Antologia critica

Antologia critica

La congiunzione Anna Magnani-Totò dà il primo lustro a Risate di gioia di Mario Monicelli, da un copione di Age, Scarpelli e Suso Cecchi d’Amico che impasta due “racconti romani” di Moravia. Ma non c’è lotta: giacché, come vuole la vicenda, la prima è protagonista e il secondo una gustosa macchietta di rincalzo.
Qualcosa dell’ormai lontana caratteristica di Teresa Venerdì rivive in questa spennacchiata “Tortorella” interpretata oggi dalla Magnani: una “generica” di Cinecittà alla caccia ostinata d’una qualunque anche minima particina. Sappia o finga di non sapere di essere soltanto una guitta (e in questo margine patetico la nostra attrice ha lavorato da par suo), si dà arie di prima donna in mezzo ai suoi due compagni di cattiva sorte. Umberto, un vecchio relitto di avanspettacoli rionali, e il giovane Lello, volgare tagliaborse atteggiantesi a “ladro gentiluomo”.
[…] Regista e interprete hanno riempito il ritratto, che in qualche tono ricorda la “Cabiria” felliniana. Ma il film non è altrettanto convincente nel suo complesso, alternando pungenti schiettezze (tutte del regista dei Soliti ignoti) a troppo elaborati episodi (che sono di Monicelli e anche di altri registi, cultori del realismo magico). Sincera è certo la melanconia che intride la notte di questi “vinti”; una melanconia che per il divertimento dello spettatore ha spesso l’apparenza contraria, stride nelle trovatine d’un piacevole spettacolo.
Leo Pestelli
, Risate di gioia, “La Stampa”, 21 ottobre 1960


All’origine di questa commedia buffa dai risvolti tristi (ma come per L’appartamento, i risvolti contano e pesano più della facciata) c’è probabilmente, da parte di Mario Monicelli, un’idea sperimentale: portare Anna Magnani vicino al pubblico, al suo stesso livello. Anche se il discorso può apparire astratto, si può dire che il pubblico ammiri la Magnani senza amarla. È una diffidenza – quando non una ripulsa – che generalmente si esprime con una frase fatta: è troppo volgare. Può darsi, invece, che questa inconscia ripugnanza nasca da un sentimento di inferiorità: la sente diversa, al di sopra di se stesso (a causa della sua “natura”, della sua tragicità) e perciò non si identifica con lei. Quasi ne ha un po' paura. Monicelli si dev’essere detto: facciamola patetica, la Magnani, induciamo il pubblico a compassionarla, a soffrire con lei, a proteggerla. Così, ispirandosi a due racconti di Moravia, Monicelli e i suoi fidi Age e Scarpelli hanno tagliato su misura della maggiore e più originale attrice del nostro cinema il patetico e inedito personaggio di Tortorella inserendola in una delle più patetiche situazioni del nostro anno solare: la notte di San Silvestro.
[…] Anche se più di una volta dà nel facile e va sopra le righe, il racconto è ingegnoso; proseguendo e approfondendo la linea di I soliti ignoti, Monicelli dosa comicità e amarezza, crepuscolarismo e satira di costume con pregevoli risultati resistendo quasi sempre a far traboccare la convenzionalità di fondo della vicenda. Dobbiamo fare le lodi della Magnani? È bravissima. Totò non le sta indietro e, con la sua metallica “souplesse”, l’abruzzo-americano Ben Gazzara s’inserisce agevolmente tra i due.
Morando Morandini, Magnani patetica, “La notte”, 14-15 ottobre 1960




Mario Monicelli, di cui non abbiamo dimenticato I soliti ignoti, ci sembra uno dei migliori autori comici del nostro tempo. Il suo talento è basato su un senso sicuro della comicità ma anche su una particolare sensibilità: le sue gag non obbediscono mai ad una meccanica astratta ma ad una reazione umana; la sua è una comicità di situazione ma anche di carattere; il riso nasce meno dalle circostanze che dal comportamento degli individui. […]
Non siamo lontani da una visione del mondo felliniana, allo stesso tempo irresistibilmente buffa e profondamente patetica, dove i momenti di pathos sono immediatamente investiti da trovate umoristiche. Totò e la Magnani sono rimarchevoli.
Marcel Martin, Larmes de joie, “Cinéma 62”, n. 70, novembre 1962




