Dal libro al film

Dal libro al film

"Tu m'hai detto: t'amo. Io t'ho detto: aspetta. Stavo per dirti: prendimi. Tu m'hai detto: vattene"
(Catherine)

 

È stato nel 1955 che ho scoperto il romanzo di Henri-Pierre Roché, Jules e Jim, tra altri libri di occasione in mostra nella libreria Stock di Place du Palais-Royal. Ciò che attirò la mia attenzione fu il titolo: Jules e Jim! Fui subito sedotto dalla sonorità di quelle due J. Poi girando il volume per leggere nel retro di copertina la nota biografica, vidi che l'autore, Henri-Pierre Roché, era nato nel 1879 e che Jules e Jim era il suo primo romanzo. Ma allora, pensai, questo scrittore debuttante ha adesso settantasei anni! Come può essere un primo romanzo scritto da un settantenne?
Fin dalle prime righe mi innamorai della prosa di Henri-Pierre Roché. Jules e Jim è un romanzo d'amore in stile telegrafico, scritto da un poeta che si sforza di far dimenticare la sua cultura e che allinea le parole e i pensieri come farebbe un contadino laconico e concreto. Leggendo Jules e Jim ebbi la sensazione di trovarmi di fronte un esempio di ciò che il cinema non riusciva mai a fare: mostrare due uomini che amano la stessa donna senza che il pubblico possa fare una scelta affettiva tra questi personaggi, tanto si trova costretto ad amarli tutti e tre nella stessa misura. Ecco l'elemento, anti-selettivo, che mi toccò di più in questa storia che l'editore presentava così: Un amore puro a tre.
In una delle mie prime lettere, dissi a Roché che, se un giorno avessi potuto fare del cinema, mi sarebbe piaciuto girare Jules e Jim. Quest'idea gli piacque. Decidemmo che, venuto il momento, io avrei deciso la struttura della sceneggiatura mentre lui stesso avrebbe scritto i dialoghi che prevedeva, con le sue stesse parole, "radi e serrati". [...]
Ed eccoci all'inverno 1958-59. Sto girando I quattrocento colpi. Per farvi un'apparizione amichevole di un minuto, Jean-Claude Brialy viene e mi fa la sorpresa di portare con sé Jeanne Moreau. Improvvisiamo dunque una scenetta, girata in fretta a causa della pioggia e del freddo e, entusiasta dell'attrice, spedisco quattro sue foto a Henri-Pierre Roché, domandandogli un parere. Il 3 aprile 1959 mi risponde: "Mio caro giovane amico, ho ricevuto la sua bella lettera!... Mille grazie per la foto di Jeanne Moreau. Mi piace. Sono contento che le piaccia Kathe. Spero di conoscerla un giorno; venite a trovarmi quando volete, vi aspetto".
Ricevo questa lettera il 5 aprile, quattro giorni dopo Henri-Pierre muore, dolcemente, seduto nel suo letto mentre gli stanno facendo la solita banale iniezione quotidiana al braccio.
Finalmente nel 1961 mi decisi a girare Jules e Jim. Lo scrittore che doveva comporre i suoi dialoghi radi e serrati non c'era più, ma io e Jean Gruault ci sforzammo di restargli fedeli e, del resto, Jules e Jim è probabilmente l'unico film della nouvelle vague ad avere un commento così ampio; condotto dalla voce fuori campo, è quasi interamente tratto dal libro.

