Antologia critica

Antologia critica

Ho visto anch'io La febbre dell'oro e condivido l'ammirazione del Gerbi [Antonello Gerbi, giornalista e critico cinematografico ndc], che è quella dei migliori scrittori stranieri. Debbo però esporre un dubbio in proposito: Charlot pare a me un artista difficile, il fondo ebraico della sua arte e della sua tristezza indubitabile, la natura del suo humour a doppia e tripla faccia poco accessibile al "pubblico". Intende adunque il "pubblico" quello che per i teorici di Charlot ne costituisce la specifica arte? (Arte cinematografica, non d'attore). O si vede in lui, dai più, soltanto un clown da circo, proiettato sullo schermo? Non sembri una domanda vana. Il tempo deciderà; e dirà se lo scroscio di risa che accompagna oggi il corpo di Charlie Chaplin sporgente sull'abisso sia lo stesso che sollevano le cadute di Ridolini; o se abbia in sé alcunché di più doloroso e consapevole, come pensano taluni, come penso io stesso talvolta.
Eugenio Montale, Espresso sul cinema, "Solaria", n. 3, marzo 1927

 


Ho visto piuttosto tardi La febbre dell'oro di Chaplin, tanto detesto e trovo poco artistica la musica suonata nella sala di proiezione. Ma il profondo sconforto che sembra essersi abbattuto su tutta la gente di teatro che conosco, mi ha infine spinto a vederlo. Questo sconforto, a mio avviso, è giustificato.
Non condivido il punto di vista secondo cui ciò che è stato fatto in questo film non potrebbe essere realizzato oggi in teatro perché il teatro non ne sarebbe capace. Credo che non sarebbe realizzabile altrove, né a teatro, né in uno spettacolo di varietà e nemmeno in un film, senza Charlie Chaplin. Questo artista è un documento che agisce da oggi con la forza degli avvenimenti storici. Ma quanto al contenuto, ciò che è realizzato ne La febbre dell'oro sarebbe insufficiente per qualsiasi scena o pubblico. Vi è naturalmente un certo fascino nel constatare che in arti così esordienti come il cinema, la gioia di alcune esperienze personali non sia stata ancora sopraffatta da una drammaturgia che ha tutta l'esperienza di una vecchia puttana. Quando Big Jim, in preda all'amnesia, non trova più la sua miniera d'oro e incontra Charlot, l'unico che possa indicargli dove essa si trovi, e tutti e due si incrociano senza vedersi, c'è una scena che a teatro farebbe immediatamente svanire nel pubblico ogni fiducia nella capacità dell'autore a condurre rigorosamente l'azione e a dare una chiusa alla sua storia.
Il film non ha responsabilità; non ha bisogno di prendersi eccessive preoccupazioni. Se la drammaturgia è rimasta così rudimentale, è perché il film non è altro che una bobina di qualche chilometro di celluloide in una scatola di metallo. Quando un uomo piega una sega tra le sue ginocchia, nessuno si aspetta che suoni una fuga.
Certo, il cinema oggi non rappresenta più problemi tecnici. Possiede abbastanza tecnica perché non ci se ne renda più conto. Piuttosto è il teatro che presenta oggi problemi tecnici. Le possibilità del cinema dipendono dalla sua capacità di mettere insieme documenti, di lasciare la porta aperta ad ogni possibile filosofia , di dare illustrazioni della vita, per tutta la durata dell'oscuro destino di un rappresentante del fantastico - che un tempo interessava - (di quel fantastico che ha dovuto soccombere all'aristocratica misura con cui lo scolaro medio immagina Giulio Cesare che attraversa a nuoto il Tevere), di un noto cantante la cui esibizione vi procura il desiderio di sentirlo cantare su una scena.
Bertolt Brecht, Alcune considerazioni su problemi e natura del film (1926), "Cinema Nuovo", n. 222, marzo-aprile 1973

 


