Antologia critica

È presto per dire che è il miglior film di Scorsese, ma, a mio giudizio, è certamente il miglior film di ambiente pugilistico nella storia del cinema americano, superiore a Il sentiero della gloria (1942) di Walsh per forza inventiva dei .personaggi, a Stasera ho vinto anch'io (1949) di Wise per ricchezza tematica, a L'ultima minaccia (1952) di Brooks nell'analisi sociologica, a Lassù qualcuno mi ama (1956) ancora di Wise nella 'descrizione dell'ambiente italo-americano. [...]
È ammirevole il modo con cui, adottando, una struttura cronologica piuttosto semplice (si procede a tappe forzate dal '41 al '64), Scorsese ha saputo rinnovarla dall'interno con un'impaginazione e un ritmo che gli devono essere costati sudore e lacrime di sangue in sala di montaggio e con espedienti narrativi e stilistici: gli inserti colorati in forma di filmetti domestici in Super8, per esempio, oppure il rallentatore nelle soggettive del protagonista. A dire la sua originalità d'invenzione basterebbe il finale con LaMotta, non più toro di combattimento, ma bue obeso da spettacolo, che recita allo specchio in monologo di Marion Brando in Fronte del porto.
[...] In Toro scatenato la boxe è soltanto un supporto, se non un pretesto, per il ritratto in piedi di un uomo, eccezionale come combattente sulring, ma esemplare, nella sua normalità, come prodotto di una cultura, di un ambiente, di una classe, di una società. Di un uomo che, cresciuto negli slums di Nuova York e di Filadelfia come il suo conterraneo Rocky Graziano, scelse la boxe perché, secondo lui, fare il ladro e il rapinatore non rendeva abbastanza. Di un personaggio che, pur così esecrabile per tanti versi tra cui il suo forsennato maschismo mediterraneo, Scorsese e C. hanno rappresentato con tenerezza e soprattutto rispetto, quel rispetto che senz'ombra di derisione caricaturale impregna, pur nel suo realismo, la descrizione del microcosmo latino-cattolico-mafioso della Little Italy, di una verità degna del regista di Mean Streets.
[...] Non bisogna, però, prendere Toro scatenato per un dramma naturalistico di denuncia. Come Scorsese va di là dal realismo nella serie assaettata degli incontri, gonfiandone espressionisticamente gli effetti di brutalità per renderne il terrore, così nella rappresentazione di Jake, degli altri personaggi e dell'ambiante sconfina spesso in quell'iperrealismo figurativo che era già la cifra segreta di Taxi Driver.
(Morando Morandini, "Il Giorno", 14/02/1981)




Non c'è nessun amore per il pugilato e per il suo mito sportivo nel film che Martin Scorsese, ormai tra i grandissimi del cinema americano, ha tratto dall'autobiografia di Jake La Motta, ex campione del mondo dei pesi medi. E non c'è grandezza, non c'è eroismo nella sua folgorante carriera e nella sua irresistibile caduta. C'è, nello splendore del bianco e nero di Michael Chapman (che Scorsese propaganda in opposizione alla deteriorabilità del colore e che LaMotta, nel suo libro, dice essere la tonalità dei suoi ricordi), la vicenda di una furia che riesce a canalizzarsi e ad esprimersi solo in un'alternanza di incontri sul ring e di scontri domestici ugualmente feroci, la storia di affetti che riescono solo ad essere gelosie, sospetti, solitudine. Non ci sono vincitori né vinti, sul ring come nelle casette piccolo borghesi che LaMotta si conquista, ma solo voluttà distruttive, cui De Niro ha dato volto e corpo con una generosità che fa di lui il nuovo mostro sacro.
(Irene Bignardi, "L'Espresso", 22/02/1981)




Tratto dall'omonima autobiografia di Jake La Motta, che fu uno dei pugili più duri e meno benvoluti a cavallo degli anni '40-'50, è un altro capitolo dell'America amara di Little Italy già più volte investigata da Martin Scorsese. [...] Nella storica personificazione di De Niro, capace di trasformarsi da coriaceo gladiatore del ring a rudere di un quintale e passa con una dedizione naturalistica da far impallidire, il Toro del Bronx è una tragica marionetta di cui tirano i fili i padrini dall'aria rispettabile. [...] Il racconto è in bianco e nero (tranne che per le citazioni dei filmetti colorati fatti in famiglia), forse per legarsi meglio a una tradizione iconografica in gran parte paratelevisiva, e mescola gangsterismo e religione, cazzotti e musica, Mascagni, trionfi e galera. È lodevole la sobrietà di Scorsese, che perfino nelle situazioni più nevrotiche e arroventate sembra lasciare il giudizio allo spettatore e non nega certo al suo colosso d'argilla una luce di cristiana pietà.
(Tullio Kezich, "Panorama", 9/03/1981)




Toro scatenato
non è un film sulla boxe ma su un uomo paralizzato dalla gelosia e dall'insicurezza sessuale, per il quale venire massacrato su un ring è una forma di confessione, di penitenza e di assoluzione. Non a caso, la sceneggiatura non è interessata a mostrare le strategie degli incontri. Per Jake La Motta, quel che accade durante un combattimento è determinato non dalla tattica, ma dalle sue paure e pulsioni. [...] Gli incontri sono frantumati in dozzine di inquadrature, montate da Thelma Schoonmaker come duelli fatti non di strategia ma di colpi che vogliono far male. La macchina da presa si spinge fino a pochi centimetri dai pugni; Scorsese ruppe le regole dei film sulla boxe entrando nel ring, e modificandone forma e dimensioni per assecondare la propria visione - talora lo spazio è claustrofobico, talora si allunga in prospettive irreali. Anche la brutalità dei combattimenti sembrò nuova; La Motta faceva sembrare Rocky delicato. La colonna sonora enfatizza ogni colpo con un impatto sordo e cupo; Scorsese utilizzò spugne all'interno dei guantoni e tubicini tra i capelli dei pugili per produrre schizzi e rivoli di sudore e di sangue. Toro scatenato è il più fradicio dei film di boxe, intriso dei liquidi della battaglia. Una delle ragioni che motivarono la scelta del bianco e nero fu proprio la riluttanza di Scorsese a mostrare (a colori) tutto quel sangue.

