Il metodo Chaplin

Il metodo Chaplin

Non mi importa molto della storia... dell'intreccio, come si suol dire. Se uno ha l'intreccio meglio costruito del mondo, però non ha dei personaggi, delle figure vive, allora non ha niente. Io credo che questa mancanza sia uno dei fattori che frenano il cinema. Le dirò un'altra cosa. Io credo nella sospensione del giudizio, e cerco di trasmettere il dubbio filosofico che provo nei confronti delle cose e delle persone. Se nella mia storia c'è un cattivo, cerco di fargli compiere una buona azione... in modo tale che nella mente degli spettatori s'insinui il dubbio: non è che quel tizio, che il lunedì, in date circostanze, è un farabutto, potrebbe comportarsi come si deve il martedì, in circostanze diverse? E lo stesso vale per la virtù. La mia filosofia di vita, se così la si può definire, mi impone di non essere troppo severo con gli sciagurati che sconcertano questo vecchio pianeta scontroso con le loro pagliacciate. Un po' di delicato scetticismo contribuisce alla tolleranza e alla gentilezza. È facile giudicare. Non è altrettanto facile capire. E ritengo che l'arte esista, fra le altre cose, per migliorare la comprensione. Per di più sono convinto che, sospingendo il pubblico verso questa comprensione, passando non per le loro teste ma per i loro sentimenti, gli si offre un autentico svago. Ed è questo che vogliono.
I produttori affermano che il pubblico vuole questo, quello o quell'altro ancora... per dire: battaglie, omicidi, morti improvvise in abito da sera e smoking. Ecco la stupidaggine. Il pubblico non sa cosa vuole, a parte che vuole svagarsi per una sera. Io cerco di dargli questo svago, e i miei interessi sono in gran parte psicologici. Dove le parole non arrivano, subentrano i gesti. Non diciamo forse che una persona ammutolisce per la rabbia, si dimena per l'impazienza, o stringe i denti per tenere duro? I moti estremi dell'animo sono muti, animaleschi, grotteschi, oppure di una bellezza incomparabile. Pensi all'assassino che si gratta nervosamente mentre guarda la giuria. Pensi a una madre che bacia la manina del figlio che tiene in braccio. E quanto ci aiuta la macchina da presa in tutto questo!
Del resto, bastano le sole dimensioni, sullo schermo, ad avere un incredibile effetto psicologico. Un giorno farò un film di una tenerezza e di un'allegria colossali; ogni cosa sarà enorme: boccali, bottiglie, pugni, facce, sorrisi, lacrime... tutto enorme. Pensi al mio pollo gigantesco nella Febbre dell'oro; i bambini lo adoreranno. Ma non solo i bambini. C'è qualcosa di inesplicabile e bizzarro e inquietante e spassoso e opprimente, tutto insieme, in questo genere di distorsioni. E lo schermo è l'unico posto in cui si possono realizzare. Lo schermo che abbiamo è più che sufficiente: si va blaterando di "film sonori" e film a colori e film stereoscopici. Io non sopporto le litografie a colori e un perfetto ambiente tridimensionale ce l'abbiamo già sul palcoscenico. Diamine, se perdiamo i nostri limiti perdiamo metà dei nostri pregi! Il movimento, due dimensioni e un accenno di profondità: ecco il nostro caos, da cui creeremo l'universo.
[...] Diamine, i film sono un buco di serratura da cui si può osservare come vive l'altra metà del mondo: gente mai vista, consuetudini, convenzioni, perdite e salvataggi, grazie e disgrazie, cuori mai conosciuti! Se la gente vede solo un film bello su dieci brutti, si sta avvicinando a possedere il mondo. Ogni volta che uno comprende qualcosa, moltiplica se stesso. Siamo solo all'inizio, e sono fin troppi i produttori che usano l'approccio sbagliato, pensando che il cinema sia un mezzo espressivo affine al teatro invece di essere qualcosa di completamente nuovo. Pensi a quella scena della Febbre dell'oro in cui faccio a pezzi il cuscino e le piume bianche danzano sullo schermo nero. È impossibile da rifare sul palcoscenico! A me è piaciuta più di qualsiasi altra cosa abbia fatto in quel film. Là mi sono impegnato veramente fino in fondo. Ritengo che quella scena abbia una specie di intensità. Ho cercato di metterci dentro qualcosa di disperato e terribile e di esprimerlo in modo nuovo, come una sorta di musica visiva.
(Charles Chaplin, da Il futuro del cinema: il signor Charles Chaplin, intervista a cura di Robert Nichols, "Times", London, 3 settembre 1925)



