Diverse sfumature di nero

Diverse sfumature di nero

Muhammad Ali è diventato un vero e proprio mito del nostro secolo. A sedici anni già ai vertici della boxe, medaglia d’oro nel ‘60 alle olimpiadi di Roma, nel ‘64 la sua conversione alla religione islamica con il cambiamento del nome da Cassius Clay al più orientale (and religiously-correct) Muhammad Ali, e con tutte le implicazioni contestatarie che quel gesto avrebbe provocato (gesto singolarmente premonitore se pensiamo che mancavano ancora quattro anni al ‘68). E poi la lunga e dibattuta presa di posizione contro la guerra in Vietnam e la renitenza alla leva non lo resero certamente simpatico al mondo wasp americano, ma lo avvicinarono sempre più alle simpatie dei neri americani e africani, che d’allora trovarono in lui una sorta di profeta-salvatore in cui credere e sperare. Fino alle più recenti vicende, quando ci siamo commossi vedendo durante la cerimonia di apertura delle olimpiadi di Atlanta del ‘96, la città nera e del Sud per eccellenza, […] questo mito nero americano, irriconoscibilmente minato dal morbo di Parkinson, causato forse dai numerosi colpi ricevuti nel corso della carriera, che come un antico tedoforo consacrava 1’immane manifestazione sportiva.
Tutto questo nel film di Gast è riassunto e narrato nell’attesa snervante prima, e nella concitata esibizione dell’incontro di pugilato poi, incorniciato in un telaio che ha tutte le caratteristiche di un’immagine speculare, un dittico riccamente decorato e musicato in cui però stridono le figurazioni prodotte. […] Assistiamo così all’incontro e allo scontro di un mondo afro-americano in perenne conflitto, incarnato da un lato dall’eroe nero, negativo, che ha perso qualsiasi legame con la sua terra e col suo popolo, e dall’altro un eroe positivo che, invece, fa di quel suo legame col passato il proprio vessillo, il credo della propria esistenza al servizio dei più deboli.

Massimiliano Forconi, “Film. Tutti i film della stagione”, n. 27, maggio-giugno 1997


È come se, grazie ad Ali, si imponesse man mano e diventasse sempre più evidente l’enorme valore simbolico dell’incontro, disputato tra due giganti neri in Africa, nella culla dell’umanità. Volente o nolente, Foreman viene ad assumere il ruolo del nero integrato nella società dei bianchi, mentre Ali diventa una bandiera, l’idolo dei diseredati africani, di tutti coloro che non potranno neppure permettersi di assistere all’incontro (altroché in tv), ma sostengono il campione ribelle, colui che tenta di restituire coraggio e dignità a uomini troppo a lungo umiliati. Dovunque vada, comunque si muova, in albergo, durante gli allenamenti, mentre fa footing per le strade di Kinshasa, Alì è costantemente circondato da una folla di zairesi, soprattutto ragazzini (ma non solo, ci sono giovani, adulti, donne con le ceste in bilico sulla testa ecc.), che lo incitano in coro al grido apparentemente feroce, in realtà affettuoso, di “Ali boma yé” (Ali, uccidilo!).

Alessandro Cappabianca, Boxare con l'ombra. Cinema e pugilato, Le Mani, Genova 2004


Foreman, se aveva forza e potenza devastanti, nascondeva anche una fragilità emotiva che Muhammad Ali aveva intuito e avrebbe sfruttato. George, texano di Marshall, era il tipico ragazzo nero americano che, nell’età dell’adolescenza, aveva trovato un po’ di benessere grazie alla potenza dei suoi cazzotti. Amava il baseball, la Coca Cola, il pop-corn e la televisione. Quando fu scaraventato in Zaire per un match che aveva mille motivazioni commerciali, geopolitiche, etniche, non si sentì a suo agio. Non gliene fregava nulla di quello che c’era intorno. Il rinvio di un mese del match, per un suo incidente in allenamento, aumentò il disagio. Muhammad Ali, invece, aveva trasformato la vigilia nel trionfo dei suoi ideali, scoperti prima con Malcolm X e poi con i Black Muslims. Si sentiva a suo agio davanti al fiume Congo, il fiume della tradizione nelle ballate degli ex schiavi d’America, e trasformò questa allegria in una guerra psicologica. Il giorno delle operazioni di peso le sue provocazioni rischiarono di anticipare lo scontro. Foreman fu trattenuto, ma la rabbia lo aveva già sconfitto. “Gli incontri importanti si vincono prima di salire sul ring”, mi aveva spiegato tante volte Clay-Ali.

Gianni Minà, “La Repubblica”, 7 novembre 1994


Il film mostra in modo convincente come l'ambientazione africana costituisse un palcoscenico appropriato non solo per le superbe abilità di pugilato di Ali, ma anche per le sue opinioni esplicite sulla comunità nera in America. Lo slogan “"from the slaveship to the championship" ("dalla schiavitù al campionato”, che il governo dello Zaire in seguito ritrattò) rafforzò la risonanza storica della schiavitù (durante la quale gli schiavi praticavano la boxe a mani nude come intrattenimento per i loro padroni), e così fecero anche le dichiarazioni di Ali e Don King. Dalle appassionate parole di Ali sulla bellezza di un equipaggio aereo interamente nero alla voce di James Brown che urla “Io sono qualcuno”, il sapiente montaggio del film mette in relazione le posizioni di Ali con un’ondata più ampia di orgoglio afroamericano che stava allora trasformando il paese. Il concerto di accompagnamento può essere stato un fallimento in termini di organizzazione e partecipazione, ma le riprese di Brown, B.B. King e Miriam Makeba e quelle del combattimento e dell’hype pre-combattimento sono abilmente giustapposte per ottenere il massimo effetto associativo.

Susan Ryan, “Cineaste”, vol. 22, gennaio 1997


Si parla spesso di match del secolo. Meglio sarebbe parlare di combattimento storico, il cui significato va molto al di là della boxe. Una sfida divenuta simbolo di un’epoca. Ma ci sarebbe stato tempo anche per un ultimo incontro, tra i due pugili, stavolta pacificatore. Durante la notte degli Oscar del 1996, nel momento in cui Quando eravamo re vinse la statuetta per il miglior documentario, Ali, già vittima del morbo Parkinson, venne accompagnato su quel palco proprio da George Foreman, che in quel modo sancì per sempre la loro amicizia. Fu un momento assai toccante, che fece poi il paio con quello dello stesso anno ad Atlanta, quando durante la serata di inaugurazione dei Giochi, fu proprio Muhammad Ali a portare la torcia olimpica, mentre un intero stadio si commuoveva. Fu forse il miglior finale per un campione inarrivabile come Ali.

Francesco Gallo, Il cinema racconta la boxe: gli eroi del ring sul grande schermo, Ultra, Roma 2016