Antologia critica

“È uno di quei film che ho rivisto più spesso e ogni volta con molto piacere. È apparentemente un film di dialoghi, tuttavia la perfezione del découpage del ritmo, della direzione dei cinque attori è tale che si ascolta religiosamente ogni frase. Credo veramente che sia molto difficile riuscire a fare ascoltare con attenzione un dialogo ininterrotto; ancora una volta è riuscito a fare qualcosa che sembra facile, ma che in realtà non lo è affatto”

François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, 2008, p. 178



Tutta la parte finale del film si limita all’esposizione di un ragionamento, eppure non stanca mai l’attenzione. Questo perché la soluzione ci viene data dalla stessa configurazione dei luoghi. La formula algebrica della pièce teatrale trova qui un’espressione geometrica di rara eleganza. Non basta il ragionamento sottile, occorre saper vedere. Vedere: è il convincente invito di Hitchcock.
Ma in questo film, l’arte del regista non consiste soltanto nel rendere attraente un dato astratto – e, a questo proposito, ricordiamo con quanta maestria all’inizio della storia sa evitare di farci perdere la pazienza, nonostante si svolga una conversazione di dieci minuti tra due uomini perfettamente immobili. Se il profilo dell’intreccio dimostra un’asciuttezza tutta matematica, viceversa i personaggi non sono trattati come entità. Il marito è una persona ignobile, ma affascinante, che non perde la sua flemma neanche se viene colto in contraddizione. L’amante, invece, è tesissimo e la moglie tanto sciocca quanto carina. Satira maliziosa, si dirà, da buon inglese quale è sempre rimasto Hitchcock, – signora e amante, infatti, sono entrambi americani. Ma al di là di una intenzione satirica piuttosto superficiale, la scelta dei caratteri particolari comporta un significato più profondo, obbedisce a quella abitudine presa dal nostro autore di presentare il male sotto sembianze seducenti. La stessa protagonista cede a questo fascino. Non ci stancheremo mai di ammirare la sua apparizione dietro i vetri, la mattina del confronto finale, gracile figurina nel livido chiarore del giardino, oppure l’attesa angosciosa nel chiaroscuro della stanza dalle persiane chiuse.
Con simili notazioni sul corso del giorno e della luce, con qualche lacrima appena trattenuta e qualche gesto d’impazienza o di stanchezza, è così che Hitchcock riesce a smussare la geometria un po’ spigolosa del suo discorso, a far sorgere la poesia a una svolta inaspettata del cammino, a ispessire il film con una nuova dimensione”.

Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Marsilio, Venezia 1986, p. 111



“Film di circostanza, girato da Hitchcock per chiudere un contratto e reputato minore a causa della sua apparente assenza di ambizioni. Nelle sue conversazioni con Truffaut, Hitchcock stesso conferma il giudizio. Eppure si tratta di una delle opere più splendide e significative del maestro della suspense. Per nove decimi, l’azione è rinchiusa in un’unica scenografia, come il precedente Rope e il seguente Rear Window. Tale vincolo fornisce a Hitchcock un elemento di unità e di logica, nonché uno stimolo al virtuosismo. Dial M for Murder fu girato in 3-D. La tridimensionalità non è qui altro che un immenso e giubilante pleonasmo, perché anche nella versione ‘piatta’ la messa in scena di Hitchcock, quando esplora lo spazio ristretto concessogli dall’unico ambiente in cui si svolge quasi interamente il film, possiede una straordinaria profondità. Hitchcock aveva disdegnato gli effetti shock solitamente impiegati per valorizzare il procedimento, e si era accontentato di piazzare la cinepresa in una buca, in modo che l’obiettivo si trovasse spesso ad altezza pavimento.
Più di qualsiasi altro suo film, Dial M for Murder pone la questione del virtuosismo hitchcockiano: serve a esprimere il vero tema del film o a nasconderlo? Ad ambedue le cose, si potrebbe rispondere [...]. Il virtuosismo e l’immagine pubblica di Hitchcock puntano ad avvolgere in un inganno perfetto una verità sulfurea che si presentava ai suoi occhi come un’evidenza ma che il regista faceva di tutto per respingere, ossia che il crimine rappresenta il compimento supremo di alcuni individui. Discepolo segreto di De Quincey e del suo Assassinio come una delle belle arti, Hitchcock ha tratteggiato, accanto a criminali complessati e irresoluti, un numero ancor maggiore di criminali perfettamente a loro agio, creature sataniche cui il crimine fornisce l’unica ragion d’essere. Tra essi, il personaggio interpretato da Ray Milland è uno dei più inquietanti. Non riesce a commettere il delitto perfetto, ma dal punto di vista psicologico e mentale è praticamente il delinquente perfetto: inventivo, audace, suadente e sovranamente imperturbabile. Hitchcock si difese in vari modi da quella che gli sembrava una verità evidente (la vocazione criminale di alcuni individui). Si convinse e volle convincere gli altri che i suoi film erano divertimenti puri, del tutto privi di importanza. E all’interno dei film stessi si adoperava per far trionfare nella trama la morale più tradizionale, anche quando non era più di moda. Ma come creatore di personaggi non poteva fare a meno di sottolineare la superiorità intellettuale, il fascino, il dandysmo, la seduzione, l’aura tragica sprigionata da certi colpevoli rispetto agli innocenti e ai giustizieri, piuttosto insignificanti o insulsi, anche quando si mostrano abili nell’espletare i loro compiti. Allora Hitchcock li muniva di senso dell’umorismo (vedi qui il personaggio dell’ispettore Hubbard interpretato da John Williams). Come molti cineasti hollywoodiani, ma nel suo caso per motivi inerenti più specificamente alla morale, Hitchcock ha seppellito nei suoi film apparentemente più superficiali una parte del senso nascosto della sua opera. Quindi, più un suo film sembrerà minore, più rischierà di essere essenziale.

Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma. Les films, Robert Laffont, Paris 1992



“L’elemento più intrigante del film, che in questo si differenzia dalla pièce, è la manipolazione dei sentimenti e dei desideri del pubblico. Hitchcock pone l’accento sull’ambiguità delle reazioni dello spettatore alla scena dell’aggressione (sequenza che scelse di mostrare durante la serata di gala al Lincoln Center) che richiese, come mi confidò Grace Kelly, di una settimana di riprese. Ad un’ora stabilita, Tony deve telefonare dal suo club alla moglie affinché lei lasci la sua camera e venga a rispondere al telefono. Lesgate, nascosto dietro le tende, dovrà strangolarla quando lei riattaccherà. Ma l’orologio di Tony è indietro. Siamo avvinti dal nervosismo, vogliamo che Lesgate attenda lo squillo del telefono. L’identificazione, qui, è al colmo della perversione. Hitchcock ci mostra il percorso meccanico della chiamata. È un buon esempio di tempo filmato, che allunga di qualche secondo un tempo reale per meglio sottolineare la sua importanza e accrescere la tensione provocata da questo ritardo. Quando Margot finisce per rispondere al telefono, la mdp gira intorno a lei, poi passa dietro la tenda dove si trova Lesgate. Con questo movimento di macchina, lo spettatore si ritrova totalmente coinvolto nell’azione.”

Donald Spoto, The Art of Alfred Hitchcock, Doubleday Anchor, New York 1976

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