Antologia critica

Antologia critica

Il film non è solo l'odissea del vecchio Alvin Straight attraverso le città sonnolente e le zone rurali del Midwest, ma anche delle persone che trova ad ascoltarlo e a prendersi cura di lui. Si potrebbe pensare che questa gentilezza degli sconosciuti sia un'invenzione se il film non fosse basato su una storia vera. [...]
Lungo la strada impariamo molto su Alvin, compreso un doloroso segreto che ha mantenuto fin dai tempi della guerra. Non è un uomo sofisticato, ma quando parla, le sue parole sono come i mattoni di un muro costruito per durare. Come i dialoghi di Hemingway, la sceneggiatura di John Roach e Mary Sweeney trova poesia e verità nella scelta rigorosa di un linguaggio comune. Richard Farnsworth pronuncia le battute con calma perfetta e con convinzione.
Siccome il film è stato diretto da David Lynch, che di solito ha a che fare con il bizzarro (Cuore selvaggio, Twin Peaks), continuiamo ad aspettare l'inevitabile, che l'odissea di Alvin intersechi i confini della realtà. Ma non succede mai.
Roger Ebert, "Chicago Sun-Times", 15 ottobre 1999




Un film lento, dal sapore popolare e profondamente spirituale, in grado di conquistare totalmente il pubblico. Essendo l'autore meno probabile sulla terra di questo miracolo classificato 'per tutti', Lynch raccoglie la sfida con un vigore esaltante. Cambiando radicalmente marcia, sfidando coraggiosamente l'opinione comune su cosa serva per emozionare gli spettatori, Lynch presenta il rovescio della medaglia di Velluto blu e lo trasforma in un trionfo assai improbabile. Naturalmente la luminosità e la rassicurante bellezza naturale di questo film sono in netto contrasto con l'immaginario di Lynch, notoriamente malsano. Il divario tra la macabra cattiveria del precedente Lost Highway e il tono dignitoso e diretto di The Straight Story è quasi troppo grande da comprendere. Ma qui è ancora accesa la spia che aveva fatto apparire tanto profetico Velluto blu, inaugurando una serie di film capaci di rompere ogni tabù. Quando un anti-naturalista nato come Lynch riesce a portare tanto interesse ed emozione intorno alla semplice storia di un uomo, il regno dell'ordinario inizia a sembrare una nuova frontiera.
Janet Maslin, "The New York Times", 15 ottobre 1999




L'ottantenne Farnsworth ridefinisce il concetto di espressività: dai suoi occhi promanano intere epopee silenziose. E il maturo enfant terrible Lynch sa esattamente come filmarle. Come i suoi sogni più oscuri e bizzarri - per esempio Velluto blu o la serie televisiva I segreti di Twin Peaks - Una storia vera trasmette fin dall'inizio il brivido della scoperta. Chiunque sia sensibile alle atmosfere, ai suoni e alle sensazioni, e alle complesse presenze di Farnsworth, di Sissy Spacek nel ruolo della figlia di Alvin, Rose, e di Harry Dean Stanton in quello del fratello Lyle, si ritroverà scosso e genuinamente arricchito. Una storia vera è una parabola sull'importanza di seguire la propria luce fino alla fine - e di realizzare dei film alla stessa maniera.
Michael Sragow, "Salon.com", 28 ottobre 1999, trad. in David Lynch, Perdersi è meraviglioso, minimum fax, Roma 2012




L'America che attraversa Alvin Straight è esclusivamente bianca. Persino i morti del cimitero, in secondo piano, sono bianchi. Se la natura del viaggio è di essenza fordiana, l'universo del film (in questo più vicino semmai a King Vidor), è a-fordiano, privato di quella alterità, di quella eterogeneità (il Nero, l'Indiano) che compongono il tessuto del mondo. L'alterità, nel film, è decentrata, fuori dal territorio americano: il ricordo della Seconda guerra mondiale, in Europa, da dove è venuta questa America che il film mette in scena e che il cimitero rammenta. [...]. Il viaggio di Alvin è un elogio della lentezza, certo (rallentare per meglio vedere), e si conforma al ragionamento di Alvin quando evoca i suoi ricordi di guerra ("Incredibile tutto quello che si riesce a vedere stando seduti"), finendo col costituire, attraverso lo sguardo che Lynch porta, un intervallo mobile tra due punti imprecisi: l'intervallo, cioè, tra la profondità di campo che designa il luogo da cui egli viene, ormai per sempre perduto, e quello in prospettiva, al quale aspira, comunque invisibile. C'è, in The Straight Story, questo piano ricorrente sulla notte stellata, che evoca il film-palinsesto, La morte corre sul fiume, visto che il film di Lynch traccia un'Odissea verso il bene, essendo il male già incluso (il soldato ucciso, la rottura con il fratello).
Charles Tesson, "Cahiers du Cinéma", n. 540, novembre 1999




