Una visita al Bates Motel: spazi, geometrie, specchi

Una visita al Bates Motel: spazi, geometrie, specchi

Con l’aiuto della televisione, l’omicidio andrebbe portato nelle case, perché il suo posto è lì. Alcuni dei nostri omicidi più deliziosi sono stati domestici: perpetrati con tenerezza in posti semplici e accoglienti come il tavolo della cucina o la vasca da bagno. Niente ripugna di più il mio senso del decoro di un teppista di strada che è in grado di assassinare chiunque, perfino persone che non gli sono nemmeno state presentate. Dopotutto, sono sicuro che sarete d’accordo con me, l’omicidio può essere molto più affascinante e piacevole, anche per la vittima, se l’ambiente è confortevole e le persone coinvolte sono dame e gentiluomini come voi qui presenti.
Alfred Hitchcock


Prima di Psycho non era mai accaduto, forse, che un film si identificasse a tal punto con i suoi luoghi. Psycho è il Bates Motel, e il Bates Motel è Psycho. Hitchcock aveva la cattiva abitudine di sminuire i meriti dei collaboratori e i debiti verso le fonti, e per magnificare la sua immagine di demiurgo era pronto a qualunque millanteria. Pur di alimentare la leggenda che nei suoi film nulla fosse lasciato all’improvvisazione, a riprese concluse arrivò a farsi disegnare falsi storyboard preparatori di Intrigo internazionale. Per Psycho, pagò Bloch una miseria – neppure diecimila dollari – e confidò a Truffaut, con sufficienza, che del romanzo lo aveva interessato solo la scena della doccia. Nulla di più falso: Psycho è fedele alla fonte letteraria come nessun altro film di Hitchcock; e nulla di più vero: solo grazie alla creazione di quella cupa e sognante maison-musée, un romanzo dell’orrore dai vaghi tratti esoterici e freudiani poté trasfigurarsi in un grande film metafisico e misterico.
Guido Vitiello, Una visita al Bates Motel, Adelphi, Milano 2019


Le squadre di operai dello studio passarono settimane a erigere le facciate della casa e del motel – la prima simile a un dito scheletrico puntato verso il cielo, il secondo sviluppato in senso orizzontale – su una collinetta dietro Laramie Street, chiamata così per aver ospitato una serie western allora trasmessa dalla Nbc.
Per uno studio modesto, costruzioni di questo genere sapevano di grande occasione. Una valida ispirazione per casa Bates potrebbe essere stata la villa allegra e inquietante della famiglia Addams, resa familiare dalle celebri vignette di Chas Addams pubblicate sul “New Yorker”. Un’influenza più diretta era certamente la tela House by the Railroad di Edward Hopper, il melanconico ritratto di una casa con mansarda esposto nella collezione del Museum of Modern Art di New York. I disegni degli scenografi Hurley e Clatworthy per Hitchcock ricordavano molto la creazione di Hopper, dalla soffitta, con tetto slanciato e finestra rotonda, fino ai cornicioni e alle colonne. Ci si aspetta quasi di vedere la signora Bates affacciarsi alla finestra del ripido abbaino che Hopper dipinse nel 1925.
Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Il Castoro, Milano 1999


Psycho è un film rurale o pastorale, una cosa rarissima nell’opera di Hitchcock. L’ultima parte del film è ambientata in una cittadina di campagna chiamata Fairvale; il nome è scelto con cura, e l’ironia ha tutto il tempo di insediarsi nelle nostre teste. Fairvale è uno di quei posti che il cinema americano aveva costantemente idealizzato a dispetto del fatto che ormai non ci abitasse più nessuno. È il mondo di alcuni film di Frank Capra, di molte commedie e film romantici. È la ‘casa’ che nel Mago di Oz si chiama Kansas. È la Santa Rosa, in California, dove Hitchcock aveva ambientato L’ombra del dubbio, immaginando una comunità chiusa (se non claustrofobica), molto pettegola, che a malapena riesce a contenere la propria isteria. (Lo stesso clima che si percepisce nel diner degli Uccelli, ambientato a Bodega Bay.)
In Psycho, la comunità è soltanto abbozzata ma con estrema maestria: nelle figure dello sceriffo e sua moglie, nel tetro negozio di ferramenta e nella messa della domenica mattina. Scritturare John McIntire per il ruolo dello sceriffo fu un modo per dire: “Sicuramente conoscete questo posto e queste persone: potete fidarvi”. Lo sceriffo e Norman si danno del tu. Lo sceriffo sa che può chiamare Norman al telefono. Crede a quello che gli dice. Ma lo sceriffo non sa niente del mondo privato di Norman Bates, e non ha la più pallida idea di che tipo di vita conduce da anni. […] L’idea di comunità è vuota. Ecco perché gli interni di casa Bates con le sue sepolcrali camere da letto sembrano così fuori dal mondo. Ciò che rende Norman così eloquente in quella chiacchierata notturna con Marion è l’intuizione che forse non avrà mai più occasione di parlare con naturalezza a qualcuno. È questo il senso del film: non solo che nelle case sulle strade di campagna si annidano dei pazzi, ma anche che la solitudine può portare alla follia.
David Thompson, Psycho. Come Hitchcock insegnò all’America ad amare l’omicidio, minimum fax, Roma 2020


