Antologia critica

La regia spiazzante di Kubrick dal reale scivola con grandissima maestria nell’irreale, e viceversa. Diversamente da Orizzonti di gloria, il cui cammino è scandito dal lento ritmo dei proiettili, o da Lolita che si muove lungo le linee di un arabesco di sensuale arroganza, il percorso di Il dottor Stranamore è mutevole, scosceso, a volte sgraziato come il lavoro di un esordiente, altre volte così ben girato da lasciare senza fiato. [...] Un film che porta avanti con coraggio le sue idee, tanto da non rinunciare a un finale spietato, è cosa alquanto rara; altrettanto raro è chi persegue il suo obbiettivo con una logica così implacabile. Kubrick racconta la sua storia con un tale controllo che, a meno che uno non sia a conoscenza dell'inevitabile conclusione, non ci si può immaginare cosa accadrà, e ogni episodio si pone non come l’inesorabile preludio alla catastrofe, bensì come la terribile dimostrazione di come il potere politico sia diventato come il mostro di Frankenstein, che un solo piccolo errore può mandare fuori controllo. Un film duro, quindi, che può rendere una situazione ridicola e tragica allo stesso tempo, e che si conclude con una visione tale da rendere tutti gli altri film sulla bomba atomica simili ad un giochino innocente: nuvole a forma di fungo si gonfiano su una vasta, spopolata superficie terrestre mentre la voce consolatrice di Vera Lynn si lamenta dal misterioso limbo della colonna sonora, “Ci incontreremo di nuovo... in qualche giorno assolato”. Un film malato? Credo, piuttosto, si tratti di una delle denuncie più spietate e di un ammonimento pieno di speranza. Molti americani, sfortunatamente, lo trovano duro da digerire.

Tom Milne (“Sight and Sound”, inverno 1963-1964)

Cosa ci disturbava fino a Lolita nei film di Kubrick? Inquietudini d’esteta su soggetti ch’egli voleva estremamente gravi, giravolte attorno all’essenziale, in una parola la frivolezza, la mancanza di serietà profonda, quindi di humor. Con Il dottor Stranamore, tutto è ribaltato: al posto di porsi problemi tecnici su soggetti cinematografici, Kubrick risolve i suoi problemi di cineasta filmando la tecnica. Semplice lavoro di logica, si direbbe, sguardo dello scienziato posato oggettivamente sul mondo. […] È dunque un bel film Il dottor Stranamore perché l'eccesso nella precisione porta al caso, l'eccesso dell'artificio al naturale, l'eccesso di rigidità alla voce umana e perché l'errore può altrettanto facilmente fondare il sistema che distruggerlo. Perché Kubrick, utilizzando in partenza i suoi attori su tre toni di troppo li porta a ritrovare la naturalezza spingendoli un po' oltre. […] Film commovente dove riprese fittizie di cinegiornale, assumono un'aria familiare perché ci si uccide l'un l'altro, da uomo a uomo, all'aperto, semplicemente o con una canzone d'amore su uno scenario di esplosioni atomiche. Kubrick ritrova la poesia così come Godard la crudeltà con una giava in I carabinieri. Ecco dunque Kubrick al suo settimo film, divenire poeta e moralista perché, senza averne l'aria, ci parla della bomba meglio di quanto non si fosse fatto prima di lui e perché Dr. Strangelove non ha nulla di cinico né di confortevolmente ottimista o convenzionale. Ancora una volta arte e tecnica si incontrano. La scienza moderna ha provato, si è provata, che non è possibile progredire se non con l'aiuto di conoscenze incomplete, che non vi è progresso possibile se non accettando una parte di indeterminazione e che solo una certa e volontaria ignoranza permette di stabilire delle leggi. Il film di Kubrick ci dice a sua volta che non c’è sapere senza pericolo, lucidità senza un po’ di cecità, né arte o vita autentiche senza minacce consentite.

Jean Narboni (“Cahiers du cinéma”, n. 155, 1964)

Dunque un film senza peli sulla lingua, della migliore tradizione democratica e civile americana, ma anche uno spettacolo arguto. Sceneggiando, insieme all'autore e a Terry Southern, un romanzo (edito in Italia da Bompiani) di Peter George, già tenente della R.A.F., Stanley Kubrick ha infatti intinto in un bagno satirico il suo originale scheletro drammatico. E la parodia è gustosa nella misura in cui, pur non prendendo di mira personalmente i personaggi della politica internazionale di oggi, si rivolge alle idee che essi incarnano, al comportamento di cui sono i campioni sul terreno militare e diplomatico, ai pregiudizi e ai luoghi comuni che esprimono, siano la voluttà bellicista, la sudditanza al mito della scienza, l'ottusità mentale che inducendo a vedere dovunque il pericolo comunista provoca la minaccia d'una guerra civile, la tecnocrazia e la vuota retorica delle invocazioni a Dio da parte di uomini privi di buona volontà. Realizzato con intenti grotteschi, il film dà perciò forti unghiate a certe tipiche componenti dello spirito americano, (come già Kubrick fece con Lolita), ma nel contempo non risparmia i sovietici; se esso è di volta in volta una satira del film di guerra, del western, del suspense e del giallo psicologico, nel suo complesso ha accenti di elegante ironia sulla disperata condizione dell'uomo contemporaneo. Una commedia, insomma, la quale, come Il dittatore di Chaplin, è nata dalla disperazione.

Giovanni Grazzini (“Corriere della Sera”, 4 aprile 1964)

Si ride, ma si è colpevoli al tempo stesso del proprio ‘non preoccuparsi’ quotidiano: e il rimorso collettivo, la paura non esorcizzata, restano a gravare sull'opera come residui ingombranti. Kubrick non ripete il miracolo di Il dittatore di Chaplin, dove la più spaventosa tragedia del nostro secolo veniva vittoriosamente sconfitta dall'ansia di sopravvivere, e quindi da un riso legittimo, non ‘colpevole’ o elusivo. Non ripete nemmeno il suo stesso miracolo di Orizzonti di glori, dove le gerarchie e l'oppressione, momentaneamente trionfanti, erano spazzate via moralmente dalla fede nell'uomo. Qui l'uomo è giustamente eliminato: resta il fantoccio, e resta la lezione generica, apocalittica. Dopo Lolita – dove già gli ideali di Orizzonti di gloria e di Spartacus subivano parziali rovesciamenti e smentite – Il dottor Stranamore risulta in certo senso allarmante: nel farsi cantore del nostro annientamento futuro, a metà strada tra la fantascienza e la scaramanzia, Kubrick non si arrende alla disperazione e ci incita alla disubbidienza; ma non sa più trovare alcun argomento per dissuaderci dai giochi pericolosi – niente ideali e niente amore per l'umanità, soltanto la paura, una ben triste compagnia per i nostri giorni a venire.

Guido Fink (“Giovane critica”, n. 7, febbraio-marzo 1965)