della bellezza (il corpo atletico di Taris, quello virginale di Juhette, i corpicini dei piccoli convittori), è nella difformità del corpo (nanismo, obesità, senilità), nelle costrizioni e asservimenti (ritenzione coatta, riti igienico-mondani, nutrimento), nella frantumazione e decomposizione, che emerge la carne come luogo della differenza e della perdita. Gambe nude o fasciate da fini calze di seta, cosce bianche o quelle pudiche che la bambina paffutella sottrae allo sguardo del suo compagno di giochi; scarpe e piedi lucidati; volti anneriti da una caricaturale abbronzatura lampo; ventri obesi che ballonzolano in danze sfrenate e grottesche, il busto tatuato di Pére Jules, di cui Juhette subisce tutta la seduzione; corpi irrigiditi dalla fame e dal freddo in una Parigi miserabile, corpi mollemente esposti al sole, i corpi separati degli amanti che si cercano disperatamente; ma soprattutto mani: mani che lavorano, che giocano, le mani da prestidigiatore del camelot, le unghie di Juliette affondate nelle carni di Jean mentre fanno l’amore, le mani di Pére Jules. […]
Ma al di là della ossessione carnale vigoltiana, oltre lo stesso rappresentato – in cui qualcuno ha voluto vedere persino un rifiuto della carne, accusando Vigo di “angelismo” e di “catarismo” – la carne si fa rappresentazione, discorso, scrittura. L’uso frequente di campi ravvicinati, il taglio delle inquadrature sezionano i corpi, il montaggio ne assembla i pezzi senza ricomporli, la luce ne esalta la carne fino a farcela quasi toccare.

(Michele Canosa, Il cinema delle avanguardie e Jean Vigo, in Francia anni ’30. Cinema cultura storia, a cura di Patrizia Dogliani, Giovanna Grignaffini, Leonardo Quaresima, Marsilio, Venezia 1982)