Aperture interpretative e fughe psicogene

Aperture interpretative e fughe psicogene

Credo che sia lo studio molto schietto e realistico di una persona che non ha idea di come affrontare la situazione che si è creata.
Barry Gifford




Tutte le tracce necessarie a una corretta interpretazione sono contenute nel film, e amo ripetere che per molti aspetti si tratta di una storia lineare; solamente alcuni elementi escono leggermente dagli schemi consueti. Anche nella vita ci sono cose incomprensibili, eppure, quando le si vedono in un film, la gente si preoccupa. E tuttavia in qualche modo sono comprensibili. La maggior parte dei film sono concepiti in maniera tale da essere compresi da un gran numero di persone. Così non rimane molto spazio per il sogno e la meraviglia.
(David Lynch, Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita, a cura di Chris Rodley, Il Saggiatore, Milano 2016)



Numero approssimativo di modi in cui sembra che Strade perdute si possa interpretare
All’incirca 37. Sembra che il grande bivio interpretativo sia se dobbiamo prendere l’improvviso, inspiegabile cambiamento di identità di Bill Pullman sul serio (cioè se dobbiamo considerarlo letteralmente reale all’interno del film), o come una specie di metafora kafkiana della colpa, della rimozione e dell’evasione psichica, oppure se dobbiamo vedere tutta la cosa – dalle videocassette invadenti al braccio della morte alla metamorfosi nel meccanico, ecc. – come una lunga allucinazione da parte di un elegante sassofonista jazz che potrebbe trarre grandi benefici da qualche cura somministrata da un professionista. La possibilità meno interessante sembra quest’ultima, e sarei molto sorpreso se qualcuno alla Asymmetrical Productions preferisse un’interpretazione di Strade perdute come un lungo folle sogno.
Oppure, secondo un’altra ipotesi, la trama del film potrebbe semplicemente essere incoerente e non avere nessun significato razionale e non essere affatto interpretabile convenzionalmente.
(David Foster Wallace, “David Lynch non perde la testa”, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), minimum fax, Roma 1999)




Non si tratta di trovare una spiegazione in grado di sistemare gli eventi in modo coerente, quanto di proporre una interpretazione che innanzitutto tenga conto dei due più vistosi interrogativi che si impongono sin dalla prima visione: come è possibile che Fred sia colui che riceve il messaggio e colui che lo reca? Come è possibile che Fred, una volta in cella, si trasformi in Pete? Naturalmente si tratta di domande che non ci porremmo mai in un testo che ammette l’orizzonte del fantastico come regola narrativa.
Ma qui – ed è il bilico in cui Lynch ama condurre lo spettatore – non siamo alle prese né con una ‘fiaba’, né con un horror. Siamo portati ad accettare gli eventi narrativi e le loro incongruenze, ma non a spiegarli. Avviene insomma esattamente il contrario del genere fantasy, ad esempio, dove attraverso le regole previste da quello specifico mondo diegetico possiamo spiegare ogni evento – in base ad esempio ai ‘poteri’ di un dato personaggio – anche se non lo ‘accettiamo’. Ora, se queste domande non hanno una spiegazione interna al racconto di Strade perdute (non sono cioè occultate da una narrazione intricata, ma sono palesemente lasciate irrisolte) significa che, lungi dal reclamare una spiegazione narrativa, si aprono al lavoro dell’interpretazione.
(Andrea Minuz, Strade perdute, in David Lynch, a cura di Paolo Bertetto, Marsilio, Venezia 2018)




Tutto è doppio in Strade perdute – le situazioni, i personaggi, gli oggetti – e tutti gli elementi possono essere percepiti solo in relazione a una rete di corrispondenze proprie al film. Lo spettatore viene catturato in un circuito integrato, in un meandro al cui interno egli deve creare i propri punti di riferimento.
In realtà Lynch cerca di creare un contatto ipersensoriale con lo spettatore, e opera per metterlo in una determinata condizione di recettività, facendogli contemporaneamente perdere l’orientamento e trovare una nuova relazione con flussi percettivi straordinariamente rarefatti, parenti stretti di quelli che è possibile raggiungere attraverso l’uso delle droghe. Qui il regista è una sorta di sciamano, di medium che cerca la trance dello spettatore con l’obiettivo di risvegliare le regioni anestetizzate del suo cervello. Ed è ciò che rende Strade perdute un film erotico, cosmico, musicale, uno dei più riusciti di tutta la filmografia di David Lynch.
(Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du Cinéma, Parigi 2010)




