Teste che cancellano e insondabili misteri

Teste che cancellano e insondabili misteri

Io ho 'sentito' Eraserhead, non l'ho pensato.
(David Lynch)

 

Privo di una trama o di un personaggio convenzionali, Eraserhead ruota attorno a un giovane sognante e sdolcinato di nome Henry Spencer (Jack Nance) che vive con una pianta scarna e malnutrita in una stanza ammobiliata buia e squallida in un ambiente urbano degradato. Invitato a una cena di famiglia grottesca dall'ex fidanzata Mary, si scopre padre di un mostro illegittimo, una sorta di feto simile a un verme; Mary e l'ululante creatura prematura traslocano nell'appartamento di Henry. La creatura si ammala e le sue urla strazianti finiscono per causare la fuga di Mary nel mezzo di una notte piovosa. Henry tenta di prendersi cura del figlio. Non riuscendoci, distrugge il feto e di conseguenza se stesso e l'intero universo.
Storia lugubre, certo, ma gran parte del film è soprattutto una sardonica meditazione metafisica sui contenuti della mente di Henry: un paesaggio di fantasie, processi misteriosi e rumori industriali tenuti assieme da un mosaico di ossessioni riguardanti il sesso, le macchine, la biologia, la botanica, l'astronomia, la teologia, il tutto espresso in maniera non verbale. E se di trama si può parlare, essa è più che altro una commedia dell'assurdo, un incubo, più che una tragedia tormentata dall'angoscia. Gli equivalenti europei più prossimi non sono Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni, ma Il processo di Orson Welles, le sequenze in bianco e nero di Stalker di Andrej Tarkovskij oppure (per l'uso comicamente astratto e musicalmente ritmato di suono e silenzio) Le vacanze di Monsieur Hulot di Jacques Tati. Percorso da un'ipnotica bellezza formale e da un'originalissima forma di umorismo nero, con ritmi meditativi che trasformano l'esile trama in una serie perpetua di scoperte e di rivelazioni, Eraserhead è un capolavoro sui generis che la maggior parte degli spettatori e dei critici non ha mai saputo bene come prendere.
(Jonathan Rosenbaum)




In Eraserhead tutto si sviluppa a partire da un problema di luoghi. Dove siamo? Qual è il luogo, il paesaggio del film? È la domanda che inevitabilmente ci si pone sin dalle prime immagini. L'apertura è sulla testa di un uomo (Henry, il protagonista) in posizione supina, come galleggiante nello spazio, in sovrapposizione ad un pianeta. La testa esce dall'inquadratura verso sinistra. La macchina da presa compie un movimento di avvicinamento al pianeta; stacco di montaggio, la ripresa mostra dei canaloni e dei rilievi rocciosi. Lo schermo diventa nero, la macchina da presa inquadra una paratia di metallo con un foro al centro. Il foro si ingrandisce sempre di più, stacco. Siamo in una stanza oscura: accanto alla finestra c'è un uomo a torso nudo, stacco. Inquadratura di Henry a bocca aperta disteso su un fianco; dalla bocca gli esce un piccolo verme bianco simile ad uno spermatozoo. Inquadratura dell'uomo che aziona una leva in un macchinario di fronte a lui. L'uomo tira una seconda leva, stacco. Un foro nella formazione rocciosa, è pieno di un liquido denso all'interno, stacco. L'uomo tira una terza leva. Il verme/spermatozoo precipita nel liquido. L'inquadratura sfuma al nero, dal nero emerge un foro da cui proviene una luce bianca; la macchina da presa si avvicina, fino a che lo schermo non diventa bianco.
La prima sequenza di Eraserhead funziona in pratica come una 'cornice': ci introduce letteralmente all'interno di un mondo (l'immagine iniziale del pianeta); un mondo il cui paesaggio è formato dalle rocce e dai corpi (la sovrapposizione della testa di Henry con il pianeta).
(Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova 2004)




