Antologia critica

Antologia critica

Una delle impressioni che questo show ‘all’americana’ lascia retrospettivamente è che sembra di assistere all’ultima superproduzione hollywoodiana, delocalizzata per motivi finanziari. C’è tutto: lo spettacolo, migliaia di figuranti, i due attori designati per il ruolo di protagonisti. Inutile dire che Muhammad Ali si ritaglia la parte del leone, tanto che il film – in apparenza una cronaca in presa diretta di questo combattimento leggendario – è soprattutto un biopic, un ‘agiopic’, tanto che il suo stesso personaggio fa sembrare questo documentario un film di finzione. Figura scorsesiana, Ali è un fenomeno che il film restituisce agiograficamente nella pienezza del suo corpo e della sua arte.
Cosciente di essere scultoreo e fotogenico, cosciente del suo potere erotico da star, un po’ giocoliere da fiera dall’ispirata logorrea, un po’ telepredicatore che ripete ossessivamente il suo credo (“Nero è bello”), Ali appare come uno Spartaco nero sul punto di spezzare le catene dei suoi fratelli, un novello Mosè che apre le acque al suo popolo, capace da solo di compiere il miracolo di riunire i due bracci del fiume della negritudine, quello afro-americano e quello del continente nero. […]
L’incontro, sportivo all’origine, assume quindi la connotazione della riunione di una gigantesca famiglia separata dalla Storia dei Bianchi, d’una diaspora che può ricomporsi in nome di una riconquistata fierezza sotto l’egida di un semidio consacrato re prima ancora di aver vinto l’incontro. Muhammad Ali fa risaltare i limiti del ring, o al contrario estende il quadrato alle dimensioni del mondo. Cinegenia di un corpo, di uno sport, di un popolo messa in moto da un uomo a passo di danza col suo leggendario gioco di gambe.
La forza di Quando eravamo re deriva dal suo attore-regista. È lui a manipolare le folle come un Griffith o un DeMille, e che da queste folle trae nutrimento, uscendo galvanizzato e rafforzato dall’eco moltiplicato della sua stessa voce. Da qui l’impressione che al documentarista basti seguirlo per conferire al suo film, quasi per contagio, il giusto ritmo. […]
Ali spazza via tutto e tutti al suo passaggio e ‘controlla’ i minimi dettagli della sua ‘consacrazione’. E controlla prima di tutto se stesso. E la sua paura, che doma a un punto tale che ci si domanda se ne abbia mai avuta. Ali, o ‘l’uomo che ha sconfitto la paura’. Controllo del match, anche, che ha premeditato come un crimine o una perfetta messa in scena: egli reinventa sotto i nostri occhi lo spazio del ring e ripropone l’adagio bressoniano se sostituiamo “cinematografo” con “boxe” e “film” con “combattimento”: “Il cinematografo, arte militare. Si prepara un film come una battaglia”. Ali al fianco di Bresson, Ford o Ozu, ecco un’inattesa appendice della politique des auteurs!

Bernard Bénoliel, Ainsi parlait Mohammed Ali, “Cahiers du cinéma”, n. 513, maggio 1997


Vedere il film oggi suscita emozioni intense; mettiamo a confronto il giovane Ali con la sua figura ormai malata e avanti con l’età, e ci viene da pensare che questo combattimento debba aver contribuito ai problemi che l’hanno rallentato. È anche affascinante contrapporre il giovane Foreman con la sua figura di oggi, molto amata; anche lui è cresciuto e si è ammorbidito. Quando il film venne girato tutti questi sviluppi dovevano ancora verificarsi; c’è una tensione palpabile quando i due salgono sul ring, e il fatto di conoscere già il risultato non ne attenua l’intensità.

Roger Ebert, “Chicago Sun-Times”, 27 febbraio 1997


Ali ha vinto quell’incontro prima di salire sul ring; le sue parole, il suo avere conquistato l'Africa, I suoi atteggiamenti spavaldi e populisti, hanno creato un clima a lui psicologicamente favorevole. Gast ha semplicemente seguito il suo protagonista che è stato in grado, oggi, a più di vent’anni di distanza, di condizionare profondamente la struttura del documentario dedicato a quelle settimane nello Zaire. Ali è il vero regista del film: riesce a dominare e guidare i movimenti e le reazioni della folla, riesce sempre a conquistare il centro dì ogni inquadratura, a deciderne angolazioni e profondità fino, a un tratto, a impossessarsi materialmente della cinepresa e a gestire in prima persona le riprese.

