Antologia critica

Antologia critica

Ammiro troppo il Signor Chaplin per ritenere che l’elemento più importante del suo nuovo film sia costituito da quei pochi minuti in cui ci è consentito di ascoltare la sua voce, piacevole e profonda, in una canzone. Il piccolo uomo ha decisamente fatto il suo ingresso nel mondo contemporaneo. Fino ad ora il suo coraggio e le sue vicissitudini avevano sempre avuto un retrogusto ‘antico’, non solo per via delle torte alla crema dell’epoca di Karno, ma per i suoi modi, per quell’abbigliamento singolare, per il suo senso di pathos e quella sua povertà un po’ datata. Un cambiamento evidente c’è stato anche nella scelta dell’eroina: fin qui erano chiare di capelli e carnagione, prive di lineamenti memorabili, con quell’effetto di sbavatura degli acquerellisti alle prime armi. Mentre Paulette Goddard, con la sua capigliatura corvina, sudicia, con quella faccia divertente, urbana e plebea, è una garanzia che il piccolo uomo non rimarrà vittima di un’altra situazione sdolcinata, il pathos della ragazza cieca e del bambino orfano. Per la prima volta il piccolo uomo non si congeda da solo, con la sua bombetta malconcia e il bastone che ondeggia lungo la strada infinita fin fuori dallo schermo. Stavolta si allontana in compagnia, pronto a cogliere quello che il futuro ha in serbo per lui. Fino a quel momento gli era toccato un lavoro in un’enorme fabbrica a stringere i bulloni di una macchina senza nome che gli scivolavano davanti su un nastro trasportatore. Dopo aver lasciato l’ospedale viene scambiato per un leader comunista e quindi arrestato, e dopo aver sventato una rivolta in prigione viene nuovamente rilasciato. Disoccupazione e detenzione fanno da contrappunto alla sua esistenza, così come la fame e i colpi di fortuna, e in un qualche momento il corso della sua vita si lega a un altro essere umano rifiutato dal sistema. Qualunque siano le sue convinzioni politiche, il Signor Chaplin è un artista e non un uomo di propaganda. Non cerca di spiegare ma presenta con vivida fantasia quello che gli sembra un mondo folle e tragicomico che avanza senza una strategia. Ma nel suo disegno della fabbrica disumana non c’è niente che ci lasci supporre che il piccolo uomo si sentirebbe più a casa a Dneipostroi. Chaplin si limita a presentare la realtà senza offrire delle soluzioni politiche.

Graham Greene, Tempi moderni, “The Spectator”, 14 febbraio 1936

 


 

Alla sua uscita, nel 1936, Tempi moderni fu accolto con qualche riserva. Fu questo film a suscitare le prime insofferenze nei confronti di un clown e della sua tendenza a filosofeggiare sull’uomo e sulla società. Oggi, al contrario, emergono con forza sia la distanza con cui Chaplin guarda il suo oggetto che il primato costante dello stile. Intendiamoci, con questo non voglio dire che la forza e il valore della sua parabola trovino oggi, al di là delle polemiche circa la sua attualità, una migliore espressione. Criticare il ‘regno delle macchine’ e la divisione del lavoro non ha, effettivamente, piu molto senso, e la critica al capitalismo che emerge dal film potrebbe applicarsi anche allo stacanovismo sovietico; a quanto pare infatti, Tempi moderni fece alzare ‘un vento freddo’ su Mosca. Tempi moderni e tutt’altro che un ‘film a tema’ e se Chaplin effettivamente si schiera a favore degli uomini contro la società e le sue macchine, il suo messaggio non si pone su un piano politico o sociologico, ma unicamente morale, e sempre attraverso un esercizio del suo stile. Lo slancio creativo deriva sempre dall’intenzione comica ed è la perfetta messa in scena di ogni situazione a far emergere il significato. Più che affermare che Charlot sia dalla parte dei poveri, sarebbe più appropriato dire che sono i poveri a fianco di Charlot, ovvero dalla parte dell’uomo, il perno di ogni situazione resta, tuttavia, l’individualismo assoluto del Vagabondo. Tempi moderni e dunque un susseguirsi di situazioni comiche incentrate attorno a Charlot e al tema comune della vita industriale con le sue conseguenze. È questo l’aspetto che rende questo film diverso dai lungometraggi precedenti di Chaplin, in particolare da Luci della città, considerato spesso il suo capolavoro; ed è forse proprio questo il suo punto di forza. Non esiste, in Tempi moderni, una sola scena volta a illustrare un’idea astratta; al contrario, le idee scaturiscono dalle situazioni e sembrano traboccare in ogni direzione. Tempi moderni appare come la sola favola cinematografica che sappia cogliere lo sconforto dell’uomo del Ventesimo secolo di fronte alle meccaniche sociali e tecnologiche. Non è la prima volta che Chaplin ci diverte mettendo in scena l’eterna lotta di Charlot con gli oggetti. Contro la loro ostilità, Charlot si avvaleva di una furbizia tutta spirituale, trovando loro un diverso impiego rispetto a quello a cui erano destinati. Per sconvolgere e disorientare la cattiveria delle cose, faceva finta di scambiarle per altre. In questo senso, l’intero film dovrebbe essere considerato come una trasposizione del conflitto dell’uomo con le cose che ha creato, che viene elevato, per mezzo della macchina, al livello della Storia e della Società. Ciò che prima era il motore delle singole gag, diviene qui il tema generale e morale dell’intero film. Il film di Chaplin, completamente muto, appariva allora desueto e anacronistico. Ma il tempo, cancellando le prospettive, lo restituisce al suo classicismo e rivela chiaramente che al di la degli stili, l’importante e lo stile. E più che lo stile, il genio.

