Mammina cara

Mammina cara

Per trovare il prototipo della madre hitchcockiana perfida e raccapricciante occorre risalire alla tetra Mrs. Whittaker di Fragile virtù (Easy Virtue, 1927), capace di rendere impossibile la vita alla bionda nuora e di influenzare il figlio fino a spingerlo alla separazione. […] Questo modello viene ripreso con particolare efficacia in Notorious – L’amante perduta (Notorious, 1946): in Italia il Centro Cattolico Cinematografico ne raccomanda la visione ai soli adulti anche perché vi si manifesta una chiara “svalutazione del matrimonio, usato qui come tranello”; ma nello stigmatizzare il mercimonio di Alicia con Alexander non si accorge dell’altra donna di casa, e cioè di quanto più inquietante sia mamma Sebastian e di quanto equivoco possa essere il suo rapporto con il figlio […]. In Delitto per delitto (Strangers on a Train, 1951) vi è una sottile malizia nel collegare il culmine della perfidia di Miriam, la moglie dalla quale Guy si è separato, al fatto che sia incinta […]. La famiglia Anthony è poi completa di un padre tanto severo da voler internare il figlio Bruno (non è chiaro se per via della sua ambiguità sessuale o della sua psicopatia) e di una madre all’opposto tanto infantile da essere incapace di vedere gli effetti della sua educazione sul figlio […]. A partire da La donna che visse due volte ha inizio una tematizzazione della figura della madre inedita per proporzioni e sistematicità. L’opposizione tra madri di mezza età (o più) e giovani bionde fatali, l’inefficacia del matrimonio e l’impossibilità di liberarsi della famiglia d’origine per costituirne una nuova sono assilli ormai inscindibili. […] In Intrigo internazionale Roger dipende dalla madre, che lo aspetta ancora a casa per cena, lo umilia in pubblico e causa (sia pur involontariamente) le sue peripezie. […] In Psycho il protagonista che non supera l’Edipo, in seguito al trauma della scena primaria, cade nella psicosi, ovvero in uno stato patologico nel quale perde il contatto con la realtà e costruisce una dimensione alternativa più rassicurante, nella quale rimuove la morte della madre. Gli uccelli (The Birds, 1963) inscena una situazione analoga a quella di Intrigo internazionale, nella quale un giovanotto ancora legato alla madre (con cui vive, insieme a una sorellina che pare piuttosto la figlia dei due) concede a una ragazza bionda di entrare nella sua vita, oltre che nella casa della madre, della quale scatena la rivalità, metaforizzata nientemeno che da una rivolta della natura (il collegamento è dichiarato allo spettatore attraverso la crisi isterica di una madre che accusa Melanie tramite un aggressivo sguardo in macchina). […] L’eroina eponima di Marnie (1964) non ha invece superato la sua scena primaria, nonché l’identificazione della madre con una prostituta, e ha passato il resto della sua vita a mendicarne con risentimento l’affetto, rimuovendo il ricordo del trauma dalla sua mente e la sessualità dalla sua vita. […] Complotto di famiglia (Family Plot, 1976) offre un’ultima conferma di tutti questi leitmotiv, basandoli sull’assunto che le sciagure e le trame criminose originino sempre dalla famiglia (come indica il titolo stesso), della quale non ci si libera nemmeno quando i suoi membri muoiono (o fingono di morire) e le madri si pentono.
Mauro Gori, Alfred Hitchcock. Psycho, Lindau, Torino 2009


Hitchcock avrebbe utilizzato un piccolo esercito senza volto per catturare i vari umori di Mamma: Margo Epper, una stunt ventiquattrenne, fu utilizzata per le inquadrature in cui si avvicina alla tenda della doccia con il coltello alzato, e Ann Dorè girò le scene che richiedevano contatto fisico con la vittima terrorizzata; per le inquadrature dall’alto in cui Mamma irrompe fuori dalla stanza per pugnalare il detective Arbogast e per quelle in cui viene portata giù dalle scale da Norman, Hitchcock si servì di una nana che lavorava come stunt e controfigura sotto il nome di Mitzi; Paul Jasmin, oggi fotografo di moda e pittore di successo (le sue opere sono state acquistate da star come Barbra Streisand e Robert Stack) funse da voce di scena per il personaggio, mentre alla caratterista Virginia Gregg fu affidata la voce fuori campo. Come puntualizzava Tony Perkins, “Tutti ne ebbero un pezzetto. Lui [Jasmin] ha una battuta. Virginia sicuramente ne ha parecchie. Penso che anche un’altra attrice ne abbia un paio”. La terza “voce” appartiene in effetti a Jeanette Nolan, attrice veterana e già premiata con l’Emmy.
Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Il Castoro, Milano 1999


