Questione di sguardi

Strano il film lo è, in svariati modi. Anzitutto per ciò che David Lynch fa della paura. Quella dello spettatore (la nostra) e quella dei suoi personaggi, compreso John Merrick (l’uomo elefante). In tal senso, la prima parte del film fino al trasferimento all’ospedale funziona un po’ come una trappola. Lo spettatore si abitua all’idea di dover prima o poi sostenere l’insostenibile e guardare il mostro in faccia. […] E quando finalmente lo vedrà, sarà tanto più deluso in quanto Lynch finge allora di giocare al classico film dell’orrore: la notte, i corridoi deserti dell’ospedale, il crepuscolo, la fuga rapida delle nuvole sotto un cielo plumbeo e all’improvviso l’inquadratura di John Merrick seduto sul letto, in preda a un incubo. Lo vede – veramente – per la prima volta, ma vede anche che il mostro che dovrebbe fargli paura ha paura egli stesso. È a quel punto che Lynch libera il suo spettatore dalla trappola che gli ha teso all’inizio (la trappola del ‘c’è altro da vedere’), come a dirgli: non sei tu quello che conta, è lui, l’uomo elefante; non è la tua paura a interessarmi, è la sua; non è la tua paura di aver paura che voglio manipolare, è la sua paura di far paura, la paura che ha di vedersi nello sguardo altrui. La vertigine passa dall’altra parte. […] Nel corso del film John Merrick è oggetto di tre sguardi. Tre sguardi, tre epoche del cinema: burlesca, moderna, classica. O anche: il baraccone, l’ospedale, il teatro. C’è innanzitutto lo sguardo dal basso, quello del popolino, e lo sguardo (duro, preciso, brusco) di Lynch su questo sguardo. Ci sono sprazzi carnevaleschi, nella scena in cui Merrick viene ubriacato e sequestrato. Nello spettacolo da baraccone non c’è un’essenza umana da incarnare (nemmeno sotto le sembianze di un mostro), c’è solo un corpo da schernire. Poi c’è lo sguardo moderno, quello affascinato del medico, Treves (Anthony Hopkins, eccellente): rispetto dell’altro e cattiva coscienza, erotismo morboso ed epistemofilia. Occupandosi dell’uomo elefante Treves salva se stesso: è la battaglia propria dell’umanista (alla Kurosawa). C’è infine un terzo sguardo. Più l’uomo elefante è conosciuto e festeggiato, più coloro che gli fanno visita hanno il tempo di costruirsi una maschera, una maschera di cortesia che dissimula ciò che provano vedendolo. […] Il finale del film è molto commovente. A teatro, quando Merrick si alza nel suo palco perché coloro che lo applaudono possano vederlo meglio, non si sa più precisamente cosa c’è nel loro sguardo, non si sa più cosa vedono. Lynch è allora riuscito a riscattare – l’uno attraverso l’altra, dialetticamente – il mostro e la società. Ma solo a teatro, solo per una sera. Non ci saranno altre rappresentazioni.
(Serge Daney, “Cahiers du cinéma”, n. 322, aprile 1981)

 

  