La 'cancellazione' a cui si riferisce il titolo del primo lungometraggio di Lynch non rinvia soltanto alla scena in cui un uomo scrive sulla superficie di una pagina un tratto che cancella con l'estremità opposta della matita, ma anche al tentativo di Henry di sopprimere il bambino che ha fatto nascere, come un creatore onnipotente cancella il quadro della sua creazione. [...] È questa la grande forza di Lynch, fin dal suo primo indimenticabile lungometraggio, di non permetterci mai di decidere.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)




L'incarnazione di questa paternità 'corrotta' è, ovviamente, la patetica creatura che Mary dà alla luce, realizzata dallo stesso regista con un'abilità sorprendente. La particolarità di questo 'mostro' risiede nel fatto che è tutt'altro che pauroso, come accadrà a John Merrick in Elephant Man. Costui genera piuttosto nello spettatore un gran senso di disagio, orrendamente diviso com'è tra un aspetto sommamente disturbante e qualità profondamente 'umane' come i pietosi occhi che paiono imploranti e il suo pianto lancinante, così simile a quello di un 'vero' bambino. Lynch non ha mai voluto rivelare in quale modo e con quale tecnica abbia realizzato questo effetto speciale davvero inquietante; il regista, sempre disponibile e affabile nel corso delle interviste, diventa a questo proposito reticente fino al silenzio, limitandosi a suggerire la sua passione per la dissezione di animali e per le texture organiche (lasciando sapientemente intervistatori e lettori nel dubbio che la creatura possa essere stata concepita con tecniche non esclusivamente meccaniche ma, forse, biologiche). La gelosia nei confronti di questo 'effetto speciale' spingeva Lynch, durante la visione dei giornalieri assieme ai tecnici e agli attori, a coprire personalmente gli occhi all'addetto alla proiezione affinché questi non potesse scorgere i rari momenti in cui la macchina da presa inquadrava il neonato prima del ciak, rivelandone i segreti di fabbricazione.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)




Lynch esplora il cinema come dimensione spaziale, apertura, ma non in senso semplicemente geografico. Nel cinema come nella filosofia, non si tratta più, come nota Nancy: "Di prendere visione o di affinare la vista del mondo, dell'essere o del senso, ma si tratta piuttosto di aprire uno spazio che inizialmente non è visibile, di aprire uno spazio per una vista, o uno spazio di vista, che non sarà più uno spazio dinanzi ad uno sguardo". Il cinema dunque, non è visto come il dispiegamento di uno spettacolo per uno sguardo già esistente, ma diventa il luogo, lo spazio entro cui si può creare uno sguardo. Perché questo sguardo si crei, il film non deve cercare di rinviare ad una realtà esterna di cui sarebbe la copia, ma deve cercare di arricchire e di modificare l'immagine in modo da far apparire non il reale, ma il suo insondabile mistero.
Tornando ad Eraserhead allora, l'impronta magrittiana nel primo film di Lynch si rende ancora più evidente. Il pittorico in Magritte agisce come apertura di un mondo in cui si crea uno sguardo incerto, sospeso nell'indecidibilità del senso di ciò che sta vedendo. I corpi e gli oggetti sono lì, nella loro evidenza e, proprio per questo, nel loro mistero
Come nella pittura di Magritte, Eraserhead dispiega oggetti quotidiani, corpi e narrazioni apparentemente riconoscibili e, allo stesso tempo, integrati in un mondo altro, le cui regole non sono conosciute. Un mondo, quello del film, che ne contiene altri, dalla stanza di Henry, alla casa dei genitori di Mary, la sua fidanzata, al radiatore che contiene il teatro in miniatura, dove la piccola figura femminile dalle guance deformi canta In Heaven Everything is Fine. Mondi isolati che contengono altri mondi, in un gioco ad incastri di non facile soluzione, ma che costituisce - come già Lynch mette in chiaro sin dal primo lungometraggio - il cinema stesso come apertura di uno spazio.
(Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova 2004)