Io vi sfido a trovare, non solo nella storia del cinema, ma in tutte le sofisticate sottigliezze della letteratura contemporanea, qualcosa che uguaglia, in potenza e bellezza, in una parola in classica semplicità, il canto d'amore che Charlot intona nella sua capanna solitaria quando, credendo ricambiato il suo affetto per Georgia, salta e danza spargendo intorno a sé, come fiori di campo, i fiocchi di lana del suo cuscino. Del resto, questa stessa potente semplicità dell'immaginazione di Charlot, come la sua freschissima capacità di ritrovarsi nelle fantasie e nei giuochi dell'infanzia, che ci svela la sua energica e sana gioia di vivere, ci sono confermate, di lì a poco, nella famosa danza dei panini - quando Charlot, col solo uso di sue stuzzicadenti, di due pagnottelle, dei suoi mobili baffetti e dei suoi occhi espressivi può creare d'un tratto, per se stesso e per noi, tutto il palcoscenico d'un teatro di varietà.
Mi sembra che questi due momenti della Febbre dell'oro determinino una volta per tutte la qualità che domina sovrana in Charlot e che è l'eredità più preziosa ch'egli abbia lasciato al cinematografo: la facoltà di comunicare in modo spontaneo e diretto i sentimenti più intimi e profondi degli uomini in modo da renderli accessibili all'animo di tutti gli altri uomini. Questo significa, senza dubbio, narrare.
Mario Alicata, Charlot, o dell'arte popolare, in AA. VV., Charlie Chaplin, Cosmopolita, Roma 1944

 


Il film è uno dei più belli che il cinema ci abbia mai dati, è un'opera di poesia ed è quindi compiuta in sé, perfetta. Nata muta, muta deve restare. Da un punto di vista commerciale, magari potremmo tollerare la musica, in considerazione del fatto che tutti i film muti un tempo venivano proiettati con l'accompagnamento del tradizionale pianino, ma il commento parlato è davvero insopportabile. Se si arriva a non udirlo è grazie al valore intrinseco dell'opera che rimane, con Il circo, la sintesi più completa dell'arte di Chaplin. Troppo si è parlato di questo lavoro perché si debbano tesserne ancora le lodi; basti dire che, a distanza di anni, esso conferma una vecchia impressione: che qui Chaplin raggiunga con l'unità psicologica solita anche un'unità plastica d'eccezione. Il nemico d'ogni compiacenza formale ha qui composto una discreta, sobria sinfonia in bianco e nero che dalla fila dei cercatori d'oro sulla montagna alla silhouette del mimo nella bufera, al prodigioso arabesco del cuscino sventrato potenzia ancor più la straordinaria evidenza dei sentimenti. Ne rimane estraneo il finale, ma questo rimane estraneo anche alla solitudine umana di Charlot.
Michelangelo Antonioni, La febbre dell'oro, "L'Italia libera", 6 agosto 1944

 