Franco Marineo, “Bianco e nero”, n.4, 1997


Quando eravamo re è cinema sulle esitazioni del tempo. È un film che ha richiesto ventidue anni di lavorazione e che parla di uno scontro tra un gigante ed un uomo che lo affronta in cima alla montagna da cui è caduto tre anni prima. È un film sulla vittoria di chi ha capito il valore del (suo) tempo e del saper attendere. Senza quell'attesa di sei settimane (un altro arco di tempo spaventosamente grande) forse le cose sarebbero andate diversamente. È un distillato di memoria che proviene […] dall'incolmabile distanza che separa quello che il mondo era, ventitré anni or sono, da ciò che ne è rimasto oggi.
È cinema che si consegna allo sguardo nell'apparente lucidità della dimensione documentaristica e riesce ad affondare nel cuore come solo la finzione sa fare. In questo è cinema che vive sullo scarto del tempo, della percezione, dell'attesa. Cinema latente, che affiora dalla pellicola in quindici lunghi anni di sviluppo fotografico differito, e illumina ancora: e questo riesce solo alla mitologia, in Quando eravamo re si respira tutta l'imponenza del tempo che passa: la velocità degli anni e l'eternità delle frazioni di secondo. È una storia che dura un quarto di secolo e si conclude con un battito di ciglia: “Voi avete sbattuto le palpebre, tutti assieme, proprio mentre io portavo il colpo. Ecco perchè non siete riusciti a vederlo”.
C'è anche la storia, fulminea e sorprendente, di come siamo cambiati noi e di quanto ci manchino gli eroi e le loro imprese. […] Infine c’è la storia del cinema e del fare cinema. Quella che traspare fra i fotogrammi, che trasuda dagli anni che Leon Gast ha impiegato per fare ordine nel materiale girato, per reperire i fondi per svilupparlo e montarlo, per girare (assistito da Taylor Hackford) le interviste di supporto.
La straordinaria forza di Quando eravamo re sta proprio in questa messa in scena al quadrato, in questa epica dell'epica, in questo inseguimento tra lo sforzo attonito e terribile del gesto atletico definitivo e la difficoltà nel catturarlo e strapparlo alla memoria per restituirlo alla storia. Forse è proprio un'esigenza del cinema contemporaneo quella di ‘farsi’ documento (o di attingere dalla realtà più diretta o più apparente) perché le immagini che traggono il loro statuto dalla finzione lampante faticano sempre di più a meritare l'onore del ricordo. [...]
Pensate a Quando eravamo re, a un uomo alle corde che guarda il cielo piegato sulla schiena, al suo sguardo abissale (e irriproducibile: come la verità più vera) di fronte al terrore di non essere abbastanza grande per sopravvivere nella memoria degli uomini. Questo è davvero il Cinema moderno. Cinema che danza e colpisce.

Giuseppe Ascione, “Segnocinema”, n.86, 1997.


In realtà è due film in uno: è la descrizione seria e talvolta inquietante di uno scontro di culture e di moventi di varia natura ed è anche un film originale e pittoresco su una magnifica avventura africana. In fin dei conti, un film che ritragga Ali con la sua inarrestabile parlantina giovanile non può non mancare del tutto di elementi comici, e quello che piace di Quando eravamo re è in parte il modo in cui evoca il ruolo buffonesco e impertinente che Ali sceglieva di interpretare anche quando era impegnato in qualcosa di pericoloso come un match contro George Foreman. Soprattutto in quel caso.

Kelefa Sanneh, When We Were Kings: Ready to Fight, “The Criterion Collection”, 22 ottobre 2019


Il film è attraversato da un’ondata inarrestabile di grande musica africana e afroamericana, con straordinarie performance di artisti come James Brown, Miriam Makeba, B.B King e i Fugees. La loro energia prorompente si abbina perfettamente con quella delle bellissime interviste di Ali e con la breve ma appassionante analisi del combattimento stesso. Stranamente, però, emerge una distinta sensazione di malinconia da questa musica esuberante e dal brillante reportage di un evento così gioioso ed entusiasmante girato da Gast. Oggi conosciamo il triste destino di Ali; sentiamo l’amarezza e il nichilismo nella musica rap; vediamo non un progresso ma un arretramento nella società centrafricana. Eppure, come suggerisce il titolo, anche solo conoscere la gloria del passato alimenta le speranze per il presente.

Russel Smith, “Austin Chronicle”, 28 marzo 1997