Il film si può definire, secondo lo stesso Lynch, “una storia di gelosia” e “una storia sulle identità parallele”. Infatti è composto da due vicende, legate tra loro a doppio filo anche se apparentemente indipendenti, con due protagonisti diversi: il sassofonista geloso Fred Madison e il meccanico latin lover Pete Dayton. […] In realtà è molto più convincente l’ipotesi secondo la quale il vero e unico protagonista è Fred, il quale, accecato dalla gelosia, uccide la moglie e finisce in prigione. Qui, in preda al delirio, rievoca la tragedia e rielabora le sue emozioni, ‘trasformandosi’ in Pete per cercare una via di fuga mentale che però non lo salva e lo riporta al punto di partenza. […]
Che si tratti davvero di un sogno – o, meglio, un delirio, Lynch l’ha definita una “fuga psicogena” – lo dimostrano un paio di osservazioni.
Osservazione 1. Narrazione cinematografica. Nella prima parte si seguiva una narrazione apparentemente tradizionale, salvo poi accorgersi che qualcosa non andava, che si trattava di una realtà contaminata dal delirio. Possiamo dire che la prima parte è il ricordo degli avvenimenti – che gradualmente riemergono dal subconscio – dal punto di vista di Fred. La seconda parte, invece, è caratterizzata da una narrazione onirica, emotiva, priva di rapporti di causa-effetto e dominata da impulsi interiori o associazioni di idee.
Osservazione 2. La seconda parte non ha senso senza la prima (mentre la prima, più o meno, sta in piedi da sola). Infatti non si capisce bene chi sia Pete e da quale storia provenga, mentre risulta chiarissimo che ha diverse cose in comune con Fred, a cominciare da un buon orecchio (Pete è un meccanico, ma è definito il “migliore orecchio della città”) e dalla sua passione per una donna che, a parte il colore dei capelli (è bionda anziché bruna), è identica a Renee. […]
Altri indizi del fatto che si tratta di un sogno arrivano il giorno dopo, quando Pete è al lavoro in officina e la radio trasmette un pezzo di jazz. È uno di quelli che suona Fred. A Pete viene il mal di testa e cambia canale. Questo dettaglio, che sarebbe del tutto inutile se le identità di Fred e Pete fossero distinte, ci ricorda che il vero protagonista è sempre lui, Fred. Proprio a questo punto, infatti, accade qualcosa di importante: si presenta in officina Eddy con la sua donna, Alice, una bionda mozzafiato che altri non è se non Renee con i capelli color platino.
(Andrea Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch, Mimesis, Milano-Udine 2015)




L’asfalto notturno rimanda alle tenebre della mente, la divisione della strada ed il fluttuare della macchina da presa ora a destra ora a sinistra della linea di demarcazione è un ovvio riferimento alla schizofrenia del protagonista, alla sua ambiguità mentale e alla scissione della personalità che investe la struttura stessa del film. Che la strada in questa pellicola sia l’immagine della mente dell’uomo è un’idea ribadita anche nel momento in cui ad un Fred Madison trattenuto in cella si sostituisce Peter Dayton, per una magistrale sovrapposizione dei personaggi ed una perfetta messa in crisi del concetto di identificazione spettatoriale. La strada viene mostrata con le stesse caratteristiche di messa in quadro palesate all’inizio del film: la simbologia è identica, ma uno spostamento della traiettoria della macchina da presa verso il ciglio di destra della carreggiata svela la figura di uno stralunato Pete Dayton, il nuovo personaggio della vicenda. In questo caso, oltre al consueto corredo analogico (da intendere come metafora di un collegamento mentale che illustra un cortocircuito psichico in atto), l’immagine della strada assume su di sé anche la funzione di ponte diegetico ideale tra le due differenti parti in cui si ritrova diviso il film, una connessione narrativa materiale che rappresenta un nuovo varco attraverso cui lo spettatore può iniziare una nuova fruizione filmica.
(Giampiero Frasca, On the road per meditare sulla vita umana, in David Lynch, “Garage”, Paravia, Torino 2000)