Tramontati tutti i fattori contingenti che possono averne determinato il successo vent'anni fa (moda, suggestioni polemiche, novità tecniche, ecc.) l'opera rimane come rilevanza unica e irripetibile di pura bellezza. Esprime cioè qualcosa di umano in maniera eternamente e universalmente valida, al di là di ogni valore temporale, storico tecnico, polemico. Atemporalità e universalità che sono le caratteristiche della grande arte.
Al vedere reagire, tutta alla stessa maniera, la folla che si stipava nelle sale dello Splendor e del Bernini, veniva fatto di pensare ai milioni di spettatori di ogni nazione, di ogni classe, e di ogni cultura che con lo stesso entusiasmo hanno seguito le vicende del personaggio Charlot. Eppure il riso è una delle forme più circoscritte dell'anima collettiva: varia con le epoche, le tradizioni, gli ambienti; raramente associa le folle e le aristocrazie, differisce da un popolo all'altro. Qui è humour, lì ironia, altrove facezia indecente.
Charlot ha superato tutte queste distinzioni: s'è imposto in tutti i paesi, ha entusiasmato l'operaio e l'intellettuale, il borghese e lo snob. Attraverso l'osservazione precisa ed acuta della realtà quotidiana, ironizzata anche nei suoi fatti più dolorosi, egli ha creato un personaggio che si dibatte, sperduto, in una vana quanto disperata rivolta contro la società, i suoi rigidi schemi, le sue convenzioni, le sue istituzioni. Per l'individuo non c'è scampo o salvezza in un mondo popolato di esseri aggressivi e crudeli, retto da leggi disumane, sottomesso a forze fisiche inesorabili.
Contro l'accanimento del destino, contro la mistificazione di un caso sconosciuto nelle cui mani non è che un fantoccio inerme, Charlot finisce per andarsene alla ventura tragicamente solo con la sua tristezza, i suoi dolori, le sue disgrazie. L'esperienza gli ha insegnato che tutti i proponimenti falliscono; la sfiducia verso gli altri gli è venuta con la certezza della loro insensibilità. E la sua solidale pietà si rivolge tutti i diseredati, a tutte le vittime innocenti di un'atroce condizione umana, a tutti coloro che sono deboli e soffrono. Il suo volto, che assume un'immobilità stupefatta e patetica - in cui gli occhi di cane bastonato riflettono l'incommensurabile disgrazia di vivere - ha sovente un "rictus" che maschera - e rivela la forza di volerlo celare - un singhiozzo che muore nel riso.
[...] Le ferite e le torture che la società infligge all'individuo sono sempre le stesse. Oggi, forse, sono più estese e crudeli ma, qualitativamente, sono identiche a quelle del passato. Da quando l'uomo è uomo - cioè sensibile, cosciente e debole - la società - così come è fatalmente ordinata - ha sempre schiacciato i buoni, i poveri e i deboli. Che esista la possibilità di capovolgere questa ingiusta condizione umana, Charlot, anarchico e individualista ad oltranza, non può credere e sperare. E si limita a sognare, in tutte le sue opere, il sogno meraviglioso di un'umanità finalmente conciliata. Un paradiso utopistico, in cui si muovono angeli e angiolesse e perfino i poliziotti son tutti cherubini (Kid); in cui tenere ragazze danzano amorevolmente attorno a lui senza sfuggirlo (Sunnyside); in cui i banditi più feroci divengono così mansueti da porgere il braccio alla moglie per aiutarla a scendere dal marciapiede e rispondono cordialmente al saluto del poliziotto Charlot (Easy Street). Un paradiso utopistico che egli sognava ed ironizzerà sempre, fino all'ultimo dei suoi film apparsi tra noi, Tempi moderni.
Antonio Pietrangeli, La febbre dell'oro, "Star", 19 agosto 1944

 


Di rado si è riusciti a superare, in una qualsiasi forma d'arte, la profondità drammatica della sequenza della cena di San Silvestro. È lì che Chaplin esegue, con insuperabile grazia e abilità, la famosa danza dei panini. La scena è ancor più commovente per il fatto che egli la immagina soltanto, sognando di rappresentare la danza per degli ospiti che non verranno mai. Questa sequenza della cena è uno dei momenti più alti che si siano raggiunti nell'arte cinematografica, e sta alla pari con altre celebri scene (così diverse ma pur così vive nel ricordo), come il ritorno e la cavalcata della tribù in La nascita di una nazione; la scena più intima di Giglio infranto; la straordinaria fuga di Douglas Fairbanks in Il segno di Zorro; il sogno del facchino in L'ultima risata; il viaggio verso il fronte in La grande parata; la sequenza della scrematrice in La linea generale; il balletto delle monete in A me la libertà!; la scena nella fossa del proiettile di cannone in Niente di nuovo sul fronte occidentale; la scena del "Titanic" in Cavalcata; la fucilazione di Frankie in Il traditore; l'attacco degli indiani in Ombre rosse; ecc.
Nella tensione quasi parossistica della scena della capanna per metà sospesa nel vuoto, si nota una certa influenza di Harold Lloyd, il quale aveva iniziato nelle comiche, con Preferisco l'ascensore e con altri film sui grattacieli, la moda delle sequenze emozionanti. Questa scena del film di Chaplin è il primo esempio che troviamo nella sua opera di simili effetti, ma il tocco inconfondibile del nostro regista ha reso molto personale quella scena anche se imitata. Il finale lieto, che in un certo senso contrasta con l'atmosfera del resto del film, potrebbe essere stato ispirato dalla chiusa di L'ultima risata di Murnau, che esercitava allora la sua influenza su tutta la produzione cinematografica del mondo.
Alcuni critici dissero, a quel tempo, che La febbre dell'oro era qua e là troppo lento e troppo serio in confronto all'umorismo vivace dei film precedenti. È strano, tuttavia, che con il passare degli anni, ogni nuovo film di Chaplin sia apparso più serio e meno divertente di quelli che erano venuti prima, fino al giorno in cui fu proiettato di nuovo. Quando La febbre dell'oro fu ripreso, nel 1942, con musiche di Chaplin e con un commento che egli stesso incise, ottenne un altro grande successo e conquistò una nuova generazione di entusiasti, dimostrando così di essere un capolavoro senza età. Quasi nulla è stato tagliato a questa ultima edizione, tranne le didascalie. Nel suo commento Chaplin si riferiva al personaggio chiamandolo "l'ometto". Gli effetti musicali contribuirono molto a mettere in risalto il valore e la bellezza del film. Il pranzo a base di scarpe bollite viene consumato al suono di una tipica musichetta da ristorante e la danza dei panini è eseguita al ritmo di un ballabile in perfetta sincronia.
Theodore Huff, Charlie Chaplin, Fratelli Bocca Editori, Milano 1955