La storia di una notte romana di avventura cui segue un’alba squallida è chiaramente ispirata a film come Il bidone e, soprattutto, La dolce vita. C’è l’americano ubriaco, ci sono le corse in macchina su e giù per la capitale, la festa esclusiva per i nobili stranieri e quelle più popolari in cui basta pagare per partecipare. La trovata di Monicelli è quella di promuovere a protagonisti due personaggi fuori dal loro tempo, che cercano di adattarsi al clima del benessere ma che restano legati a valori ormai superati. Il recital che improvvisano dinanzi alla folla schiamazzante del locale notturno (uno dei più belli mai realizzati da Totò, che ormai vecchio sembra volersi ricordare del suo passato nell’avanspettacolo) è una specie di atto di “diversità”: alle scemenze del presentatore e alla pochezza del varietà sanno opporre un numero di gran classe (che ovviamente annega nell’ansia di divertirsi degli astanti). Anche la sequenza finale – la sceneggiata della Magnani che si finge miracolata con Totò che fa da spalla – è qualcosa di più della sfortunata applicazione alla vita della scena che la Magnani stessa ha interpretato a Cinecittà all’inizio (satira dei mitologici di successo, con un regista un po’ Blasetti, un po’ Bragaglia, un po’ il regista dei fotoromanzi di Lo sceicco bianco): i due ricorrono a una tradizione popolare cui nessuno crede più. Notevole è pure la sequenza nella casa dei tedeschi, dove il comportamento degli intrusi è assai simile a quello che in un film di genere precede il plotone di esecuzione (come Totò non manca di sottolineare), per non dire della figura di Toni Ucci, ricalcata sul Sordi prima maniera.
Risate di gioia
è un mezzo fallimento commerciale. Ed è motivo di riflessione. La convinzione che il mercato abbia notevoli capacità di assorbimento – il 1961 è uno degli anni in cui si producono in Italia più film – cozza contro la persistente precarietà del sistema industriale, ma resiste e autorizza progetti che gli autori, ormai consci del proprio ruolo, concepiscono come affrancamento della creatività dal controllo di un apparato produttivo che riconoscono sempre meno adeguato a un cinema che cambia dentro una realtà che cambia.
Stefano Della Casa, Mario Monicelli, Il Castoro cinema, La Nuova Italia, Firenze 1986.




Ultimo dei sette film di Totò diretti da Monicelli. Il film è poco conosciuto e l'autore non ne parla quasi mai nelle sue interviste. Eppure è uno dei titoli migliori della sua filmografia come di quella di Totò. Totò qui si affranca dal burlesco e dalla farsa (dove non occorre ricordare come brillasse il suo talento) per penetrare in una commedia di costume della migliore tradizione. Vi troviamo un dosaggio specificamente italiano e quasi sublime fra l'ironia e la compassione – mai stucchevole – nei confronti dei personaggi. L'autore vi disegna un superbo ritratto di Totò nei suoi eterni connotati: morale d'acciaio trionfante su ogni smacco, galanteria e rispetto delle donne (perfettamente anacronistico), incapacità quasi fisiologica di arrabbiarsi, flemma e rassegnazione. Le scene in cui Totò e la Magnani rievocano la loro 'esperienza cinematografica' sono da antologia.
Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma, Laffont, Paris 1992




