ANTOLOGIA CRITICA

La stroncatura all'uscita americana

I cancelli del cielo fallisce così clamorosamente che si potrebbe pensare che Cimino abbia venduto l'anima al Diavolo per ottenere il successo del Cacciatore, e che il Diavolo sia tornato per chiedere il conto.
La grandiosità della visione del film sul Vietnam è divenuta pretenziosa. L'empatia per i personaggi è scomparsa e l'approccio di Cimino al suo soggetto è talmente prevedibile che guardare il film è come essere obbligati a un tour di quattro ore nel salotto di qualcuno.
Cimino ha scritto la sceneggiatura, la cui bruttezza è stata considerevolmente accresciuta dal rispetto del tutto ingiustificato con cui il regista l'ha messa in scena. [...]
La linea narrativa è praticamente inesistente, il che non significa che non succeda nulla - combattimenti, sparatorie, e moltissime sequenze in cui centinaia di comparse sono bellicose o sorprendentemente felici. [...]
Il senso di I cancelli del cielo è che i ricchi vogliono uccidere per la terra che non possiedono, ma siccome questo non bastava a sostenere le tre ore e 45 minuti di proiezione, il film inizia a perdersi per osservare il paesaggio, per imitare la cattiva arte (la mia inquadratura preferita è quella della Huppert che reinterpreta September Morn) o per fornirci annotazioni storiche (non di prima mano), come quando ci viene mostrata un'antica partita di baseball. C'è così tanta musica di mandolino nel film che si potrebbe pensare che un gondoliere sia ancorato appena fuori dallo schermo, cosa che, salta poi fuori, non è così lontana dalla verità.
Nel film nulla funziona come dovrebbe. Considerati il tempo e i soldi che ha richiesto, il film è realizzato male, è una barca che affonda il giorno del battesimo. [...]
I cancelli del cielo
è qualcosa di davvero raro nel cinema di oggi - un disastro inqualificabile.
(Vincent Canby, "The New York Times", 19 novembre 1980)

 



Le prime scene di I cancelli del cielo sono così belle e vivaci che chiunque abbia seguito la vicenda dell'epopea da 35 milioni di dollari potrebbe iniziare a pensare che ne sia valso ciascun singolo penny. Sfortunatamente nel suo complesso il nuovo film di Michael Cimino è così confuso, così lungo con le sue tre ore e mezza e così pesante che non funziona praticamente a nessun livello, nonostante tutto l'apprezzamento per la fotografia davvero splendida. Il settore dovrebbe meravigliarsi del fatto che i registi abbiano un tale potere che nessuno, nei molti mesi da quando la lavorazione del film è iniziata, sia stato in grado di imporgli una struttura e un senso. Gran parte del film è incoerente. [...] Fin dall'inizio la linea narrativa e i personaggi sono così poco chiari che è davvero difficile decifrare cosa (se qualcosa) sta accadendo. La trama sembra vagare dalla storia d'amore dello sceriffo a scene che ritraggono la vita del vecchio west e le pene che affliggono gli immigrati, finché il film finalmente approda a un sanguinoso confronto tra immigrati e proprietari di bestiame, tre ore e un intervallo dopo.
(Gery, "Variety", 26 novembre 1980)

 

 