 


In La febbre dell'oro, Chaplin ritrova letteralmente se stesso, cioè il suo abituale personaggio, ma approfondendolo e giungendo a nuovi livelli di forza creativa. La critica sociale di The Gold Rush non è così esplicita come in Shoulder Arms. È un film meno satirico, più sottile, sfiorato dal pessimismo che vela A Woman of Paris. In The Gold Rush Chaplin accetta il pessimismo sorridendo eroicamente e porgendo il suo ironico saluto alla follia competitiva degli anni venti.
Talvolta, nei momenti più intensi di The Gold Rush affiora una nuova nota di durezza. Quando Chaplin si cucina e mangia le scarpe, separando con cura meticolosa le suole dalla tomaia e ravvolgendo i lacci come fossero spaghetti, ogni dettaglio della scena suggerisce il contrasto tra l'assurdità dell'azione e la realtà della fame. La capanna che ondeggia pericolosamente sull'orlo del dirupo, e sta per cadere, è un simbolo di incombenti disastri.
Le avventure del vagabondo sono una sorta di parodia della carriera di Chaplin. Egli sogna una vita migliore, ma il sogno ha perso la semplicità di A Dog's Life. La disperata lotta per l'esistenza si identifica ora nella caccia all'oro. Il finale in cui si scopre che Charlot e il suo amico sono diventati milionari non è un facile rovesciamento delle premesse iniziali come in L'ultima risata. Nel film di Murnau l'epilogo capovolge il significato di tutto quello che lo precede. In The Gold Rush le scene finali dei ricchi ricercatori che tornano dall'Alaska su una nave, portano l'assurda logica della febbre dell'oro alla sua conclusione, che è ancora assurda e logica ad un tempo.
John Howard Lawson, L'immagine umana: Charlie Chaplin, da Id., Teoria e storia del cinema, Laterza, Bari 1966

 


Partendo da questo fatto di cronaca, Chaplin costruisce un film complesso, articolato su due linee narrative principali: le disavventure d'un cercatore d'oro; il rapporto fra questi e una giovane cantante-ballerina. La struttura dominante è ancora una volta la suspense, generata in ogni evento da una logica dell'equivoco che è matrice fondamentale e tradizionale del comico non solo chapliniano: la perdita della memoria di Big Jim; l'incontro con Georgia nel salone; la capanna in bilico sul baratro; lo scambio di Charlot con la gallina, ecc. Nelle sue diverse connotazioni l'equivoco si rivela come assenza di una causalità precisa nell'evolversi delle situazioni, come maschera di un rapporto reale tra i fatti: è un vero e proprio deus ex machina, il solo in grado di determinare il senso degli eventi. Chaplin ci fornisce così un ritratto dell'esistenza come di qualcosa di cui non si conoscono le regole, in cui tutto appare casuale; ma al tempo stesso in questo disordine egli rinviene e rivela le leggi dell'ordine nascosto, che sono il denaro anzitutto, poi l'impossibilità d'una fusione sociale tra gli uomini, ma anche, testardamente, la ricerca della felicità. Contro la logica dominante dell'equivoco, contro la mostruosità delle leggi - dichiarate o nascoste - che regolano la vita, il piccolo Charlot oppone questa ricerca con pervicacia anche se con timidezza. Non è lo Charlot scatenato e aggressivo di opere precedenti, si accontenta di reagire per difendersi; sogna, ma non si illude, né tenta di trasformare il sogno in realtà: aspetta tutt'al più che ciò accade per qualche capriccio del destino. Questo Charlot fatalista e quasi arrendevole non si stupisce poi tanto che Georgia non lo raggiunga la notte di Capodanno, la sua solitudine in fondo era scontata; lotta solo quando è in gioco direttamente la sua vita. Da questo atteggiamento insolitamente remissivo (che caratterizzerà in parte anche The Circus) nasce il doppio filo pathos-comico di quasi tutto il film (finale escluso): il macabro e il tragico dei fatti diventano l'occasione della trasfigurazione comica, ma questa a sua volta determina il restaurarsi del pathos in una forma nuova. Chaplin ricorre ad alcune situazioni disperate (il pranzo con la scarpa, la sequenza della gallina, la capanna in bilico) per ricavarne momenti altissima comicità, ma è proprio il comico a rovesciarsi e a rivelare la drammaticità dell'assunto: il pathos è reso infatti ancora più evidente, apertamente sottolineato, dal contrasto con il comico. La realtà è tragica, sembra dire Chaplin, e mostrarne il volto comico significa proprio rivelarne la tragicità.
The Gold Rush
è, nei modi moralisticamente indignati e umanitari tipici di Chaplin, un film sul Capitale e sulle profonde modificazioni che esso induce nei rapporti fra gli uomini. Tutto vi è alienato dalla presenza oscura del denaro, dalla frenesia onnipresente della corsa all'oro. A una domanda di Cocteau, anni dopo, Chaplin risponderà che egli è sempre stato triste perché è "diventato ricco recitando la parte del povero".
Giorgio Cremonini, Charlie Chaplin, Il Castoro, Milano 1977