François Truffaut




Il romanzo di Roché ha affascinato Truffaut per la sua grande innocenza e per la straordinaria semplicità del suo linguaggio che, paradossalmente, giunge a conseguire effetti di grande preziosità e raffinatezza. Disponendosi ad affrontare la trasposizione, il regista si impone anzitutto di restare fedele allo spirito del testo, restituendone il carattere impressionistico delle annotazioni, la struttura apparentemente dispersiva che mira all'accumulazione dei dettagli e di appunti fuggenti, alla costruzione di un mosaico esistenziale dal quale è bandita ogni pretesa di interpretazione psicologica, sociologica o storica. Il problema dell'adattamento è risolto mediante il ricorso ad una sorta di lettura filmata che alterna scene ricostruite (ma in funzione nettamente anti-teatrale), a brani di commento off, riproducenti interi passi del testo. "È un principio non molto difendibile ma che mi conviene; consiste non già nel fondere intimamente il libro con ciò che gli si vuole aggiungere, ma nel far alternare brutalmente una scena tratta con grande fedeltà dal libro, dunque assai letteraria, assai scritta, con una scena inventata, molto realistica, molto dialogata. Si tratta di restituire la parola al libro e di riprenderla di quando in quando; può essere forse urtante ma produce contrasti che mi piacciono". Questa sorta di equivalenza che si stabilisce tra lo stile del film e quello del libro, risponde a una esigenza profonda, giacché conservarne lo stile significa in effetti conservarne la morale, che è l'espressione di un determinato modo di vedere il mondo e le persone: ed è quanto Truffaut ha in animo di restituire attraverso il film.

Alberto Barbera, Umberto Mosca, François Truffaut, Il Castoro, 1995




Che cosa trova Truffaut in Jules e Jim di così familiare da farne il suo secondo capolavoro? Quale 'affinità elettiva'? [...] Insomma, che cosa c'è di 'contemporaneo' nella bizzarra rievocazione di un esteta d'altri tempi, da attrarre in modo così travolgente il ragazzo della nouvelle vague?
Anzitutto una questione di stile. Incuriosito dal titolo e sedotto dal provocatorio candore dell'intreccio, ciò che più lo conquista è la speciale qualità del linguaggio. Una prosa poetica semplice ed essenziale, rapida ma rigorosa, frutto (come si accorgerà più tardi consultando i manoscritti) di un gran lavoro di prosciugamento, di cancellazione delle frasi e delle parole non indispensabili. È l'arte della 'sottrazione', la maestria dell'ellissi che in Dreyer o in Bresson accresceva il significato e la potenza delle immagini rimaste. Così questo "romanzo in stile telegrafico" nasconde la cultura dell'autore ma trasforma in purezza e pudore dei sentimenti l'audacia di una situazione centrata su un ménage-à-trois. [...]
Il ménage era stato sperimentato quasi negli stessi termini da tre scrittori: Helen Grund, Franz Hessel, e Henri-Pierre Roché (cui l'attore Henri Serre fisicamente assomiglia). Ma non è tanto questo che importa, né che Roché, in quanto lato del triangolo, la ricostruisse con cognizione di causa. Per l'unica testimone sopravvissuta, la settuagenaria Helen Hessel, risultò stupefacente la capacità dei giovani Truffaut e Jeanne Moreau di resuscitarlo sullo schermo, di "rendere sensibile... l'essenza delle nostre emozioni intime": lei stessa ne scrisse al regista come di un "potere magico". Ed è proprio questa 'magìa' l'anima del film, che scorre nei tre personaggi con una freschezza incantevole, come se l'ardore di quel ventitreenne che aveva scoperto il libro fosse rimasto intatto. [...]
La soluzione stilistica che Truffaut adotta per il suo "libro cinematografico" è quella di conservare le parti 'intoccabili' del romanzo, facendole dire a una voce off e di alternare a queste - senza peraltro creare fratture, anzi rinsaldando l'aderenza al testo - le fantasie fortemente visive. Ne consegue una narrazione estremamente fluida e variata, mossa come da un vortice di vita. Dove i paesaggi sono rigorosamente posti al servizio dei personaggi, dei loro incisivi dialoghi, delle loro soavi 'mattane'. E nelle evoluzioni incessanti della macchina da presa, nel proliferare dei ritrovati ottici, nella ammirevole spontaneità della recitazione, il film inventa il suo ineffabile equilibrio interno.