F.T.: C’è in Psycho tutto un armamentario di terrore che di solito evita, un aspetto fantomatico, un’atmosfera misteriosa, la vecchia casa...
A.H.: Credo che l’atmosfera misteriosa sia in una certa misura accidentale; per esempio, nella California del Nord, troverà molte case isolate che assomigliano a quella di Psycho; sono fatte con uno stile che si chiama ‘gotico californiano’: e quando è decisamente brutto si dice anche: ‘pan pepato californiano’. Non avevo iniziato il lavoro con l’intenzione di ottenere l’atmosfera di un vecchio film dell’orrore Universal, volevo soltanto essere autentico. Ora, in questo non c’è alcun dubbio, la casa è una riproduzione autentica di una casa reale e il motel è anch’esso una copia esatta. Ho scelto questa casa e questo motel perché mi sono reso conto che la storia non avrebbe avuto lo stesso effetto con un bungalow qualsiasi; questo genere di architettura era adatto alla sua atmosfera.
F.T.: E poi, questa architettura è piacevole a vedersi, la casa è verticale mentre il motel è completamente orizzontale.
A.H.: Certo, ecco la nostra composizione... Sì, un blocco verticale e un blocco orizzontale.
François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2008


[Lo scenografo] Robert Clatworthy ricorda che Hitchcock era molto più attento ai dettagli strani e inquietanti dell’arredamento – come la scultura kitsch delle mani in preghiera che si può notare in camera di Mamma – che agli ambienti in se stessi. Di fondamentale importanza per Hitchcock erano anche i set del salottino di Norman dietro l’ufficio del motel, il bagno e la stanza di Mamma. Nella sceneggiatura Stefano descrive il salotto in questi termini: “È una stanza di uccelli... Gli uccelli sono di molte varietà, meravigliosi, superbi, orribili, predatori”. Altrettanto rivelatrice è la descrizione del bagno del motel, che fa da sfondo al momento più orripilante del film: Hitchcock disdegnava il cliché di ambientare sequenze di tensione nella solita casa stregata e oscura, così Stefano scrive: “Il chiarore bianco... è quasi accecante”. Clatworthy ricorda anche che Hitchcock raccomandò al decoratore George Milo di far sì che tutti gli impianti del bagno scintillassero. Hitchcock disse anche a Milo: “Mettiamoci un sacco di specchi, vecchio mio”.
Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Il Castoro, Milano 1999


L’elemento gotico più significativo, quello che Hitchcock prediligeva da sempre e che finalmente poteva sintetizzare all’interno del genere appropriato, era lo specchio. Dal famoso film Lo studente di Praga, che lo aveva tanto impressionato in gioventù, aveva per la prima volta capito l’enorme potere emotivo che lo specchio aveva nel far confluire la schizofrenia nella narrazione drammatica; aveva seguito il suo utilizzo sempre più sofisticato in Der Andere, Il gabinetto del dottor Caligari, I misteri di un’anima, M, il mostro di Düsseldorf, e L’ultima risata. Durante la preparazione di La donna che visse due volte, Hitchcock aveva detto allo scenografo Henry Bumstead di usare gli specchi ogni volta che si poteva, e diede lo stesso ordine alla troupe di Psycho, un film in cui gli specchi sono infiniti: nell’hotel; in ufficio, dove Janet Leigh si guarda in uno specchietto portatile; a casa sua; nella sua macchina; nel gabinetto di una rivendita di auto usate; al bancone del motel e nelle camere; e, cosa molto significativa, nella camera della ‘madre’ del killer, dove il significato del doppio specchio diventa chiaro.
Lo specchio non è solo, come nelle rappresentazioni gotiche, un oggetto utile per suggerire una personalità divisa, segna anche la necessità dell’introspezione, come sapeva bene Hitchcock fin dalle prime letture di La signora di Shalott di Tennyson, Empedocles di Matthew Arnold, Adam Bede di George Eliot e Il nostro comune amico di Dickens. [...]
In Psycho lo specchio, come simbolo della personalità frammentata, è completato dalle immagini di ‘taglio’: nei titoli di Saul Bass, in cui i nomi vengono tagliati e divisi; in ciò che Hitchcock chiamava la geometria gotica fondamentale del film – le linee orizzontali e verticali che tagliano in due lo spazio (un motivo in parte ottenuto con una gru che taglia l’orizzonte di Phoenix, con i letti e le testiere dell’albergo, da John Gavin in piedi e la Leigh supina e, soprattutto, dal motel che si allunga in orizzontale e la casa che incombe in posizione verticale) e in altre suggestioni di taglio – un palo del telefono che ‘taglia’ la macchina parcheggiata della Leigh; falci e rastrelli sospesi sulle teste in un negozio di utensileria e il coltello alzato in mano al killer. Le immagini di taglio creano una costruzione visiva tale per cui il conflitto nello spettatore amplifica quello dei personaggi – cosa che poteva essere realizzata senza sforzo e con naturalezza solo da un genio visivo, intimamente abituato al conflitto stesso.
La costruzione attenta delle immagini e della geometria visiva di Hitchcock faceva di più che fornire un simbolismo collettivo per la personalità divisa. La sua manipolazione continua dell’identificazione del pubblico con i personaggi dà alla struttura di Psycho una funzione morale: rivelare la divisione dei desideri dello spettatore, una divisione che è manifesta nel contrasto fra il disgusto e la curiosità che è l’essenza dell’opera.
Donald Spoto, Il lato oscuro del genio. La vita di Alfred Hitchcok, Lindau, Torino 1999