The Elephant Man ricopre un ruolo non secondario nella ricerca cinematografica di Lynch, soprattutto per quanto riguarda l'indagine sul rapporto tra il corpo e gli sguardi. Mai come in questo film, infatti, Lynch mette in scena una costellazione di sguardi su un unico corpo, fino ad interrogarsi in profondità sulla genesi delle molteplici immagini di un'identità misteriosa e sfuggente (tanto quanto il suo corpo è eccedente e deforme) come quella di Joseph C. Merrick.
Innanzitutto il nome: quello vero dell'uomo elefante era Joseph Carey Merrick; nella sua autobiografia, sir Frederick Treves continua a chiamarlo John, probabilmente perché il medico londinese ha inteso male il nome dell'uomo la prima volta che questi si è presentato, viste le difficoltà di parola di cui soffriva a causa delle sue deformazioni facciali. Né Treves né Lynch si preoccupano di ristabilire il vero nome dell'uomo o di fare accenno all'equivoco; né lo stesso Merrick corregge mai l'errore del dottore nella vita come nel film. L'identità dell'uomo è di fatto donata dall'esterno insieme al nome; l'eccesso del suo corpo, la sua alterità, la sua anormalità lo consegnano immediatamente al giudizio altrui che ne decide, anche se accidentalmente, finanche il nome: la sua vita è determinata dall'altro da sé, dipende e si modifica in relazione alla qualità e alla quantità di sguardi che si producono intorno a lui. Tanto che il film stesso sembra più vertere intorno agli sguardi sull'uomo elefante che sulla sua identità. […]
La centralità dello sguardo è rimarcata in modo quasi ossessivo da Lynch nel corso di tutto il film. Più di una volta assistiamo a cambi di sequenza annunciati da una dissolvenza a nero sul primo piano di un volto che guarda l'uomo elefante. Spesso quei volti esprimono raccapriccio, orrore disgusto, cupidigia, sorpresa, imbarazzo, pietà. Ancora più spesso, quei volti sono solcati da lacrime. Sempre, a quegli sguardi seguono azioni diverse sì, ma tutte dirette contro o verso l'uomo elefante.
Il cinema come dispositivo ottico e lo sguardo come giudizio etico: intorno a questi due elementi ruota tutto The Elephant Man e l'esistenza stessa di John Merrick, che non cessa neppure per un attimo di essere spettacolo, di essere modellata secondo le regole di diverse forme di messa in scena.
(Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco-Genova 2004)

 

 

Nella scelta dell'argomento – l'orrore e la curiosità suscitati da un uomo deforme nell'Inghilterra vittoriana – Lynch apparentemente opta per un approccio tradizionale al tema, che pone al centro del palcoscenico un'alterità fisica, mostruosa e immediatamente percepibile come tale. Tuttavia la convenzionalità della premessa serve soltanto a ribaltare le logiche narrative che le sono conseguenti. Dunque nel film questa mostruosità non genera conflitti e opposizioni violente, come avviene ad esempio nell'horror, né forme di solidarietà e comprensione, come avviene, per contro, nel cinema che vede nel tema l'opportunità di innescare parabole sulla tolleranza. Questo perché la figura (realmente esistita) di John Merrick, a dispetto del titolo, non costituisce il fulcro del film, se non sotto forma di reagente, ovvero di personaggio in grado, con la sua sola e stessa esistenza, di evidenziare certe caratteristiche dell'ambiente sociale circostante. In breve, Merrick è uno specchio, tanto che a contare davvero, sul piano drammaturgico, sono gli individui che vi si riflettono. [...] Tuttavia, gli sguardi di cui è oggetto Merrick, più che designarne l'eccezionalità, riflettono – come si conviene ad uno specchio – la natura e il carattere degli osservatori. […]
La luce diurna illumina una platea di aristocratici e nobili che si compiacciono della propria benevolenza nei confronti del diverso, la cui mostruosità riflette il loro desiderio di apparire generosi e privi di pregiudizi. Le ombre della notte invece tratteggiano in chiaroscuro un universo popolato da malfattori e ubriaconi che si specchiano in Merrick per avere conferma della propria marginalità sociale. […] In entrambi i casi, nello scenario diurno come in quello notturno, la figura di Merrick, in ragione della sua stessa mostruosità, amplifica identità sociali rispetto alle quali egli finisce per fare da detonatore, innescando comportamenti estremi e paradossali, ma anche assolutamente complementari gli uni agli altri. […]
The Elephant Man dunque, a dispetto del protagonista, non è un film sulla diversità, né sull'alterità, quanto sulla sua necessità per l'identità di chi vi sta intorno, volto inevitabilmente a strumentalizzarla per certificare e corroborare la propria.
(Leonardo Gandini, Identità e alterità nel cinema di David Lynch, in David Lynch: mondi intermediali, a cura di Nicola Dusi e Cinzia Bianchi, Franco Angeli, Milano 2019)