La critica italiana


È noto che la copia in circolazione di I cancelli del cielo è incompleta (manca, pare, più di un'ora di film) ed è stata rimaneggiata al montaggio varie volte non tenendo conto delle indicazioni di Cimino. Le ragioni sono altrettanto note: I cancelli del cielo è uno dei tonfi più clamorosi della storia del cinema americano, il più grosso in vent'anni, e dopo quello di Cleopatra che sbancò la Fox questo ha rischiato di sbancare la United Artists, non fosse che questa società è ormai da tempo un pezzetto di multinazionale polivalente. È costato l'iradiddio di soldi, veniva dopo il trionfo (pubblico e Oscar) del Cacciatore, ma il pubblico ha detto picche. Oggi, un giudizio sui 'blocchi' rimasti (si individuano facilmente grandi vuoti, i personaggi dei tre protagonisti ne restano estremamente travolti, così come la definizione storico-politica della trama) è comunque possibile, approssimato e incompleto anch'esso, ma non troppo incerto. Innanzitutto, I cancelli del cielo non è Greed di Stroheim e neanche La prova del fuoco di Huston, vittime illustri, in altre epoche, della macchina hollywoodiana, rimasti allo stadio di antologia di brani dal film originariamente realizzato. Cimino ha raffinato le sue capacità di regista di scene complesse, d'azione (i grandi balli collettivi - la festa della futura classe dirigente con cui si apre il film all'università di Cambridge, Massachussetts, 1870, contrapposta a quella della grande baracca dell'Heavens Gate in una contea di immigrati dall'Europa dell'Est, nello Wyoming -, la battaglia-massacro finale, la stazione ferroviaria...), di cui si dimostra accorto maestro, sensibile agli insegnamenti europei, più sovietici e viscontiani che non hollywoodiani. E precisa il discorso sull'America iniziato con Il cacciatore. Ma ha sbagliato i conti e certo non ha capito che i tempi erano cambiati. Nello spazio di pochissimi anni, tre o quattro, l'America che si leccava le ferite del Vietnam è diventata l'America aggressiva e sicura dell'imperialismo reaganiano, con uno di quei bruschi passaggi cui la storia di quel paese ci ha abituato da tempo. Il cacciatore era indubbiamente un film ambiguo, ma a noi era piaciuto perché dimostrava di saper scavare nell'inconscio collettivo americano, intervenendo abilmente sugli stereotipi più profondi di quella cultura. Ne ricordo due, fondamentali: il 'cacciatore' De Niro rifiutava alla fine la 'morale della caccia', rifiutava la caccia; il 'duello' non avveniva tra il bianco e lo straniero (il rimosso, l'istinto, l'irrazionale incontrollabile socialmente e culturalmente) bensì tra il bianco e se stesso, con la scena della roulette russa. Qui, ed è un'idea assolutamente grandiosa, la situazione western classica dei pionieri o dell'esercito assediati dagli indiani è ribaltata altrettanto intelligentemente: sono gli immigrati, i poveri, a. comportarsi come gli indiani nell'assalto a un manipolo di killer assoldati dai proprietari di pascoli e con dentro a guidarli politici e militari con raccordo, addirittura, del presidente degli States!
L'ambiguità del Cacciatore nel suo finale (l'America deve andare avanti, ritrovare coesione dignità orgoglio pur se a partire dal lutto e dalla sofferenza di una guerra eminentemente ingiusta) si scioglie, nella chiara situazione descritta. L'immigrato Cimino racconta ancora di immigrati, ma stavolta dice molto più chiaramente che se essi hanno potuto inserirsi ciò è dipeso dal fatto che a un certo punto si sono organizzati e si sono messi a sparare. Dopo la battaglia, il politico-proprietario salva gli assediati e non infierisce più sugli assedianti perché sono, sul momento, più forti; lo stato dei padroni deve far rientrare la rivolta poiché, se la affronta sempre e solo frontalmente, rischia la rivoluzione. Mi rendo conto che questa fraseologia è un po' da primi anni Settanta, per l'Italia, e difatti sono certo che, visto sette-otto anni fa, questo film molto sarebbe piaciuto, diciamo, a 'Lotta Continua' o ad altri gruppi italiani consimili, ma è proprio questo ciò che al film non è stato perdonato, questa volontà di identificazione con gli immigrati (i proletari) che non sono come nel Cacciatore l'America, ma una parte dell'America, quella degli oppressi, pur dentro la colonizzazione violenta a danno degli indiani (qui assenti, già eliminati da tempo). Questo il pubblico e la critica americani non l'hanno perdonato a Cimino, perché l'opinione pubblica ha da sempre una memoria molto corta.
Il cacciatore
faceva leva su un altro perno che qui fa cilecca: il romance, il romanzo con forti contenuti metaforici e simbolici. Il gioco a tre tra De Niro, Walken e Meryl Streep era di un'intensità e forza che quello tra Kristofferson, Walken e la Huppert non si sogna nemmeno di raggiungere. Certo, ci sono scene mancanti, ma a giudicare dalle presenti (tante) tutti i tre personaggi risultano sfocati, vuote forme banali non 'simboliche' né rappresentative. Il romance crolla, per insipienza di sceneggiatura e anche di interpretazione. Anche se intero, I cancelli del cielo non sarebbe stato un grande film, ma resta il fatto che Cimino ha azzardato megalomanicamente un'impresa enorme (se vorrà continuare a far film, questo fiasco dovrà costringerlo a mitissimi consigli), ma che gli ha permesso di togliersi lo sfizio di dire all'America, dalla parte degli immigrati, alcune verità di fondo che il cinema non aveva mai osato affrontare con altrettanta determinazione politica.
(Goffredo Fofi [1981], Dieci anni difficili: capire con il cinema, 1975-1985, La casa Usher, Firenze 1985)

