Lynch Style: corpi, volti, immagini, suoni

The Elephant Man è uno di quei film nella carriera di Lynch – l'altro sarà Una storia vera – che funzionano ‘per contrasto’, nei quali, cioè, troviamo tutti i materiali cari al regista disposti in maniera diversa e tesi all'ottenimento di diverse reazioni da parte del pubblico. Non meno ancestrale e traumatico di Eraserhead, The Elephant Man si ‘nasconde’ dietro il film di malattia anni Ottanta per costruire una nuova riflessione sul visibile e sull'orrore. Questa volta, però, l’ossessione è, per così dire, tematizzata. Merrick è il figlio degenere di un processo biologico andato storto e si trova a vivere in una società, quella vittoriana, percorsa da mostri viventi e freaks circensi. Il terrore che procura, al solo sguardo, è l'oggetto del film, poi sapientemente caricato di messaggi pedagogici che suonano in nome della tolleranza e del rispetto del diverso. Non è questa, chiaramente, la prima preoccupazione di Lynch, che infatti agisce anche sulla grammatica (neo)classica del cinema allo scopo di rafforzare le sensazioni che Merrick è destinato a scatenare. E ciò avviene non tanto durante la ‘scoperta’ del mostro (che terrorizza la cameriera al punto di farla gridare e svenire), quanto durante la sua ipocrita accettazione da parte dei salotti buoni. In questo caso, Lynch offre una serie sconvolgente di campi/controcampi destinati a svelare il paradosso di questa normalizzazione: isolando i primi piani di Merrick e dell'interlocutore, ogni volta che la mdp ripassa su Merrick lo spettatore percepisce ciò che non funziona in questo mostro trasformato in baronetto. La trasformazione del caso umano e dunque non il frutto di una tolleranza reale ma di una forzata trasformazione dello stesso in improbabile gentiluomo. Lo shock di massa e il mostro in salotto, e il bianco/nero sparato e pieno di contrasti scelto da Lynch e da Frederick Elmes porta ancora una volta a immagini surreali, per cui la distanza tra i PP di Jack Nance con i capelli dritti nel film precedente e quelli di Merrick qui si assottiglia più di quanto non si creda.
(Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002)

 

 

The Elephant Man è un film di ‘timing’, di respiro. L'effetto patetico è mantenuto strutturando il racconto in numerose sequenze brevi, chiuse da dissolvenze al nero che arrivano spesso nel mezzo di una situazione lasciandola in una suspense piena d'interrogativi. […]
Come risulta da numerose testimonianze e dalla nostra esperienza personale, Elephant Man è uno fra i più efficaci ‘tear-jekers’, come dicono gli americani, cioè strappalacrime, mai realizzato dopo l'invenzione del cinema, e questo non è dovuto tanto al ricorso a facili mezzucci, ma al fatto che Lynch e i suoi attori hanno saputo lavorare al corpo con determinati ritmi, sguardi e accenti della voce che richiamano la crudele dolcezza dell'infanzia.
Fin dalla prima immagine dopo i titoli di testa, due occhi femminili ci trafiggono il cuore. E in realtà, Elephant Man è un film di volti fin nell'oggetto della sua suspense: è il viso dell'uomo-elefante che siamo ansiosi di vedere, ed è nei suoi occhi che siamo impazienti di leggere qualcosa. Molte sequenze del film chiudono su un volto interrogativo, sbalordito, alterato, e, grazie alle frequenti riprese dal basso, lo spettatore si trasforma allora in un bambino sospeso ai volti che per lui rappresentano ogni potere e ogni sapere, e la cui tensione lo tocca direttamente. Questi volti sono ritratti sui quali il fotografo ha colto un'alterazione che ci fa fremere. A causa dello stesso soggetto, nel film vi sono molti ‘volti di reazione’ allo spettacolo di Merrick: sperduti, eccitati, accesi e perfino rapiti da un fascino stupefatto.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

 

 

Lynch fa ancora una volta un uso ‘aberrante’ di alcune tecniche cinematografiche consuete come, ad esempio, le dissolvenze in nero, che in questo film sono numerose e sempre poste in momenti ‘strategici’, come al termine di scene particolarmente commoventi, e allora la dissolvenza sembra quasi invitare lo spettatore al pianto, o in chiusura di sequenze che richiedono una sorta di risposta da parte di chi guarda.
Il film possiede una struttura circolare, come del resto Velluto blu e in un certo senso, Eraserhead: il prologo e l’epilogo sono percorsi dallo stesso ‘respiro’ cosmico. Elephant Man si apre e si chiude sul primo piano degli occhi della madre di John Merrick, quegli occhi ai quali l’uomo non si dà pace di essere apparso così sgradevole e per i quali deve essere stato, secondo le sue stesse parole, “una grande delusione”.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)