L'effetto visivo più rilevante del film è l'uso del ralenti per suggerire l'acutezza di una percezione. Come Travis in Taxi driver vedeva i marciapiedi di New York al rallentatore, così La Motta guarda Vickie con un'intensità tale che lo spazio intorno a lei sembra espandersi. La normale velocità di scorrimento è di 24 fotogrammi al secondo; Scorsese usa velocità anomale, 30 o 36 fotogrammi al secondo; il risultato è che noi avvertiamo la tensione di quegli occhi che si stringono come una fessura e di una rabbia che monta, mentre Jake, ormai preda della paranoia, osserva i movimenti di Vickie.
[...] La vita di Jake LaMotta è per Scorsese l'illustrazione di un tema ricorrente nella sua opera, l'incapacità dei personaggi di fidarsi e di avere relazioni equilibrate con le donne. Il motore che muove il personaggio LaMotta non è la voglia di boxare, ma la gelosia ossessiva verso la moglie. Dalla prima volta che vede Vickie, allora una ragazzina di quindici anni, LaMotta è ipnotizzato dall'aura di questa distante dea bionda, che pare tanto più grande della sua età, e che in molte inquadrature sembra più alta e persino più forte di lui. Anche se nel film non c'è mai prova diretta che lei lo abbia tradito, Vickie è una donna che a quindici anni già tratta con familiarità i malavitosi, che conosce le regole del gioco; lo sguardo che rivolge a Jake durante il loro primo appuntamento la mostra pienamente sicura di sé, in attesa che lui faccia le sue prime goffe avances. (Sorprende che Cathy Moriarty, lei stessa solo diciannovenne, abbia la sicurezza necessaria a interpretare in modo così convincente una donna intrappolata nei successivi stadi di un matrimonio malato).
L'ambivalenza di Jake verso le donne incarma quel che Freud chiamò il "complesso della Madonna o puttana". Per LaMotta le donne sono ideali virginali e inavvicinabili - finché non vengono corrotte dal contatto sessuale (con lui), dopo di che diventano creature infide. Lungo tutto il film si tortura con fantasie di Vickie che lo tradisce. Ogni sguardo, ogni parola, viene distorto dal suo scrutinio. Non la coglie mai sul fatto, ma la picchia come se lo avesse fatto; il suo sospetto è già prova della colpa di lei.
Il film è contrappuntato da scene in cui Jake LaMotta invecchiato, sovrappeso, quasi calvo, si guadagna da vivere recitando 'readings', gestendo un night-club, persino facendo l'intrattenitore in locali di striptease. Fu un'idea di De Niro interrompere le riprese fino a che non avesse messo su il peso sufficiente a girare queste scene, in cui la pancia gli tracima dalla cintura dei pantaloni. I passaggi finali includono la crisi di pura disperazione, nella quale Jake prende a pugni i muri della sua cella a Miami, urlando : Why! Why! Why!...
[...] Toro scatenato è il più straziante ritratto della gelosia mai visto al cinema - un Otello dei nostri tempi. Ed è il miglior film che io abbia mia visto sulla mancanza di autostima, sul sentimento di inadeguatezza e sulla paura che conducono certi uomini ad abusare delle donne. La boxe è l'arena di Toro scatenato, non ne è il tema profondo. LaMotta era famoso per rifiutarsi a qualunque costo di andare al tappeto. Ci sono scene che lo mostrano in piedi, passivo, le mani lungo i fianchi, mentre si fa martellare dai colpi. E noi sentiamo perché non va giù. Sta troppo male per riuscire a fermare il dolore.

Roger Ebert, 1998

 




Scritto con lo sceneggiatore Paul Schrader, già artefice di Taxi Driver, Raging Bull è forse il capolavoro narrativo di Martin Scorsese: storia archetipica dell'underworld italoamericano, elegge il combattimento di boxe a categoria dello spirito, come corpo a corpo dell'individuo con una società che è il nemico da battere, fondendo con grande equilibrio il topos della violenza con il dramma sentimentale e il tema della gelosia ossessiva. A essere messa in discussione è l'ideologia del self-made man: l'autodistruttivo protagonista è schiacciato dal peso del successo, è l'uomo comune nudo e disperato di fronte alla realizzazione del Sogno Americano.
Film intenso e visionario, corroborato dal capolavoro di immedesimazione di Robert De Niro (l'attore, premiato con l'Oscar, ebbe come consulente lo stesso Jake La Motta e ingrassò di venti chili per interpretare le scene che mostrano il decadimento finale del pugile), Raging Bull adotta un modulo narrativo epico che procede per grandi ellissi cronologiche e talvolta sintetizza anni e combattimenti in pochi fotogrammi. A esso fa da eco la contrastata fotografia in bianco e nero di Michael Chapman, che diviene a colori solo nei filmini 'familiari' in 8 mm, dove la descrizione delle tappe della vita privata dei personaggi apre a un doppio livello di scrittura il reale filmico.
(Serafino Murri, Raging Bull, Enciclopedia del cinema Treccani. I film, 2004)