Credo che fosse davvero capace di far recitare chiunque. Lo sapeva - lo sentiva - lui per primo. Ti mostrava perfettamente tutta la scena, compreso ogni movimento degli occhi. La interpretava, te la spiegava e te la inculcava, e a quel punto non potevi fare altro che recitarla benissimo.
A volte era tenero e delicato, altre sapeva essere perfido e minaccioso. Altre ancora si metteva una mano sulla testa e si comportava come un bambino piccolo. Tutto questo per farti reagire nel modo in cui voleva lui. Tutto aveva uno scopo ben preciso, quando dirigeva un film. Era totalmente concentrato sulla regia e non gli importava quanto tempo ci voleva, o quante ripetizioni di una ripresa erano necessarie. Non gli importava quanto spendeva. Quando girava un film, anche se ci metteva cinque anni, era il più perfetto possibile.
La cosa non mi ha mai preoccupata, perché sapevo che era un perfezionista, che era in grado di vedere cose che nessun altro vedeva e che voleva realizzare cose che nessun altro immaginava fossero possibili in un film. Perciò, così come la mia fiducia nel suo genio era pressoché illimitata, altrettanto infinita era la mia pazienza nell'affrontare quelle serie interminabili di interpretazione di una scena.
La prima scena che girai per The Gold Rush era quella in cui la slitta scivolava giù da un mucchio di neve verso la baracca e le ragazze si ritrovano faccia a faccia con il Vagabondo, ridono e gli tirano le palle di neve, mentre lui rimane perfettamente impassibile. La nave finta era fornita dalla Union Ice Company, che si trovava a un solo isolato di distanza. Dai blocchi di ghiaccio che stavano sui camion erano ricavati i fiocchi con i quali veniva cosparso il pendio. Sotto la neve finta c'era un fondo in legno dipinto di bianco e ricoperto di tela.
Nella scena in cui schiaffeggio l'uomo (Malcom Waite) - non lo schiaffeggio per finta. La scena prevedeva che lui mi prendesse tra le braccia e mi baciasse con foga e Charlie continuava a farmela ripetere. Mi faceva ripetere sempre tutto perché io reagissi nella maniera giusta. Alla fine mi arrabbiai davvero e lo schiaffeggiai sul viso con tutte le mie forze, e questo era quello che voleva Charlie - un vero impeto di collera provocato dal fatto che lui mi aveva baciata una volta di troppo.
Durante le riprese di The Gold Rush Charlie sembrava contentissimo di me - anche se so che non dovrei dirlo - e diceva: "Finalmente ho trovato qualcuno che è in grado di recitare, di sentire questa parte". Non ricordo una scena in cui non sembrasse estremamente soddisfatto dell'interpretazione.
La piccola baracca in cui lavorava fu il luogo in cui mi trovai da sola con lui per la prima volta, anche se non successe nulla. Mi aveva invitata per parlarmi di una scena. Era spoglia, con le pareti di legno grezzo - c'era un'orrenda scrivania, anch'essa in legno grezzo, alcune sedie orribili e nemmeno un tappeto, niente. Lui notò la mia espressione stupita; ovviamente io mi aspettavo che fosse bellissima, visto che dopotutto era un milionario. E mi disse: "è stupita perché è tutto così spoglio, vero? L'ho voluto così per riuscire a concentrarmi. Non voglio nulla che attiri la mia attenzione e mi distragga. Voglio rimanere solo con i miei pensieri. Se dipendesse da me, mi basterebbe un posto con quattro pareti nere intorno in modo da non vedere niente".
Durante la danza dei panini ero seduta vicino a lui, al tavolo. C'erano anche le ragazze della festa di Capodanno, anche se nel film si presume che facciano parte di un sogno. La scena venne girata con l'accompagnamento musicale sul quale Charlie canticchiava. Non si trattava di una vera e propria melodia, ma di qualche suono che lo aiutava a seguire perfettamente il tempo. Fu una sorpresa per tutti - gli attori, i tecnici, tutti quanti - e non ho mai saputo che Charlie l'abbia improvvisata seguendo l'ispirazione del momento o se l'avesse già provata. Noi sapevamo soltanto che si era seduto al tavolo e come per magia si era materializzata quell'incantevole danza. Alla fine tutti lo applaudirono.
Nell'ultima scena Charlie ebbe per la prima volta la possibilità di esprimere in maniera legittima i suoi sentimenti nei miei confronti, perché per me lui apparteneva a Lita Grey. C'era un muro che ci divideva. Eravamo molto distaccati. Ma in questa scena aveva la giustificata opportunità di esprimere quel che evidentemente sentiva, cioè un grande affetto per me. E quando ebbe la possibilità di baciarmi, quel baciò durò molto più del dovuto. Dopodiché mi fece ripetere la scena più e più volte, e allora iniziai a capire che i suoi sentimenti nei miei confronti erano diversi da quelli che normalmente un regista prova nei confronti di un'attrice. E naturalmente sapevo quali fossero i miei - da sempre.
(Georgia Hale, in Kevin Brownlow, Alla ricerca di Chaplin, Cineteca di Bologna, Bologna 2009)



Ho chiesto a Charlie qual era secondo lui la parte migliore della Febbre dell'oro. Ha risposto, dopo un attimo di riflessione, che era la scena in cui la ragazza del music-hall guarda insoddisfatta la folla, cercando un vero uomo nella massa. E il "tipetto" pensa che stia guardando dritto verso lui, poi, quando si accorge che sta guardando al di sopra della sua testa, è quello il momento migliore, ha detto.
(Chaplin spiega Chaplin, intervista a cura di Harry Carr, "Motion Picture Magazine", n. 30, novembre 1925)


Credo che ora si verificherà nel cinema una svolta verso il genere narrativo, lo studio dei caratteri, così come lo faccio nel film La febbre dell'oro. [...] Guardandomi indietro, non so che dire di quest'ultimo film; ma penso che esso sia troppo lungo. Credo che una commedia possa anche essere lunga; ma questo è sempre pericoloso, in quanto è fisicamente impossibile far ridere ininterrottamente il pubblico per due ore di seguito. Il tempo è un grande fattore psicologico. Ogni episodio può durare soltanto un determinato lasso di tempo. È quindi necessario ricorrere a qualcosa che attiri di nuovo l'attenzione. La psicologia ha nella commedia una maggiore importanza che in qualsivoglia altra branca del teatro o in qualsivoglia altro genere di spettacolo. Gli errori dovuti a ignoranza psicologica sono inammissibili.
(Charles Chaplin, [1926 e 1928] in AA.VV., La figura e l'arte di Charlie Chaplin, Einaudi, Torino 1949)