Charlie Chaplin

Charlie Chaplin

Charlie Chaplin è stato a Vienna nei giorni scorsi, l'ho quasi conosciuto, ma era troppo freddo per lui e ci ha lasciato in fretta. Senza dubbio egli è un grande artista, certamente rappresenta sempre un'unica e medesima figura, quella del giovanotto non forte, povero, abbandonato, maldestro, che alla fine tuttavia ha successo. Ora forse Lei crede che per recitare questa parte debba dimenticare il suo Io? Al contrario egli rappresenta sempre e solamente se stesso, così come egli era nella sua triste giovinezza. Non riesce a liberarsi da quelle impressioni, e ancor oggi si prende la rivincita per le privazioni e umiliazioni di quell'epoca. Egli è, per così dire, un caso particolarmente semplice e trasparente.
(Sigmund Freud, Lettera a Max Schiller, 26 marzo 1931, Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969)

 

Uno dei pochi grandi geni del cinema, che è stato paragonato da Delluc a Molière e da Élie Faure a Shakespeare. La sua infanzia, alla fine dell'epoca vittoriana, fa pensare a un romanzo di Dickens. Figlio di due attori e cantanti di music-hall caduti in miseria, conosce, col fratello maggiore Sidney, la vita nelle stamberghe, le notti passate per strada, la mendicità, gli orfanotrofi. All'età di sei anni sale per la prima volta su un palcoscenico per esibirsi in un numero di danza. Appena adolescenti, i due fratelli vengono poi assunti da Fred Karno, sostenitore delle grandi tradizioni della pantomima inglese. Varie tournées portano i due giovani nei music-hall di provincia, a Parigi e infine negli USA. Alla fine del 1913, scoperto da Mack Sennett, accetta senza entusiasmo di firmare un contratto. A Hollywood nel 1914 interpreta per la Keystone 35 film comici, a base d'inseguimenti e di torte in faccia. In essi adotta, con qualche esitazione, il personaggio che doveva renderlo più celebre: bombetta, baffetti, punte dei piedi in fuori, grosse scarpe, pantaloni troppo larghi. Con i 14 film della Essanay, 1915, i grossi effetti e la violenza passano in secondo piano; col nome di Charlot diventa l'omino disoccupato, innamorato, alle prese con le peggiori e costanti difficoltà, da cui riesce a uscire grazie all'umorismo, la dignità, le trovate impensabili: Charlot vagabondo (The Tramp), Charlot apprendista (Work), Charlot inserviente di banca (The Bank). Con i 12 cortometraggi della Mutual, 1916-1917, supera l'abisso che separa il talento dalla genialità. Con film robusti, ricchi di grazia come balletti: Charlot caporeparto (The Floorwalker), Charlot conte (The Count), Charlot al pattinaggio (The Rink) e La cura miracolosa (The Cure), s'avvia verso la polemica sociale ardita e a volte tragica: Charlot usuraio (The Pawnshop), La strada della paura (Easy Street), Charlot emigrante (The Immigrant), L'evaso (The Adventurer).
"Diventa celebre come Sarah Bernhardt e Napoleone", dice Delluc. Dopo aver accettato un milione di dollari, offertigli dalla First National, spinge ancora più avanti la sua critica sociale con la trilogia: Vita da cani (A Dog's Life, 1918), Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), Un idillio nei campi (Sunnyside, 1919). Ogni cortometraggio gli costa ormai parecchi mesi di duro lavoro. È diventato perfettamente padrone dei suoi mezzi drammatici che definisce così: "Mi sforzo d'economizzare i miei mezzi; in L'evaso, mangiando un gelato, lo lascio scivolare giù per i pantaloni e finisce per cadere dal balcone nella scollatura d'una signora elegantemente vestita; un solo fatto serve per mettere in imbarazzo due persone e provocare due risate distinte. Si tiene conto così di due elementi della natura umana: la tendenza dello spettatore a provare le medesime impressioni dell'attore e il piacere del pubblico nel vedere i ricchi nei guai. Se avessi fatto cadere il gelato nel collo d'una povera donna di servizio, non ne sarebbe nato il riso, ma un moto di simpatia per la poveretta". Un attacco permanente contro i "dignitari" indegni e la continua rivendicazione della dignità per ogni "poveraccio" (da lui incarnato) fanno del suo personaggio il fratello d'ogni altro poveraccio di questo pianeta. Venuto a presentare il suo primo lungometraggio Il monello (The Kid, 1921), in Europa, vi è accolto come un trionfatore. Pensa allora di diventare solamente regista con Una donna a Parigi (A Woman of Paris, 1923), che non ottiene però un successo di pubblico analogo a quello degli altri suoi film. Subito dopo ecco il ritorno trionfale di Charlot in La febbre dell'oro (The Gold Rush, 1925).
Nella sua avvertenza a Una donna a Parigi aveva scritto: "L'umanità non si divide in eroi e traditori, ma semplicemente in uomini e donne. Le loro passioni, buone o cattive, vengono dalla natura". Prendendo pretesto da un suo divorzio, i bigotti, che non gli avevano perdonato d'aver denunciato il loro tartufesco conformismo nel Pellegrino (The Pilgrim, 1923), lanciano contro di lui una vergognosa campagna d'opinione. Finisce col trionfare; ma in Il circo (The Circus, 1928) si sente un'amarezza che non lo lascerà più. Quando compare il sonoro, lo rifiuta decisamente. Dopo tre anni di accanito lavoro, porta finalmente a termine Le luci della città (City Lights, 1931), opera perfetta e straziante; parte allora per presentare il suo film in Europa, vi soggiorna a lungo, fa il giro del mondo. Al ritorno comincia a lavorare a Tempi moderni (Modern Times, 1936), ispiratogli direttamente dalla crisi economica del 1929. Poi, quando il fascismo e la guerra minacciano di nuovo il mondo, s'impegna in modo ancora più diretto con Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940). Per la terza volta è vittima di persecuzioni. Alla fine della guerra abbandona finalmente Charlot per diventare Monsieur Verdoux (Id., 1947), lucido e feroce nel suo umorismo nero. Il maccartismo finisce per rendergli la vita impossibile a Hollywood e s'imbarca quindi per l'Europa, deciso a non ritornare più in America; qui, presentando Luci della ribalta (Limelight, 1952), dichiara: "Credo nella libertà: tutta la mia politica è qui; sono per gli uomini perché questa è la mia natura. Non credo ai virtuosismi tecnici, alle passeggiate della macchina da presa intorno alle narici delle dive; credo alla mimica, credo allo stile. Non pretendo d'avere una 'missione'. Il mio scopo è dar piacere alla gente".
Con la moglie Oona e i numerosi figli si ritira allora in Svizzera, presso Corsier-sur-Vevey. Dopo aver realizzato a Londra Un re a New York (A King in New York, 1957), scrisse dal 1958 al 1962 le sue memorie pubblicate nel 1964 in tutto il mondo col titolo La mia autobiografia. Nel 1966, ancora a Londra, realizza La contessa di Hong Kong (A Countess from Hong Kong), accolto molto freddamente dalla critica. Muore a Corsier-sur-Vevey la notte del 25 dicembre 1977.

(Georges Sadoul, Il cinema. Vol 1° - I cineasti, Sansoni Editore, Firenze 1981)