Proprio per effetto de La dolce vita, Monicelli poté finalmente esprimersi liberamente, mettendo in campo anche situazioni scabrose e dialoghi disinvolti, che solo pochi anni prima non sarebbero mai stati tollerati dalla censura. Nei confronti di Risate di gioia si lasciarono invece passare senza obiettare anche alcune scene relative alla sacralità della religione cattolica, come quella del furto in chiesa, i dialoghi espliciti tra Tortorella (Anna Magnani) e Lello (Ben Gazzara) nel senso di una sessualità extramatrimoniale esplicita e la presa in giro fino all’irrisione nei confronti del turista americano (Fred Clark), sciocco e ubriaco. Venne censurata solo una battuta di Anna Magnani che, riferendosi al gruppo degli amici inaffidabili, diceva in romanesco “Sono una manica di stronzi”, divenuta al doppiaggio “Sono una manica di fessi”, mentre l’unico giudizio negativo del Centro Cattolico si appuntò sulla scena finale del film, dove Lello ruba una collana dalla statua della Madonna, definita “Una urtante scena in chiesa” senza ulteriori richieste di soppressione.
L’atmosfera generale di Risate di gioia, fortemente radicata nel tessuto italiano e, ancora più chiaramente, romano, ci offre uno spaccato del mondo psicologico e sociale della Roma del 1960, unitamente ai personaggi che la rappresentano, quali le comparse di Cinecittà, i piccoli imbroglioni, i truffatori professionisti, la gente che ha voglia di vivere e di divertirsi, di “fare la dolce vita” e gli stranieri felici di stare a contatto con il mito della città eterna. […] La pellicola […] fornisce anche una garbata parodia della famosa scena della Fontana di Trevi de La dolce vita, con l’americano ubriaco che a tutti i costi vuole fare il bagno nudo nella fontana, mentre Lello è deciso a derubarlo, “Infortunio” a difenderlo dal ladro e Tortorella, ignara di tutto e illudendosi di essere corteggiata da Lello, resta in disparte e avverte poi il commissariato di zona. Precedentemente, nella scena in cui l’americano aveva gettato la moneta nella fontana di piazza dell’Esedra, la donna aveva commentato parlando da sola: “Questo l’ha visto al cinematografo... mannaggia il cinematografo”, indicando esplicitamente anche allo spettatore meno attento la fonte della parodia, che è talmente insistita da far quasi sospettare che Monicelli in filigrana abbia voluto costruire il film quasi come una obliqua parodia, una “dolce vita dei poveracci”, allo stesso modo in cui I soliti ignoti era stata una evidente parodia di rapinatori dilettanti e maldestri. In un’altra, fondamentale sequenza, quella del furto del portasigarette d’oro nella casa dei ricchi tedeschi, il regista cita vagamente una scena analoga de Il bidone, dove Franco Fabrizi ruba un portasigarette d’oro e viene poi ridicolizzato e offeso dal padrone di casa.
Accanto all’atmosfera di evidente sospensione della vita, dovuta al capodanno e alla spensieratezza di tutti, come appunto suggerisce il titolo del racconto moraviano e del film, Monicelli ci offre anche un’amara satira di costume, con il povero Mac Ronay conduttore della metropolitana che, essendo di turno, a due ore dalla mezzanotte è costretto a lasciare la famiglia. La moglie gli ha teneramente messo delle lenticchie in una gavetta di metallo e salutandolo quasi con le lacrime agli occhi per lo sconforto, gli dice: “Senza de te nun celebramo gnente...bevemo un goccetto de brodo caldo e tutti a letto. Celebramo domani, quando ce sei tu”, aggiungendo che loro già dormiranno quando lui “starà sottoterra”, intendendo sui binari della metropolitana, ma anche dando un cinico e macabro doppio significato all’espressione. Però, come è nei parametri classici della commedia all’italiana, appena il povero padre di famiglia si è chiuso la porta alle spalle, il regista – anticipando di trent’anni il suo amaro film Parenti serpenti – ci fa vedere la moglie e gli altri membri della famiglia, tutti euforici e festosi, che si scatenano tirando fuori dal forno l’arrosto e telefonando agli altri parenti perché portino il capitone e lo spumante.
[...] Monicelli offre un’occasione unica, presentando Totò e Anna Magnani che, dopo aver vinto la lotteria del veglione di San Silvestro, si esibiscono davanti a Gianni Bonagura in un pezzo straordinario in cui cantano insieme la canzone Geppina Gepi, con Totò più che mai clownesco, con in testa un microscopico cappellino di carta, che tira fuori la lingua e si muove saltellando intorno alla Magnani. La sequenza è eccezionale e godibile, anche se più che suscitare un effetto comico produce malinconia e tristezza. È una scena iperrealistica, perché i due personaggi dichiarano al presentatore che si esibiranno in un numero del loro vecchio repertorio. Ma quel numero appartiene veramente al repertorio rivistaiolo di Anna Magnani e Totò giovani, con un risultato stupefacente, che proietta l’ombra di una nostalgia e di una pena che avviluppa non solo le due figure nel film, ma i due attori nella vita.
Questo effetto di iperrealismo, dovuto alla reale sovrapposizione biografica sui personaggi fittizi, è accentuata dall’esibizione di alcune foto autentiche di Totò giovane che vediamo fissate a una parete della stanza in cui dorme “Infortunio”.
[…] La parte più bella del film e quella in cui la recitazione dell’attore appare più densa e partecipata è la sequenza finale, che ha molti punti in comune con quella di Yvonne la Nuit, con “Infortunio” che il giorno di ferragosto va ad aspettare Tortorella, che esce dal carcere dopo aver fatto otto mesi di galera per il furto di capodanno. In una Roma abbagliata da una luce accecante, la donna è ancora vestita per l’inverno, esattamente come il giorno in cui è stata arrestata, con un abito vistoso e una stola di volpe bianca piena di polvere. L’altro è vestito come si “abbigliava” da giovane, negli anni Dieci, con la paglietta e una giacca obsoleta, e ha in mano un assurdo ombrello, un regalo per lei».
Ennio Bìspuri, Totò attore, Gremese, Roma 2010