Ugo Casiraghi, Vivement Truffaut!, a cura di Lorenzo Pellizzari, Lindau, 2011




Sono, a 75 anni, ciò che resta di Kathe, la temibile eroina del romanzo di Pierre Roché, Jules e Jim. Può immaginare la curiosità con cui ho atteso il momento di vedere il suo film sullo schermo. Il 24 gennaio sono corsa al cinema. Seduta in quella sala scura, temendo somiglianze camuffate o paralleli più o meno irritanti, sono stata molto presto afferrata dal potere magico, il suo e quello di Jeanne Moreau, di resuscitare ciò che è stato vissuto ciecamente. Che Pierre Roché abbia saputo raccontare la storia di noi tre tenendosi sempre molto vicino al susseguirsi degli eventi, non ha nulla di miracoloso. Ma quale disposizione d'animo in lei, quale affinità ha potuto illuminarla fino al punto di rendere sensibile l'essenziale delle nostre intime emozioni? Da questo punto di vista, io sono il suo unico autentico giudice, perché gli altri due testimoni, Pierre e Franz, non sono più qui per poterle dire il loro 'sì'. Con affetto, caro signor Truffaut.

Helen Hessel, lettera a François Truffaut, in François Truffaut. La biografia, Lindau, Torino 2003




Con François, lavoravamo in modo pressoché continuativo. Gli piaceva far lavorare più persone contemporaneamente su progetti diversi. Si era separati, però, non si era al corrente del lavoro degli altri. Mi diceva: "Leggi quel libro, fammi un riassunto. Forse se ne può trarre qualcosa. E soprattutto, non una parola con Suzanne, eh?". E il libro riemergeva alla superficie anni dopo, oppure se ne traeva un episodio che veniva inserito in un'altra storia. [...] Jules e Jim fu soprattutto un lavoro di montaggio di testi, che riducemmo in seguito. Il romanzo è strutturato in modo da ripresentare un medesimo fenomeno in modo sempre più tragico. All'inizio mi ero attenuto allo stesso principio. E lui mi disse: "Ma renditi conto che lo spettatore che ha pagato il biglietto per vedere Jeanne Moreau, se dopo un quarto d'ora non l'ha ancora vista, dà fuori di matto". Per questo eliminammo le altre donne e inserimmo gli episodi che le riguardavano nella parte di Catherine. Era giovanissimo, non aveva ancora trent'anni, ma già coglieva gli aspetti pratici del rapporto con il pubblico. Improvvisava molto, anche. Mentre girava si accorgeva se mancava qualcosa. Una delle più belle scene di Jules e Jim, quella dell'imperatore della Cina, con Oskar e Jeanne che piangono insieme in camera, nella sceneggiatura non c'era. Lui sentiva che mancava una scena che facesse da chiave di volta, e mi aveva telefonato dal Giura, dove giravano. Ma io stavo lavorando con Rossellini, non avevo più idee. C'era quella storia dell'imperatore della Cina che lui voleva infilare da qualche parte. Fornì agli attori un canovaccio, e furono loro, in gran parte, a improvvisare. [...] Prima io scrivevo i dialoghi sulla base delle sue indicazioni, poi lui li riscriveva, li riassimilava. Sostituiva il suo linguaggio, il suo modo di esprimersi al mio. Il contenuto era lo stesso, conservava alcune battute, ma tutti i suoi personaggi usano la lingua di Truffaut, parlano come lui. In un testo, cambiava tutto quello che non corrispondeva al suo modo di esprimersi. Quando lavoravamo all'adattamento dei libri di Roche, mi dava la sua copia con sottolineature e annotazioni. E mi forniva cose da leggere, leggevamo molto. Un terzo della mia biblioteca è fatto di libri forniti da lui o dei quali ci eravamo serviti per qualche film.

Jean Gruault, Il romanzo di François Truffaut, Ubulibri, Milano 1986