Il titolo del film fa indubbiamente riferimento all'opera precedente di Lynch: questa è la storia straight rispetto alle 'deviazioni' nel misterioso mondo sotterraneo dei suoi film da Eraserhead a Lost Highway. Ma se l'eroe straight dell'ultimo film di Lynch fosse in realtà molto più sovversivo dei personaggi bizzarri che popolano i suoi precedenti? E se, nel nostro mondo postmoderno in cui l'impegno etico radicale è percepito come ridicolmente fuori dal tempo, fosse lui il vero emarginato? [...]
E se fosse QUESTO il vero messaggio del film di Lynch - che l'etica è "la più oscura e audace di tutte le cospirazioni", che il soggetto etico è quello che minaccia davvero l'ordine esistente, in contrasto con la lunga serie di bizzarri pervertiti lynchani (il barone Harkonnen in Dune, Frank in Velluto blu, Bobby Peru in Cuore selvaggio...) che alla fine lo sostengono?
Slavoj Žižek, When Straight Means Weird and Psychosis Is Normal, "Lacan.com"




Da sempre, nel cinema di Lynch, l'orrore e la redenzione, la luce e l'ombra, la violenza e la nostalgia sono compenetrati, rappresentano le due facce della luna. Solo che un tempo il viaggio nelle tenebre era la premessa per tornare alla luce (i pettirossi del finale di Velluto blu e l'arcobaleno di Cuore selvaggio, che sotto l'amara ironia tradivano una sincera tensione etica). Oggi invece l'itinerario di Alvin si svolge alla luce del sole, ma non per questo il buio e il dolore cessano di pesare sul quadro: l'infelicità, la malattia, la bizzarra crudeltà dell'esistenza rimangono presenti. Né sparisce l'inquietudine sottile e impalpabile che permea le inquadrature: la natura non più nemica mantiene tuttavia la sua orgogliosa estraneità, e su tutto aleggia un senso di morte. Insomma, rimane il tocco di Lynch, il suo sguardo 'perturbante' in senso freudiano, cioè la sua capacità di guardare con tale intensità un personaggio o un oggetto da farli apparire fastidiosi, fuori posto, minacciati da qualche oscura presenza (vedi il bellissimo piano sequenza iniziale, o il misterioso rimbombo che Alvin ode mentre attraversa il ponte sul Mississippi). [...]
Se c'è un rovesciamento totale, invece, è rispetto alle convenzioni del road movie: Lynch sceglie la vecchiaia al posto della gioventù, la lentezza invece della velocità, il progetto al posto della deriva. [...] Sotto l'apparente dolcezza, The Straight Story è un film serio e severo. Un film sulle cose per cui vale la pena di vivere, che non sono certo le sorsate di birra, le partite di calcio e altre inezie adolescenziali. È un film adulto, mai sentimentale, sulla necessità di perdonare e di fare i conti con il proprio dolore. Sul bisogno di stare zitti, di mettersi in cammino e saper guardare dritto. È un film che valeva la pena di fare, e questo è già molto. Anzi, è tutto.
Vincenzo Buccheri, "Segnocinema", n. 102, marzo-aprile 2000




Era da tanto tempo che non vedevamo un film sull'America. Era da tanto tempo che subivamo le aggressioni di una cinematografia talvolta orribile, talvolta ammirevole, ma sempre parziale rispetto al nerbo, alla sostanza, alla materia di cui è fatto quel paese. Minoranze infuriate, criminalità dilagante, squali dell'alta finanza, cinismo giornalistico: tutto vero, naturalmente, ma solo nell'ambito del microcosmo metropolitano che a torto identifichiamo con quel paese del quale esso è, appunto, soltanto una frazione. Dov'è infatti l'America rurale e basso-provinciale, l'America dei campi di grano che si stendono a perdita d'occhio, l'America delle 'strade blu', l'America dei paesini immobili nel tempo tanto da sembrare ghost towns? Ecco che il vuoto viene ora colmato da un autore sino ad oggi lontano anni luce da un qualunque diretto interesse per il cuore degli Stati Uniti, da un autore che ce ne ha proposto negli anni una serie di ossessioni, certo, ma sempre su un registro fantasioso e spesso fantastico, sempre attraverso strani e affascinanti giri viziosi insinuantisi fra le pieghe di un inconscio non dichiarato, un mondo dove disturbanti e spesso cruenti segnali indicavano sintomi di una malattia dell'anima prima che del corpo.
Questo autore è David Lynch, questo film è Una storia vera, una pellicola che, concepita ovviamente in termini diversissimi, supera in verità le ormai lontane prove di Malick (I giorni del cielo), Cimino (Le porte del cielo), Benton (Le stagioni del cuore), tutti film, si noti, che proiettavano tale verità americana nel passato, quasi per un pudore che impediva loro di indagare nel presente di quelle stesse plaghe.
Franco La Polla, Niente staccionate in Paradiso, "Cineforum", n. 393, aprile 2000