 


Tre film sono sufficienti per scorgere la costanza ossessiva con cui in Cimino il cinema è trapiantato altrove (sullo schermo? Sulla pellicola? O in cieli su cui proiettare film? O nella mente, visto che il 'suo' Heaven's Gate resta in fondo inedito, versione personale e virtualmente invisibile, corpo di reato e feticcio da solaio di casa) di uno spazio/tempo reale sognato per incubi e visioni. Una calibro 20 per lo specialista, introducendo subito il tema dell'amicizia virile, conteneva viaggi e spostamenti che si condensavano nell'effetto allucinatorio (per noi e per gli interpreti del film) in un edificio (una chiesetta) spostato e ricostruito in un altro luogo per salvaguardare un bottino. Primo trasloco e trapianto tutto 'reale' e insieme scenografico/filmico, cioè un'azione e un effetto tipicamente 'filmico' (spostamento di una costruzione sul set) mostrati come reali e insieme disturbanti. Nel Cacciatore il trapianto riguardava direttamente i protagonisti (sempre legati da amicizia virile) sballottati in ambienti diversi e costretti a vivere come incubo il sogno di scoperta/visione/comunione del e col territorio/natura mostrato nell'ascensione quasi religiosa di De Niro alla montagna dominio del cervo. Ne I cancelli del cielo il trapianto è ancor più immediato e più letterale, per quanto perversamente occulto e fuoricampo: il gigantesco albero della scena iniziale del ballo è stato fatto trasportare da Cimino sul set da un'altra regione, con costi enormi.