 


"Dramma del destino", "commedia drammatica" (e più tardi, per Luci della città, "commedia romantica in pantomima"): si sa che Chaplin ama servirsi di queste designazioni a sottotitolo dei suoi film. Mai tanto bene come qui, per altro, la designazione corrisponde all'essenza della cosa designata. Il comico e il drammatico della Febbre dell'oro tendono per loro natura a fondersi. Benché l'intento creativo ultimo sia comico, il comico non si contiene più in se stesso, trapassa da sé - congiuntamente al definitivo trapasso della short-story in racconto lungo, in romanzo - nel dramma, o meglio nell'epopea drammatica. La febbre dell'oro si presenta come un dramma in piena regola già soltanto per la drammaticità del suo spunto d'avvio: la rievocazione delle vicende dei cercatori d'oro che, verso la fine del secolo scorso, tentarono di valicare il nevoso Chilkoot Pass del Klondike (Alaska), vicende commiste, nella finzione artistica, a quelle ben più tragiche della spedizione Donner di un cinquantennio prima, la quale, smarritasi tra i ghiacci della Sierra Nevada, dovette registrare anche episodi di cannibalismo. Con l'elevare a protagonista di nuovo un adventurer, un outsider sociale qualsiasi (medio, anonimo, insignificante) che non solo aspira a salire, ma realmente sale nella scala sociale, il film finisce per investire i problemi di fondo di una società capitalistica in espansione, come è quella americana degli anni venti, e del consolidarsi del potere della sua classe dirigente: gli stessi problemi, cioè, del ciclo del film che Chaplin verrà realizzando dagli anni trenta in poi, nel pieno della sua maturità.
Guido Oldrini, Il realismo di Chaplin, Laterza, Bari 1981

 