 

André Bazin, Le Temps rend justice aux Temps modernes, “Arts”, n. 485, 13 ottobre 1954

 


 

Invischiato nella sua fame cronica, l’uomo-Charlot si situa sempre un gradino al di sotto della presa di coscienza politica: lo sciopero è per lui una catastrofe perché minaccia un uomo letteralmente accecato dalla fame; quest’uomo non raggiunge la condizione operaia se non nel momento in cui il povero e il proletario vengono a coincidere sotto lo sguardo (e i colpi) della polizia. Storicamente Charlot riprende a un dipresso l’operaio della Restaurazione, il manovale in rivolta contro la macchina, disorientato dallo sciopero, dominato dal problema del pane (nel vero senso della parola), ma ancora incapace di accedere alla conoscenza delle cause politiche e all’esigenza di una strategia collettiva. Ma appunto perché Charlot rappresenta una specie di proletario bruto, ancora al di fuori della Rivoluzione, la sua forza rappresentativa e immensa. Nessuna opera socialista e ancora arrivata a esprimere la condizione umiliata dal lavoratore con tanta violenza e generosità. Il povero si trova continuamente tagliato fuori dalle sue tentazioni. È per questo in fondo che l’uomo Charlot trionfa di tutto: proprio perché sfugge a tutto, respinge ogni accomandità, e nell’uomo non investe altro che l’uomo solo. La sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta la forma forse più efficace della rivoluzione.

 

Roland Barthes, Mythologies, Paris, Éditions du Seuil, 1957

 



 

La forza del film sta proprio nell’aver scelto a protagonisti due personaggi che non vogliono cambiare il mondo, ma, più umilmente, inserirsi alla meno peggio. Perché il film riceve forza da questa scelta? Crediamo perché esso punta non già sul futuro e sull’utopia ma sul passato e sul senso comune. Il protagonista e un disoccupato, un derelitto, un paria ma non un rivoluzionario né un rivoltato, perché, se lo fosse, allora non soffrirebbe nella sua carne le contraddizioni dei tempi moderni, sarebbe un eroe consapevole ossia una proiezione dell’autore, vale a dire un intellettuale, poco rappresentativo come tutti gli intellettuali. Soltanto, infatti, un protagonista come il Charlot di Tempi moderni, privo non solo di coscienza di classe ma anche di qualsiasi coscienza, può far diventare comiche le sequenze sul macchinismo. La comicità, oltre che dalla bravura del clown Chaplin, deriva dal fatto che Charlot ‘non sa’ di essere un operaio, si crede in buona fede un uomo come tutti gli altri. Di fronte alla ricchezza e alla celebrità, Chaplin reagisce secondo il senso comune, come tutti i classici: cercando di liberarsene attraverso la rappresentazione della povertà e dell’insuccesso.

 

Alberto Moravia, Un clown su misura per i ceti medi, “L’Espresso”, 12 marzo 1972