Heaven's Gate è quindi davvero lo spalancarsi di un abisso mitico. Non tanto quello della Storia, o della storia del Cinema in cui già si inscrive (con in più l'effetto cacofonico anagrammatico generatore di lapsus di un nome che disturberà e ingarbuglierà i futuri estensori di saggi e monografie: "Il cinema di Cimino") ed è stato inscritto come fallimento militare e maledetto. Diciamo che è uno sconfinamento dal territorio stesso del cinema. Cimino lo condivide (negli anni Settanta/Ottanta) con i Kubrick, Herzog, Lynch, Tarkovskij, Syberberg, col Boorman de L'esorcista II e forse col Fellini di Casanova (ma certo più con quello del Viaggio di Mastorna, il 'Fellini-mai-fatto'), col Coppola produttore. Che la sua scommessa lo destini più precisamente a esiti von-stroheimiani (disastri?) è chiaro, più che dagli eccessi folli e dagli sprechi, dalle mancanze di controllo, dallo spiazzamento un po' retro della ma figura di regista tra il bimbo e il maudit rispetto alle aspirazioni tycoonesche di Coppola Lucas Spielberg. Cimino non parla di video, di televisione, di nuovi processi produttivi multimediali, e le sue scarse frequenze produttive lo collegano alla figura dell'autore europeo (per giunta, pre-fassbinderiano). Completamente affondato nel cinema, paga integralmente le contraddizioni di chi vuole sfidare la tendenza all'infinitamente piccolo (il punto-linea della definizione televisiva) cercando il parossismo produttivo del 'grande'. Nella difficoltà di situarsi dentro i generi (Heaven's Gate è forse un western? Il cacciatore cosa è? E Una calibro 20 per lo specialista sta un po' stretto anche dentro il 'genere Eastwood'), cioè di trovare un vero territorio filmico referenziale (operazione che riesce molto bene invece a Lucaspielberg), è il piccolo segno del generale situarsi problematico di Cimino rispetto al cinema stesso. In questo il suo fascino enorme; nella constatazione finale - per lo spettatore - che neanche nel cinema è il territorio di Cimino, o meglio dei suoi film. I suoi film 'enormi' annegano nell'enormità e nella piccolezza del cinema. Il trapianto messo in scena sempre non riesce tuttavia mai. Mettere radici nel cinema non sembra consentito a Cimino come non è consentito ai suoi 'eroi' (gli immigrati 'russi' della provincia americana). Forse per questo tutti i suoi film si aprono su lunghe sequenze rituali/religiose (anche se poi nel primo subito Eastwood getta la tonaca del finto prete), forse per questo il cinema dei suoi film cerca di radicarsi - nei grossi buchi narrativi compatti e prolungati fino a sembrar diluiti, e uniti solo per sfilacciature narrative quasi viscontiane riscattate da un procedimento (nei due ultimi film) difficile da mettere a fuoco e da dettagliare, proprio in quanto paragonabile a successivi spostamenti di fuoco all'interno di un grande quadro in lieve movimento, dove masse e personaggi sono 'memorie' che si stratificano più che presentazioni e 'dati' per futuri sviluppi narrativi. Né un'altra grande struttura come la famiglia (ancoraggio, peso, garanzia in tutti i sensi per un regista-produttore come Coppola, e naturalmente per l'altro italo-americano Scorsese e per tutta la ex-cormanfactory dispersa) trova posto o viene trovata cercata fuggita nei film di Cimino. L'amicizia virile rinvia a percorsi solitari, primordiali, mitici, a confronti essenziali di pure energie dove si brucia la sicurezza o la rassicurante convenzionalità dei rapporti drammatici e di parentela?
Mentre il disegno complessivo del film (nelle due versioni che si son già viste in Italia, quella distribuita nelle sale e quella 'lunga' al Festival di Venezia, nonostante i finali e i montaggi diversi) appare spesso chiaro in trasparenza, tuttavia lo si percepisce continuamente come deformato, perché tutte le linee (gli elementi) sembrano andarsene per conto loro, spingere verso la loro curvatura finché possono. Per lineare e quasi 'semplicistica' che appaia la fabula, questa assenza di un padrone (come se il regista-dio-ideatore si fosse poi accontentato del sogno e della memoria) produce affascinantissimi spossamenti, anche puramente tecnici. Il sonoro così oltre che smisurata e involontaria parodia del suono travagliatissimo e multipista, è la follia di un tentativo di ridare l'inaudibilità complessiva del reale, la sua frammentazione non ricomponibile, il suo consegnare, all'orecchio che ascolta la Storia, spezzoni inintelligibili, mozziconi dì discorso affogati in un rumore di fondo naturale che può essere solo quello del territorio stesso che si sposta e del mondo che rotola (in originale - l'originale accusato dalla critica americana di quasi incomprensibilità - il suono di Heaven's Gate è il più emozionante degli ultimi anni, a livello di Eraserhead, più che di Nashville.
E gli attori? Kristofferson, nonostante e con Walken, e con la Huppert, non è forse l'ottusità dello sguardo come Walken ne è la follia, in ogni caso sguardi poco discorsivi, troppo fondi e poco espressivo/unidimensionali per risultare spettacolari, lineamenti poco spigolosi. Di nuovo, annegare, affogare nel cinema cancellando anche il volto troppo forte e centrale alla De Niro.
E i finali o meglio le versioni del film. Non programmaticamente incerte come in Coppola, incerte e aperte e multiple come quelle di Apocalypse Now. Aperte e incerte invece perché squadernate spellate vive violentate dalla produzione, e perché è difficile immaginare un soggetto (Kubrick?) che, oltre a idearlo, programma fino infondo un progetto come Heaven's Gate. Allora forse qualcosa di snuff, di very very hard affiora in questo film soavemente legato al palo di Ulisse che passa accanto alle sirene. È lo sguardo sulla prateria sanguinolenta della storia omologata al corpo dei sentimenti e all'impossibilità inanità insensatezza (non ci vorrebbe almeno un Alessandro Magno per I cancelli del cielo? Un condottiero, dei 'volontari' in camicia rossa?) del cinema. In scena, l'uccisione di un sogno che si era visto copulare con tanti possibili territori del cinema.
(Enrico Ghezzi, Oltre i cancelli, il cielo, Il Patalogo. Annuario 1983 dello spettacolo, Ubulibri, Milano 1983)

 

 

La rivalutazione

 