Propp, scrivendo a proposito dei racconti di fate, parla di un esempio di intreccio ibrido e di storie ibride, la storia di Edipo. Da questa Propp trae gli elementi del semplice racconto di fate. L’eroe parte per una ricerca, per un’avventura, eccetera; uccide un orco (la sfinge) e salva la principessa (Giocasta) che poi si sposa. In questo caso, però, risulta che lo straniero ucciso è il padre e la principessa, logicamente, è la madre. Ciò a sua volta, come Propp dimostra, porta necessariamente a un nuovo cambiamento: la trasformazione da racconto in mistero. Edipo indaga sul crimine che si rivela commesso da lui stesso. L’originale racconto di fate è così trasformato in una storia criminale interna ad esso […] La ricerca [in Psycho] è dominata dal desiderio di penetrare il segreto e vedere ciò che è stato nascosto. In Psycho come in Marnie, il segreto è quello della madre rinchiusa nella camera. Sono queste le strutture tipiche di Hitchcock che noi associamo alla paranoia e al voyeurismo. […] La madre, il cui ritratto deve essere voltato verso il muro per deviare il suo sguardo, è scoperta per caso dalla sorella di Marion, nella cantina da cui lancia un orribile sguardo. Più Hitchcock pone come oggetti di ricerca e di desiderio segreti psicanalitici anziché microfilm o denaro, più è impossibile che si giunga ad un lieto fine. La mancanza che motiva tutto il viaggio e la storia diviene simbolica e irrisolvibile, anziché immaginaria e soddisfacente.
Psycho, io credo, è il caso più estremo di film in cui tutto questo è brutalmente chiaro, nel quale il racconto di fate non è semplicemente un’ibrida storia di ricerca, ma si trasforma in un altro genere di racconto che, seguendo categorie freudiane, possiamo definire come il racconto del perturbante, perché è centrato non sul tipo di mancanza descritta da Propp, la mancanza di denaro (o di microfilm) oppure di una moglie, o di una principessa, ma una mancanza simbolica che non può essere liquidata, cosicché invece di liquidare la mancanza, si liquida la principessa.
Peter Wollen, Orchi e fate. La struttura dell’intreccio, in Per Hitchcock, a cura di Edoardo Bruno, Edizioni del Grifo, Montepulciano 1981


Oltre a elementi gotici come l’ambientazione desolata e remota, la casa proibita, la notte scura e tempestosa, la madre pazza rinchiusa e gli assurdi omicidi ce n’è un altro: il segreto. Tutti in Psycho hanno una maschera o qualcosa da nascondere: il tesoro nascosto; i piani furtivi degli amanti dell’ora di pranzo, all’inizio; i tranquillanti presi di nascosto dalla collaboratrice di Janet Leigh il giorno del matrimonio (Pat Hitchcock, nella sua ultima parte con il padre); gli incassi non dichiarati alle tasse dal padre possessivo (Frank Albertson); la bottiglia di whisky nascosta nella scrivania di un impiegato; i segreti di affari illeciti, denaro rubato, identità nascoste e omicidi impuniti. Con l’insistenza di un uomo condizionato dalla morsa del tempo, Hitchcock costruì un film gotico in cui ogni singolo momento era così ben sincronizzato e legato in modo organico che il flusso degli eventi sembrava sempre casuale e inevitabile, mai forzato o artificiale. Imponendo questa unità stilistica, rese la sceneggiatura di Stefano omogenea alla struttura visiva, ai movimenti di macchina, ai materiali di scena e alla recitazione.
Donald Spoto, Il lato oscuro del genio. La vita di Alfred Hitchcok, Lindau, Torino 1999