Il lavoro sul set

Il lavoro sul set

L’atmosfera a un tempo reale e irreale, necessaria a un film di questo genere, non avrebbe mai potuto essere ricreata in studio. Le scenografie sono dunque state cercate e trovate in natura. Circa una metà del film doveva svolgersi in un castello abbandonato: un vecchio château, fatiscente e disabitato da anni, è stato individuato nei dintorni di Montargis. Il regista, l’operatore e gli attori vi hanno vissuto per quasi due mesi. Al termine d’una serrata ricerca, è stato trovato tutto quel che serviva: la casa del dottore di campagna, la locanda sul fiume, un vecchio mulino, una vecchia fabbrica [del ghiaccio, ndt] abbandonata. Due grandi autocarri hanno trasportato da un luogo all’altro un generatore elettrico in grado di fornire l’energia necessaria a illuminare gli interni. Il film prevede oltre quaranta diverse ambientazioni; il quindici per cento si svolge all’aperto, il resto in interni. L’unico set costruito in studio è stato il cimitero. Herman Warm, l’architetto ben noto per la sua collaborazione a Caligari e a La Passione di Giovanna d’Arco, ha supervisionato le scenografie.
Rudolph Maté, da molti anni collaboratore di Dreyer, l’operatore di cui tutti ricordiamo bene i formidabili primi piani di Giovanna d’Arco, realizzati senza uso di trucco, ha ugualmente curato la fotogafia di The Strange Adventure of David Gray. Maté ha cercato di allontanarsi il più possibile dalla fotografia luminosa e realistica di Giovanna d’Arco, e di creare un’atmosfera adeguata al clima fantastico e soprannaturale di questo nuovo film, elaborando uno stile in assoluto contrasto con quello adottato fino ad ora. Le riprese del film sono cominciate il primo aprile e si sono concluse nel mese di ottobre. Il montaggio è attualmente in corso.

 “Close Up”, vol. 8, n. 1, Marzo 1931




La scelta degli attori


Il casting qui è perfetto, con il dottore – il malvagio assistente di Marguerite Chopin, uno psicopatico sempre pronto al lavoro sporco – a far da caso esemplare: Dreyer, mentre a Parigi viaggiava su un métro all’ultima corsa, ebbe la visione di “un colletto incredibilmente sporco, da cui usciva una testa bianca arruffata sormontata da un cappello di feltro che un tempo doveva essere stato nero”, e “una faccia vecchia e pelosa, con grosse labbra nascoste da un ispido paio di baffi e occhi singolarmente penetranti, che scintillavano malevoli dietro spesse lenti” – senza sapere che l’uomo era in realtà un rispettato poeta di origine polacca. Sybille Schmitz (un’ex allieva di Max Reinhardt) ebbe poi una sua piccola carriera sugli schermi del terzo Reich, per finire morfinomane e infine suicida – è lei il presunto modello della fassbinderiana Veronika Voss. Dreyer aveva un vero talento nell’individuare persone inquietamente sospese tra mondi diversi, persone che dopo di lui avrebbero avuto una vita – come nel caso di Renée Falconetti, la sua Giovanna D’Arco – nella quale realtà e finzione si sarebbero mescolate in modo degno dei più agghiaccianti momenti dei suoi film.
Non ci sono attori in senso classico, ma presenze. Nemmeno ‘modelli’ nel senso in cui intendeva Bresson, perché la loro aura è autenticamente enigmatica, come se fossero scivolati fuori dal loro mondo di mistero per questa sola volta, e per farvi subito ritorno. Sappiamo che la realizzazione del film fu resa possibile dal finanziamento del barone Nicolas de Gunzburg, che pose la sola condizione d’essere lui stesso – con il nome di Julian West – a interpretare il ruolo del protagonista. Il barone, un ebreo di origini russo-polacco-brasiliane nato nel 1904, era un giramondo e un cosmopolita che si era costruito una carriera nella moda, dotato di una snellezza, una classe e un’eleganza che avrebbero fatto arrossire Cary Grant.