 

 

Tutti quelli che badano solo alle apparenze, come fanno i personaggi del film, obietteranno che un attore con il capo ricoperto da diversi strati di plastica scolpita, due fori per gli occhi e un altro per la bocca, appartiene più alla categoria degli effetti speciali che non a quella dei candidati all'Oscar. Ma questo significherebbe dimenticare lo strumento fondamentale dell'attore nel cinema sonoro: la voce. Senza trucchi tecnici, John Hurt offre a Merrick una straordinaria voce in falsetto che, in una trama dove l'insolito dà un notevole contributo al film, combina l'articolazione laboriosa dell'handicappato motorio, le intonazioni lamentose del bambino piagnucoloso e, verso la fine, quando l'uomo-elefante diventa mondano, il birignao della ‘high society’. Con una naturalezza e un ritmo gestuale davvero impressionanti.
Anthony Hopkins è un Treves di tutto rispetto, sufficientemente semplice e trasparente da servire come polo neutrale per l'identificazione dello spettatore. […] Freddie Jones – attore che Fellini userà subito dopo per il ruolo di un altro narratore-imbonitore in E la nave va... – è un Bytes epico, un personaggio alla Micawber: e il modo in cui si regge in piedi da ubriacone è grandioso.
Questi tre personaggi hanno un punto in comune: si agitano tutti senza muoversi. Merrick trema per il terrore che provocano in lui il suo padrone o il guardiano; Treves freme di curiosità morbosa e d'interesse giovanile; Bytes perché alcolizzato e nervoso. Questa agitazione intensa e compressa, evidenziata dalla semplicità rigorosa dell'inquadratura e dal ritmo ineluttabile della sceneggiatura dà al film un ‘Lynch touch’ molto più riconoscibile qui che in Eraserhead: quell'arte particolare di filmare con grande intensità qualcuno che sta lì, immobile.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)

 

 

Spesso si dimentica che un film è fatto al 50% di suoni. Dai tempi di Grandmother lavoro sempre con lo stesso tecnico, Alan Splet. Insieme, attraverso i suoni, riusciamo a conferire un aspetto di realtà a situazioni irreali, e viceversa.
(David Lynch)

 

 

Nei titoli di testa di Elephant Man compare anche il nome di Alan Splet, curatore del ‘sound design’. Servendosi dei dettagli decorativi sopracitati, Lynch e Splet, pur con meno margini di fantasia che in Eraserhead, riescono a introdurre in alcuni momenti battiti sordi, sibili e fischi di vapore, e persino suoni eolici, soavi, di natura cosmica, suggeriti all'orecchio dello spettatore, come già in Eraserhead, dal taglio in sincrono con il cambiamento d'inquadratura (la notte che scende nella sala dell'ospedale).
Alcune scene, anche se l'ambiente di per sé non rinvia a suoni del genere, evocano un mormorio cosmico e astratto, ma dal tono sempre preciso, un tono propriamente lynchiano che crea intimità, una voce del mondo che parla all'orecchio degli spettatori: come nella scena in cui Treves esce dall'ospedale per recarsi allo spettacolo dell'uomo-elefante o quando, non riuscendo a dormire, si interroga sulla sua moralità con gli occhi sbarrati nel buio.
Un altro effetto sonoro caratteristico del film deriva dall'insistenza sul respiro difficile, asmatico e terrorizzato di John Merrick, prima ancora di vedere i suoi lineamenti sotto il cappuccio. Come se esistesse un continuum fra la sensazione di questa macchina corporea, consunta e sofferente, provocata principalmente dal canale sonoro, e le evocazioni industriali del film.
La bella colonna sonora di John Morris sottolinea infine il carattere melodrammatico del film, basata com'è quasi esclusivamente su temi in tre tempi, che evocano più la vertigine immobile che lo spostamento ed esprimono quindi un'idea di fatalità. Un valzer dolce e straziante come un lamento (il tema dell'uomo-elefante), un valzer prorompente e meccanico di organetto durante la fiera, uno scherzo implacabile alla Mahler (John Merrick martirizzato dai suoi visitatori notturni) e infine un valzer viennese sontuoso e impettito per la rappresentazione della pantomima. Si riconoscono anche accenti alla Nino Rota nel controcanto del tema sui titoli – una caduta cromatica incessante, attratta irresistibilmente verso il basso – che rendono omaggio all'amore di Lynch per Fellini e a La strada (la storia, come in Elephant Man, del calvario di una creatura fiduciosa e disarmata).
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)