Un western comico e grottesco

Un western comico e grottesco

All’inizio di Lo chiamavano Trinità... il protagonista eponimo, interpretato da Terence Hill/Mario Girotti, è sdraiato pigramente su una slitta indiana (un travoy) trainata dal suo cavallo. Sbadiglia indolente, non si scompone neanche quando il cavallo attraversa un corso d’acqua. È vestito praticamente di stracci, la sua maglia è sporca e ha buchi vistosi. Nel 1970 Trinità non è il primo eroe di un western italiano ad avere perso ogni dimensione tragica; ma nessun altro, forse neanche il messicano Tuco in II buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone, è stato associato con tale radicalità a una dimensione che Michail Bachtin avrebbe definito del “realismo grottesco”. Il principio di quest’ultimo è l’“abbassamento”: "Tutte le cose sacre e alte sono reinterpretate sul piano del 'basso' materiale e corporeo". Bachtin ha studiato questa categoria partendo da Gargantua et Pantagruel di Rabelais, e ha portato alla luce una cultura popolare dalla lunga tradizione, dove l’individuo torna a fondersi con la natura, e le strutture della società sono sovvertite in momenti rituali come il carnevale. Nel caso di Lo chiamavano Trinità... le cose "sacre e alte" sono, più modestamente, l’iconografia e le situazioni del western, riscritte secondo una prospettiva che privilegia l’ "immagine grottesca del corpo": vale a dire il corpo non idealizzato che mangia, suda, puzza. [...] La sua prima meta non è un saloon, ma una specie di rustica locanda sul cui tetto c’è una mucca: una tipica immagine carnevalesca del mondo rovesciato, in cui ciò che sta in basso sale in alto, e viceversa. All’interno, Trinità non consuma né un virile whisky né un incongruo latte, come farebbero i pistoleri della tradizione, ma un’intera padellata di fagioli, finita la quale prorompe in un sonoro, doppio rutto.
Alberto Pezzotta, Il western italiano, Il Castoro, Milano 2012


La fortuna di
Per un pugno di dollari scatena produttori e registi italiani in una vera e propria corsa all’oro del western. […] Il western italiano acquista rapidamente varie facce, da quelle che conducono a una scalata inarrestabile di violenza e tendono come ideale supremo alla strage di massa del set a quelle in cui gli scontri sono incruenti e si risolvono in scazzottature di proporzioni rabelaisiane. […] Con poche eccezioni e risultati di tutto rilievo, che ridanno fiato al genere e restituiscono ai protagonisti i caratteri di cavalieri senza macchia e difensori dei deboli in una dimensione ludica, di favola incruenta e a lieto fine, sofisticata e ricca di rimandi culturali e cinematografici […] si potrebbe dire che, all’80%, i personaggi del western a cavallo degli anni Settanta sanno solo sparare e uccidere.
Il genere, dopo aver battuto la strada del grand-guignol e accompagnato e accolto i desideri rivoluzionari, trova la sua ultima frontiera nella parodia e in una dimensione da racconto eroicomico. Inaugura quest’ultimo sottofilone Lo chiamavano Trinità...: l’idea rende e consente il recupero di larghissime fasce di pubblico giovanile, allontanate dall’eccesso di violenza precedente. Si ritrova nella fase autunnale il gusto elementare di un racconto incruento, nonostante la progressiva distruzione catastrofica di interi ambienti. Le pistole sparano, quasi mai però per uccidere. Piuttosto i protagonisti si esibiscono a suon di calci, pugni, torte in faccia, in numeri degni dei migliori spettacoli da circo. Per fortuna, a un certo punto, 'arrivano i nostri': ossia la coppia Bud Spencer e Terence Hill, che da solo svolge il lavoro del 7° cavalleggeri. Sono discendenti diretti dei comici dell’arte e figli naturali di Stanlio e Ollio: con la chiave eroicomica riportano il western alla sua dimensione per minorenni e famiglie.
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, Editori Riuniti, Roma 1993

Barboni fa qualcosa di nuovo ricollegandosi a una tradizione consolidata. In Lo chiamavano Trinità... la prodezza jacovittiana di Terence Hill ha i tempi e la messa in scena di una gag comica, e tiene conto dell’ironia sdrammatizzante inaugurata da Una pistola per Ringo di Tessari. La differenza è che Hill non è elegante e ironico come Giuliano Gemma, né prepara teatralmente la sua prodezza ammiccando allo spettatore: la sbriga con noncuranza, nel minor tempo possibile, come se dovesse pagare un dazio alle leggi del genere, secondo le quali l’eroe deve far fuori i cattivi. Lo spettatore del 1970 si aspetta che il pistolero sia rapidissimo, ma non fino a questo punto. E soprattutto non ha messo in conto che il suddetto pistolero nutra istinti primari, si esprima non solo con parole e spari, ma anche con rutti, e non abbia simpatia per il sapone. […] Barboni chiama a raccolta stereotipi che appartengono alla tradizione western generale: e li abbassa, li familiarizza, li adatta a misura di un mondo in cui il motore non è l’avidità o l’affermazione superomistica, ma il soddisfacimento dei bisogni primari. […] In questo West centrato sulla pancia più che sul denaro, vengono ridimensionate le componenti classiche del genere: il cinismo e la violenza, con i relativi agganci alla società contemporanea. Trinità e Bambino, estranei a ogni dimensione tragica, non intendono contestare o capovolgere la realtà: semplicemente la sdrammatizzano. Se a proposito del western italiano si è parlato a volte, in modo spregiativo, di 'finto casareccio' da trattoria romana o di dimensione 'ciociara', è Barboni a effettuare la definitiva romanizzazione del western italiano. Lasciando da parte la leggenda per cui Barboni avrebbe scritto i copioni in romanesco traducendoli poi in italiano, in Lo chiamavano Trinità... emerge uno spirito irridente, demitizzante, che sgonfia ogni retorica e riporta tutto a una dimensione terra terra, a una visione della vita a livello 'denoantri'. Trinità e Bambino sono personaggi comici, ma non sono né macchiette né caricature: fanno ridere non per quello che sono, ma per quello che fanno in un mondo ormai grottesco e abbassato. In questo modo suscitano l’identificazione: non sono superuomini come i pistoleri di Leone o eroi maledetti e perdenti come quelli di certi western di Corbucci, Guerrieri o Questi. Sono lo specchio e il prolungamento di uno spettatore che vuole poche cose, ma sane, per fuggire da una realtà che in quegli anni diventa sempre più opprimente, tra stragi di stato, terrorismo e omicidi politici. […] Come tanti personaggi comici, Trinità e Bambino sono due falliti: ma il loro fallimento gratifica lo spettatore, perché produce un happy end quasi favolistico.
Alberto Pezzotta, Il western italiano, Il Castoro, Milano 2012