Antologia critica
Louis Malle, autore a 25 anni di questo film brillante, Ascensore per il patibolo, confessa la sua ammirazione per due maestri, Robert Bresson, al cui fianco ha lavorato qualche giorno per Un condannato a morte è fuggito, e Jacques Tati. Al primo si riferisce direttamente, facendo tentare in un ascensore fermatosi in piena notte fra due piani di un grattacielo il lavoro che il prigioniero del forte di Montluc compiva nella sua cella: ma qui l'evasione non riesce. Del secondo ha soprattutto ritenuto questa lezione di discrezione di un dialogo ridotto all'estremo quando non è soppresso, virtù del muto di cui la prima opera di Louis Malle, che ha firmato con il comandante Cousteau, II mondo del silenzio, gli aveva forse insegnato anche la magia.
Il paradosso è che con tali padrini Louis Malle abbia girato un film ad effetto. Non potremmo rimproverarglielo che se non si trattasse per lui di un esercizio di stile. Tanto meno si può far torto a un regista debuttante di tentare di mostrarci nello spazio di una sola opera tutto ciò che sa fare e che ciascuno dei toni di volta in volta impiegati rivela in lui una maestria che molti dei suoi compagni più anziani potrebbero invidiargli. [...] È nei dettagli estranei all'azione che Louis Malle rivela la sua capacità d'osservazione: non ci sono silhouettes nella figurazione, ma esseri che un breve sguardo fotografa nella loro originalità per nulla facilmente pittoresca, come avviene spesso al cinema, ma veridica. Sono in questo caso l'equivalente di quegli schizzi presi dal vivo dai pittori o da quegli appunti presi dagli scrittori, mentre le orchestrazioni dell'arte vengono dopo - nell'atelier, al tavolo di lavoro - nello studio.
(Claude Mauriac, "Le Figaro", gennaio 1958)
La maniera in cui sono condotte le tre azioni parallele che si sviluppano nella notte tragica testimonia di un'abilità che è raro incontrare in un giovane di 25 anni: mentre i due ragazzi commettono il loro crimine, Tavernier tenta di uscire dall'ascensore di cui è prigioniero e Florence erra interminabilmente nel quartiere degli Champs-Elysées. Questa lunga marcia notturna è il pezzo più brillante del film e quello che assicurerà il suo successo; questa sequenza in cui una donna incupita va di bar in bar sforzandosi d'immaginare come il piano che ha così minuziosamente concepito ha potuto fallire, è così ammirabilmente recitato da Jeanne Moreau. [...] Nella sua regia Louis Malle prova che non ignora nulla delle migliori soluzioni. Ma non si saprebbe rimproverargli l'utilizzazione di fondali neri nella scena dell'interrogatorio o di aver preso a prestito, per quella dell'ascensore, i procedimenti analoghi a quelli utilizzati da Robert Bresson in Un condannato a morte è fuggito. Ha l'opportunità di manifestare la sua personalità nel modo in cui usa questa sintassi elaborata dai suoi colleghi più anziani francesi, americani o tedeschi. Ciò che gli è proprio, in effetti, è una maniera improvvisa d'iniziare una sequenza, poi di rallentare il tempo per precisare minuziosamente i dettagli utili all'azione [...]. Ciò che ammiro soprattutto in questo film, è che non comporta un'inquadratura inutile, che non ce ne sia una sola che non concorra a fare avanzare il racconto, a definire il carattere dei protagonisti [...]. Ma ci sarebbe ancora molto da dire su un'opera che supera l'esercizio di stile e di cui le apparenze commerciali dissimulano non solamente una grande ricchezza d'intenzioni, ma ancora una sorprendente lucidità.
(Georges Charensol, "LeNouvelles Littéraires", 6 febbraio 1958)
Ascensore per il patibolo è anzitutto un album di splendide inquadrature, e splendide senza effettismi, per la perfetta, calibratissima fusione di sottili suggestioni fotografiche e sonore. C'è la lezione di Bresson, s'intende, e il suo amour du style, ma non soltanto: c'è a esempio il miglior cinema americano, e la lunga passeggiata notturna della protagonista Florence ricorda quella patetica di Julie Thompson - attrice Audrey Totter - nel non dimenticato Stasera ho vinto anch'io di Robert Wise.
(Guido Fink, "Cinema Nuovo", 1959)
Il canovaccio artificioso di Calef - pedaggio che un esordiente come Malle doveva pagare all'industria - è riscattato per virtù di stile. È attraverso lo stile - cioè una precisa scelta di linguaggio - che Malle, Roger Nimier, autore dei dialoghi, e il bravissimo operatore Henri Decaë hanno saputo creare personaggi vivi e radicati nel nostro tempo. Senza atteggiarsi a moralista, Malle è riuscito con l'avventura dei due adolescenti a dirci più di una verità sui problemi e i tormenti della gioventù del suo tempo.
Sul piano della verosimiglianza il vagabondaggio notturno di Jeanne Moreau non regge? Può essere, ma che importa? In questo film d'amore - perché Ascensore per il patibolo è anche un film d'amore dove i due amanti non s'incontrano mai - il vagabondaggio della donna è la parte lirica: il volto della Moreau sullo sfondo piovoso della 'ville lumière' è di quelli che non si dimenticano. Un quarto di secolo dopo Ascensore per il patibolo è utile per far capire al pubblico d'oggi che cosa fu e che cosa rappresenti Jeanne Moreau per una generazione di spettatori. Il raffinato, bellissimo commento musicale di Miles Davis è una componente importante del fascino del film.
(Morando Morandinì, "Spettacoli/TV", 29 aprile 1983)
La penombra che gioca sul volto di Jeanne Moreau che cammina divenne una sorta di scandalo cinematografico - un allontanamento dall'artigianato tradizionale verso l'imperfezione espressiva. Ascensore per il patibolo anticipa la nouvelle vague, è un film degli anni Cinquanta che, a posteriori, guarda a un futuro di liberazione.
Gli elementi anni Cinquanta possono essere individuati nell'abbigliamento formale dei protagonisti (Moreau indossa un abito da sera e i tacchi e sembra appena uscita dal parrucchiere) e nelle simmetrie del racconto, che si abbandonano a una leggera ironia simil-hitchcockiana. [...] Ma le scene nelle strade, le avventure bizzarre, insolite della Moreau nella sua ricerca notturna, i due giovani che prendono e se ne vanno - tutto questo sembra guardare alla Nouvelle Vague.
(David Denby, "The New Yorker", 4 luglio 2005)