Quando I cancelli del cielo, il western di quasi quattro ore di Cimino, uscì in sala il 19 novembre 1980, fu vittima di un omicidio critico. Con le loro recensioni, i più famosi critici americani hanno disonorato loro stessi e la loro professione, a partire da Vincent Canby, che nella sua recensione del Times, apparsa il giorno dell'uscita del film [...].
Al "Village Voice", Andrew Sarris, che non era stato un fan del precedente film di Cimino premiato con l'Oscar, Il cacciatore, scrisse: "Sono un po' sorpreso che molti di quegli stessi critici che avevano esaltato Cimino per Il cacciatore lo abbiamo con altrettanto entusiasmo dato in pasto ai leoni". E prosegue: "Non mi sono fatto ingannare... Perciò, la stupidità e l'incoerenza dei Cancelli del cielo non sono state una sorpresa perché erano già ampiamente evidenti nel Cacciatore".
Sul "New Yorker", Pauline Kael scrisse che "il film è così irreale - così distante e fumoso - che il suo messaggio di disperazione non lascia traccia. Va semplicemente alla deriva". Lo definiva "una miscela cupa e confusa di virtuosismi visivi, ambizione totalizzante e scrittura trasandata"; si lamentava che "le azioni violente sono prive di qualsiasi giustificazione narrativa", e sperava che Cimino "fosse un po' più navigato e si limitasse a raccontare una storia". Poi passava dalla critica al vandalismo: "I cancelli del cielo è un disastro. È un film che vorresti sfregiare, a cui vorresti disegnare i baffi [...]. È il film di un vanitoso che è stato colto in fallo". [...].
Storia, personaggi, narrazione - e scrittura. Dalla prima volta che ho visto il film, mi è sembrato inconcepibile che qualcuno potesse non vedere - e non essere totalmente coinvolto - nella storia di I cancelli del cielo. Una delle meraviglie del film di Cimino è l'incastro delle sotto-storie o storie satellitari all'interno di scene grandiosamente concepite e realizzate. È un film che, mentre procede inesorabilmente verso un picco drammatico potente e avvincente, intreccia altre storie lungo il percorso. Sicuramente tutti questi critici, in diversi momenti delle loro carriere, hanno lodato il cinema modernista, fosse Godard, Antonioni o Terrence Malick. Bisognerebbe chiedersi che cosa dei Cancelli del cielo lo ha reso così irritatante, a parte il fatto che fosse insolitamente lungo e molto costosto (la durata delle riprese, le spese quadruplicate rispetto al budget originale, il perfezionismo di Cimino sul set furono riferiti dalla stampa durante tutte le riprese fino all'uscita, scatenando un fuoco di critiche demagogiche che si concentrarono sull'atteggiamento del regista nei confronti del denaro e delle risorse).
Non dubito della sincerità di questi critici, credo che fondamentalmente la loro reazione non sia stata determinata da questi racconti, ma rafforzata da essi. [...] Il coraggio di Cimino sta proprio nella narrazione, nel suo portare in vita un racconto relativamente classico attraverso i mezzi tipicamente cinematografici - immagini, gesti, movimenti, dettagli. Con un'attenzione puntuale sia al grande e al piccolo, alla composizione e alla scenografia, al paesaggio e al costume, alle azioni fondamentali e ai gesti più effimeri, Cimino raggiunge quella specie di rivelazione delle implicazioni psicologiche che in un romanzo si ottiene quando le percezioni vengono finemente espresse e descritte con precisione. È come se Cimino avesse osservato con uno sguardo documentario curioso e impetuoso l'immenso mondo del passato che ha immaginato e creato - ma un documentario che, come nei casi migliori, non registra soltanto ma discerne.
Potrebbero essere stati proprio i valori classici della psicologia - realizzati attraverso mezzi assolutamente moderni e originali - a confondere questi critici. Le loro aspettative rispetto al racconto cinematografico sono state influenzate dalla loro osserzione per la sceneggiatura - con l'idea che un film sia, a tutti gli effetti, una rappresentazione filmata. [...] Ma il modo in cui Cimino affronta la narrazione dei Cancelli del cielo è originale tanto quanto quello di Alain Resnais - ma quel racconto è un western, è un film hollywoodiano, e il film di Cimino non è un trattato di filosofia o un saggio per immagini, è una storia, un racconto ricco e grandioso, anche se realizzato con mezzi diversi da quelli dei suoi amati antenati.
(Richard Brody, "The New Yorker", 4 novembre 2012)


 

Ho rivisto il film poche settimane fa nell'incredibile versione director's cut restaurata. Ho sempre ammirato Michael Cimino, e ho amato I cancelli del cielo all'uscita - pur con qualche riserva. Oggi, non posso credere di avere avuto anche la minima perplessità riguardo a questo capolavoro. Non soltanto invecchia bene, ma spazza via qualsiasi dubbio: per qualche ragione il passare del tempo (ricordate quella battuta così toccante? What one loves in life are things that fade) fa apparire questo film come il trionfo straordinario e sublime che allora non ero riuscito a vedere. E il modo in cui infine ci arriva attraverso gli echi del tempo lo rende ancora più commovente, persino straziante.
(Olivier Assayas, I cancelli del cielo è al 5° posto della sua top 10 stilata per Criterion, www.criterion.com)