Peter von Bagh *



Sono nato in Francia. Mio padre era russo, mia madre polacco-brasiliana. Una notte, il conte Étienne de Beaumont diede un ballo in maschera, il cui soggetto era l’opera. Valentine Hugo e io ci andammo travestiti da Ugonotti. Carl Dreyer era là… Come tutti, morivo dalla voglia di entrare nel mondo del cinema. Grazie ad amici in comune, il pittore Jean Hugo e sua moglie Valentine, scenografa, che conoscevano entrambi Dreyer – Jean Hugo aveva lavorato con lui per La passione di Giovanna d’Arco – lo conobbi anch’io. Il giorno dopo, Dreyer chiese ai coniugi Hugo se pensavano che avrei accettato di recitare nel suo prossimo film, e io naturalmente ho preso l’occasione al volo. Voleva fare un film in tre versioni, francese, inglese e tedesca; e io parlavo queste tre lingue. Mio padre era morto, ero dunque libero... ma ci furono talmente tante questioni in famiglia quando decisi di fare l’attore che presi uno pseudonimo; pensammo a Julian West, dato che doveva essere lo stesso in tutte le lingue. [...]
Il cast era composto da personaggi che Dreyer pescava nei luoghi e nelle circostanze più impensabili: negozi, caffè... Se ne usciva improvvisamente dicendo di aver trovato queste persone, che erano quelle giuste e doveva averle a tutti i costi. E ci riusciva sempre! Il loro aspetto fisico era decisivo per la scelta. Gli unici attori professioni del film erano Maurice Schutz e Sybille Schmitz.

Nicolas de Gunzburg (intervista), “Film Culture”, n. 32, 1964




La recitazione


A un primo sguardo la recitazione ci appare così terribile – in realtà, è così terribile – da farci sospettare che Dreyer avesse perso ogni speranza al riguardo e si fosse interessato esclusivamente all’atmosfera, non fosse per una strana coerenza nelle caratterizzazioni. Tutti gli attori sono dilettanti (ad eccezione di Sybille Scmitz, che interpreta Léone, la sorella vampirizzata, e che era stata allieva di Max Reinhardt; e di Maurice Schutz, già nella Passione di Giovanna d’Arco, nel ruolo di suo padre), e furono scelti da Dreyer per una ‘somiglianza mentale’ ai loro personaggi che li rendeva perfettamente adeguati alle sue intenzioni. Il vampiro, ad esempio, sinistramente simile a un pastore luterano con il suo abito nero, la catena e le maniche rigonfie, è interpretato da una rispettabile vecchia vedova, mentre il dottore dal profilo di uccello era un mite poeta polacco incontrato da dall’assistente di Dreyer, Ralph Holm, in un métro parigino, e la virginale eroina una modella specializzata in pose di nudo. Con l’eccezione di Sybille Schmitz nel meraviglioso momento in cui le sue labbra si schiudono rivelando i denti da vampiro e la sua faccia è trasformata da un’oscena, demoniaca brama mentre guarda la sorella, a nessuno degli attori è in realtà mai richiesto di recitare in senso proprio, poiché a Dreyer basta quella loro ‘somiglianza mentale’ per aggiungere i curvi, furtivi movimenti del piccolo poeta polacco, o la maestosa, planante presenza della vecchia vedova al suo catalogo dei terrori.

Tom Milne, The Cinema of Carl Th. Dreyer, A. Zwemmer Ltd., Londra 1971




Ci faceva recitare in maniera del tutto naturale. Ci faceva sentire che la storia misteriosa che recitavamo era vera. Ciò richiedeva molte riprese per ogni scena, e ci furono diverse ripetizioni. Quando c’era del dialogo, ogni scena veniva girata tre volte, per la versione francese, inglese e tedesca. Veniva girata muta, e noi pronunciavamo tutte le parole. Il sonoro fu aggiunto più tardi presso gli studi UFA di Berlino, che all’epoca avevano la migliore strumentazione sonora. Dreyer era un uomo molto gentile, ma quando dirigeva i suoi attori diventava molto duro. Durante le riprese era serio, e la strana mescolanza di pazienza comprensiva e d’impazienza infantile che lo caratterizzava poteva in ogni momento trasformarsi in un attacco di collera. Il suo viso diventava scarlatto ogni volta che la cinepresa si metteva in moto: non ho mai visto qualcuno diventare così rosso. Ci portava sempre in luoghi strani per girare... Ad ogni modo, io non ero sempre presente: rientravo dritto a Parigi quando mi lasciava andare… Ero grandioso all’epoca. Avevo una Rolls Royce, un piccolo cane bianco e un ex colonnello russo per autista.