Il passaggio dai paesaggi reali alle scenografie di studio, legato alla sceneggiatura e agli imprevisti della produzione (fu necessario rifare in studio numerose sequenze inizialmente girate negli esterni) non causò il disagio che si poteva temere: Chaplin aggiunge al contrario un tocco autoparodico alla sua commedia che nasconde l'artificialità di certe scenografie. Dopo le viste grandiose del Chilkoot Pass, le centinaia di figuranti scalanti le cime nevose, e Charlot che si dondola su uno stretto sentiero lungo una parete rocciosa , o un bonario orso che li segue un momento, ci si diverte nel riconoscere una falesia di cartapesta. Ma nella scena seguente, Charlot, punto nero nella neve, discende pericolosamente un autentico pendio. La posta in gioco di quest'alternanza supera la parodia. Da ella, Chaplin ci fa entrare nel realismo specifico del film, dove la fedeltà documentaria (l'epopea del Klondike del 1896) affianca la verità palesata (quintessenziale) del desiderio e del bisogno.
Stilisticamente, c'è innanzitutto l'equilibrio della scala dei piani che richiama l'attenzione, così come il controllo nella ripresa ed il rinnovamento di figure vecchia maniera. Come questa variante di scenografia "angolo di muro": nella capanna di Hank, il muro di tronchi e l'inizio del letto a sinistra, la porta aperta sul paesaggio innevato a destra, riuniscono nello stesso campo due spazi antitetici, l'esterno e l'interno, l'intimità di un luogo chiuso e l'avventura di una prospettiva. Il tocco del cineasta appariva meglio ancora in certe composizioni dinamiche (le fanciulle che giocano nella neve) o plastiche (Charlot inquadrato dalle finestre gelate della capanna o del Monte Carlo), e nella numerose sequenze dove meraviglia l'intensità. Eccoli tre esempi, dove appaiono delle qualità diverse della scenografia, dell'inquadratura, del collocamento e dello spostamento degli attori.
Nella città dove è ritornato (piano grande d'insieme fisso di un incrocio di strada fangoso, o degli uomini e delle donne che badano alle loro occupazioni o oziano), Big Jim è sul punto di incrociare Charlot (che cerca poiché lui solo lo può aiutare a ritrovare la sua "montagna d'oro"), ma all'ultimo momento i due uomini fanno mezzo giro senza essersi visti e ciascuno riparte verso la sua solitudine. Mostrare l'ironia delle cose, e soprattutto nessuna rivelazione: questa è la lezione della Donna di Parigi.
[...] È con La febbre dell'oroche la sceneggiatura-montaggio di Chaplin trova la sua perfezione classica, da cui dipende strettamente la percezione dello spazio, la percezione dei personaggi e la logica delle gag. [...] Il film è così quasi totalmente privo di "falsi raccordi". Sembra che a questo punto della sua carriera, Chaplin abbia voluto darsi il tempo ed i mezzi per eliminare delle "scorie" di cui per quanto lo riguarda si preoccupa poco, ma che cominciavano a suscitare dei commenti critici a vantaggio della concorrenza (Lloyd e Keaton). Non rilevo in tutto il film che un unico errore "di sceneggiatura": quando danza con Georgia, Charlot tiene prima il suo bastone dritto. Poi improvvisamente, in un piano americano, lo vediamo al rovescio. È un bene che si trovi in questa posizione affinché Charlot possa aggrapparci i suoi pantaloni che cadono. Se fosse stata controllata fino in fondo, la gag avrebbe dovuto trovare una ragione a questo cambiamento introducendo una peripezia supplementare. Questa peripezia avrebbe potuto rendere la scena ancora più divertente; ma l'avrebbe allo stesso modo allungata, ciò rischiava di destabilizzare l'unico e qui molto fragile insieme di comico e di patetico. Senza dubbio quindi la decisione di Chaplin di ignorare il fatto fu la scelta giusta, conforme alla sua volontà risoluta di non perdere mai di vista quello che conta veramente.
[...] Il raccordo a 180° della crudele gag del "falso benvenuto" richiede, affinché la scena sia limpida, una precisione estrema nella posizione della macchina da presa e nel taglio delle inquadrature. La sua riuscita, ad ogni modo, non è dovuta soltanto alla chiarezza: quando Georgia, sorridente, mani tese, arriva di fronte a noi all'altezza di Charlot (inquadrato di spalle) e la camera passa dall'altro lato del saloon affinché la si veda sfiorare lo sciagurato prospettore senza vederlo e raggiungere un uomo dietro lui, la sceneggiatura, esprime per così dire la sorpresa in tempo reale, [...] ed eleva alla decima potenza la comicità straziante dell'errore. [...]
Tutte le forme di punteggiatura del cinema (iris, dissolvenza in apertura ed in chiusura, dissolvenza incrociata) sono funzionali ne La febbre dell'oro, ma senza che si esauriscano mai in una mera ricerca di effetti, hanno sempre lo stretto limite del loro uso classico (per esempio per introdurre un'ellissi temporale). La più originale delle dissolvenze incrociate del film è quella che trasforma Charlot in pollo agli occhi di Big Jim impazzito per la fame.
Francis Bordat, Chaplin Cinéaste, Éditions du Cerf, Paris 1998