La riedizione di classici italiani un po' dimenticati diviene una consuetudine grazie al distributore Les Acacias: dopo In nome del popolo italiano di Dino Risi in gennaio, è la volta di Larmes de joie (Risate di gioia, 1960) di essere onorato da un'uscita nazionale. Realizzato fra due capolavori (I soliti ignoti e I compagni) da un Mario Monicelli all'apice della sua carriera, questo gioiello è la cronaca di una notte di San Silvestro che diventa un disastro per un trio di patetici perdenti […]. Il film comincia come un brano di una logora commedia dell'arte, dove tutti appaiono esagitati, ma questa energia un po' stridente si fonde rapidamente negli ingranaggi di una meccanica burlesca di una precisione assolutamente meravigliosa. Monicelli utilizza gli ambienti naturali di Roma come un teatro a cielo aperto dove si dispiegano grandi scene dalla dismisura sempre più accentuata. Piazze deserte, night-club affollati, ritorno alla sequenza della fontana di Trevi di La dolce vita con Totò e Magnani (il film di Fellini è uscito alcuni mesi prima), villa gotica popolata di aristocratici tedeschi e cantieri all'alba sorgono come le visioni disincarnate di un sogno cristallino in bianco e nero. Al di là del suo cast inverosimile (Magnani, Totò, Gazzara!) il film seduce nel suo avanzare in una vasta notte artificiale e nel divorare gli spazi urbani come tante scene oniriche. La deambulazione, il gioco sul vuoto o sulla sovrabbondanza (magnifica la sequenza in cui Totò e Ben Gazzara si ritrovano in una zona completamente distrutta dai fuochi d'artificio) caricano il film di una scintillante malinconia invernale. Questa sfavillante maratona notturna deve probabilmente molto al Fellini di La strada e al Visconti delle Notti bianche. Ma Monicelli è giustamente memore della migliore tradizione neorealista traendo da questi “vitelloni” una dimensione tragicomica di grande acume politico. La rottura finale, avviata dalla rivelazione dei sotterfugi di Lello (Gazzara), è un'esplosione melodrammatica che innesca la vena più impegnata dell'autore (che raggiungerà l'apice in I compagni): nessun giudizio sul personaggio pur miserabile di Lello, ma uno straripamento di affetti che sbocca sull'amara constatazione di un fallimento sociale. Uniti nella loro solitudine, i tre personaggi fanno corpo fino in fondo in una scena d'antologia dove rubano in una chiesa: questa energia profana interamente diretta verso il popolo (Magnani urla “Miracolo!” per tentare di far passare il furtarello per un intervento divino) è ciò che è più ammirevole in Risate di gioia.
Vincent Malausa, Monicelli dans la nuit blanche, “Cahiers du Cinéma”, n. 688, aprile 2013