Nicolas de Gunzburg (intervista), “Film Culture”, n. 32, 1964




"Un disagio bianco"



Anche la fortuna contribuì, per quel che riguarda ad esempio le geniali soluzioni visive. La luce artificiale, colpendo l’occhio della cinepresa, produsse quel particolare effetto grigio che Dreyer e il direttore della fotografia Rudolph Maté decisero poi di replicare (lo fecero orientando verso la cinepresa la luce di un riflettore coperto da un panno nero). Per contrasto, questo ci porta alla vera chiave stilistica, all’essenza stessa del film: il suo biancore. Il bianco riverbera dovunque, bianco di ossa, di capelli, di farina, persino alberi dipinti di bianco, nebbie bianche, bianca luce diffusa. […]
Secondo Ebbe Neergaard, biografo danese di Dreyer, Vampyr provoca “un disagio bianco”; Frank D. McConnell, in The Spoken Seen. Film and the Romantic Imagination (1975), scrive: “Il biancore del film cresce di scena in scena, finché, al nostro ultimo sguardo su David Gray e la sua innamorata che fuggono… è del tutto impossibile distinguere, nel bianco, le loro figure”.

Peter von Bagh *



Quando nell’incubo il vampiro appare a Nicolas [De Gunzburg, che interpreta il protagonista David Gray, ndt], la sceneggiatura non parla di corpo né di scheletro ma di “cosa”, di “contorno d’ombra di una forma che egli percepisce”, “come se dei raggi di luna prendessero corpo”. Dreyer descrive i personaggi e le situazioni attraverso la luce. Foschia, nebbia, farina, luce al chiaro di luna, tutto concorre a raddoppiare il biancore latteo dello schermo, compresa la scena finale con il traghettatore e i bambini: “Presto arde un grande rogo, ma è come se la luce del rogo non potesse attraversare la nebbia e illuminasse la massa della nebbia, come se si trattasse di un muro bianco”. Le indicazioni riguardanti la luce compaiono fin dalla prima pagina (“Il paesaggio è bagnato dalla luce grigia e fievole dell’ora del crepuscolo. Tutti gli oggetti hanno un’apparenza d’irrealtà”) e la scena del parco, da questo punto di vista, è senza dubbio la più bella: “Alcuni tronchi d’albero sono imbiancati come calce. Hanno l’aria di scheletri che si muovono”. La lanterna del domestico assomiglia ad una “clessidra luccicante” e l’apparizione di Léone su una panca, suprema estasi di Nicolas, si dissolve in un miraggio di luce fluttuante: “Su di un tavolo in pietra, coperta d’edera, è distesa una forma bianca. Al di sopra si sporge una forma grigio scuro dai contorni vaghi: con ogni probabilità una vecchia”.

Charles Tesson, Introduzione a Vampyr, in Carl Th. Dreyer, Oeuvres cinématographiques 1926-1934, a cura di Charles Tesson e Maurice Drouzy, Cinémathèque française, Parigi 1983



In Vampyr il processo tecnico del ‘velatino’ è usato continuamente a dare un tono sfumato e surreale alle cose; se l’obbiettivo panoramica in una vecchia stanza colma d’alambicchi scheletri e veleni, il velatino dà il senso della polvere, l’impressione di un vecchiume di morte. Viceversa, interni fortemente illuminati, a netti chiaroscuri, danno la sensazione del dramma violento che sconvolge la volontà di un uomo, o tronca la vita di un succube infelice.

Ugo Casiraghi, Vampyr, “Cinema”, n. 148, agosto 1942



Tutti gli effetti erano completamente naturali. Non ne so molto, dal punto di vista tecnico, dei trucchi di Maté, ma ricordo che giravamo tutti i giorni all’alba, a causa della luce: Dreyer pensava che avrebbe donato bellissimi effetti di tramonto. La foschia e la nebbia erano vere. Dreyer non ha utilizzato nessuna garza o altro tipo di filtro davanti alle lenti della cinepresa. Il terreno su cui sorgeva il castello comprendeva stagni e laghi, e c’era sempre della nebbia. Potete immaginare cosa significasse alzarsi alle quattro del mattino e precipitarsi di fuori prima che la luce se ne andasse. Tutte le scene che sembrano essere state girate di notte, in realtà sono state girate al mattino. Se perdevamo la luce, bisognava attendere l’indomani, oppure girare degli interni.

Nicolas de Gunzburg (intervista), “Film Culture”, n. 32, 1964