“Miracolo! Miracolo! Miracolo!” urla l'anonimo figurante a Cinecittà, truccata da matrona romana e circondata da migliaia di altri figuranti mezzi nudi, agli ordini di un regista dal sorriso aristocratico e dai baffi sottili (somiglia a Vittorio Cottafavi mentre dirige uno dei suoi peplum). La donna si chiama Gioia Fabbricotti alias Tortorella ed è molto impaziente, come tutti, di concludere le riprese per precipitarsi a festeggiare. “Miracolo! Miracolo! Miracolo!” urla di nuovo nella chiesa, alla fine del suo pellegrinaggio notturno attraverso i luoghi santi del consumo di massa. Gioia ha imparato la lezione: bisogna fingere di avere tutto, di afferrare tutto, anche se non si ha nulla.
Mario Monicelli, ammiratore de La folla di King Vidor, si interessa alla pena del taglione che condanna questa piccola Gioia, babbea senza speranza, sorellastra della mamma “magnanesca” di Bellissima. Si concentra ancora di più sulla molto, fin troppo ingombrante folla che galoppa intorno a lei a rischio di schiacciarla ad ogni momento. Il benessere collettivo, la felicità generale si diffondono attraverso delle coreografie al tempo stesso caotiche e armoniose. Migliaia di corpi e di volti, seguiti o preceduti dall'inesauribile gru e dall'implacabile obiettivo “panfocale” di Leonida Barboni. Paradosso: era stata la stessa Anna Magnani a pretendere questo capo operatore, preoccupata di valorizzare la propria bellezza, felice del suo eccellente lavoro di ringiovanimento compiuto in Nella città l'inferno (Renato Castellani, 1958).
“Mannaggia al cinematografo!”, urla la falsa bionda Gioia/Magnani sul bordo della fontana di Trevi, cercando di impedire al turista americano ubriaco di bagnarsi come la vera bionda Anita Ekberg in La dolce vita. Il film di Fellini era uscito il 5 febbraio 1960, le riprese di Risate di gioia cominciarono il 3 maggio. Gli straordinari ambienti romani e gli innumerevoli costumi originali, per i due film, vengono scelti e concepiti da Piero Gherardi, un talento visionario.
Un altro legame fra queste due odissee girate night for night per dei mesi, lo spilungone delle strade della capitale: il ben noto giornalista inglese John Francis Lane, che recita nella scena della conferenza-stampa di La dolce vita e che rivediamo qui, domestico esilarante e arcigno, alla festa dei ricchi tedeschi. Risate di gioia originariamente era stato scritto da Suso Cecchi d'Amico per Luigi Comencini. In questo lussureggiante inizio degli anni sessanta, Monicelli rifiuta di girare per Dino De Laurentiis una sorta di seguito al loro acclamato La Grande Guerra (Leone d'oro a Venezia, 1959). Comencini accetterà questo stesso progetto del potente produttore napoletano ma riesce a trasformarlo nel racconto di un episodio chiave della Seconda guerra mondiale, Tutti a casa (coscritto da Age e Scarpelli, come i film di Monicelli dell'epoca) e la sua epopea uscirà con successo nel novembre 1960, meno di un mese dopo il modesto successo di Risate di gioia.
Nel 1960 l'opera letteraria di Alberto Moravia è allo zenith della sua popolarità. Dopo una mezza dozzina di adattamenti sullo schermo, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini vi si ispirano per La ciociara, girato nell'estate del 1960. D'Amico e i suoi colleghi sceneggiatori derivano Risate di gioia dai racconti Ladri in chiesa e Lacrime di gioia, pubblicati nella raccolta Racconti romani, 1954, e Nuovi racconti romani, 1959 (e non del solo primo tomo come indicano i crediti). I personaggi di sfollati e borsari neri indicano che questi racconti si svolgono poco dopo la guerra. La Gioia moraviana è una “formosa modella” che trascorre la notte del capodanno correndo in un taxi che non ha i soldi per pagare. Nell'altro racconto, una donna salva suo marito, ladro di gioielli in una chiesa, dichiarando agli sbirri che è la Madonna stessa ad avergliene fatto dono. Ecco qualche frammento delle idee che Monicelli dilata e attualizza, lasciando i suoi morti di fame divorarsi l'un l'altro, esattamente come accadeva prima del trionfo dell'industrializzazione.
Magnani rappresenta, ai suoi occhi, i resistenti della Città Aperta in lotta contro i nazisti: la bianca pelliccia di Gioia è bombardata dai petardi tedeschi all'inizio della sequenza satirica del party dei nababbi crucchi. E Gioia è umiliata dall'Americano (Fred Clark), simbolo dell'ancora bruciante vittoria alleata, come una puttana da buttare nella sua bagnarola da miliardario. […]
Facendoli recitare insieme, come ai bei vecchi tempi del varietà sotto le bombe, il regista otteneva un altro meraviglioso effetto di décalage. Un duo esaltato dall'insolente jazzman Lelio Luttazzi e dal suo refrain nostalgico Geppina Geppi. Totò è il Totò dei Soliti ignoti, o delle prime farse monicelliane, un comico dal passato glorioso (vedi le foto al di sopra del suo letto), che adesso si arrangia per sopravvivere grazie alle sue performance in truffe. Le sue pagliacciate fisiche, dove usa lingua e braccia, il suo ridicolo frac da pinguino, i suoi brillanti giochi di parole nonsense (…), la sua voracità frustrata di spaghetti si contrappongono allo stile della Magnani, pomposo, quasi virile, con la sua “risata crudele e aggressiva” (ricordo di Moravia pubblicato al momento della scomparsa dell'attrice). Totò e la Magnani presto entreranno, ognuno separatamente, nel loro periodo pasoliniano che nobiliterà, concettualizzerà le loro dramatis personae.
Ultima sfida di Monicelli alla diva, fresca dei successi hollywoodiani: farla schiattare di voracità repressa d'eros, ad ogni scena di seduzione maschile, davanti ai meccanismi, oh quanto Actors Studio! dell'intellettuale Ben Gazzara.
Lorenzo Codelli, La foule solitaire, “Positif”, n. 626, aprile 2013