David Lynch, opus n. 2

Un James Stewart venuto da Marte
(David Lynch secondo Mel Brooks)

 

Nonostante Eraserhead avesse annunciato il sopraggiungere di un talento straordinario e originale, erano tutt’altro che scontate le modalità secondo cui a quest’ultimo sarebbe stato consentito di sviluppare o di rintracciare il proprio ruolo in un’industria cinematografica americana notoriamente conservatrice, finanche a livello indipendente. Presumibilmente The Elephant Man impedì a Lynch di trascorrere i successivi cinque anni nel tentativo di dar vita a un’altra delle sue allucinazioni totalmente personali e a basso costo.
(Chris Rodley, in David Lynch, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016)

 

“Non so cosa sarebbe successo se avessi proseguito con film come Eraserhead. Forse non avrei potuto continuare a fare cinema”. Effettivamente ce lo si chiede. Ma il destino ha dato una risposta a questo quesito e, comunque, non sembra che Lynch avesse intenzione di rivivere quell'avventura: si preparava a continuare a fare film in condizioni meno ‘estreme’, in altre parole, a diventare un regista.
E ci riesce, senza dover aspettare dieci anni, grazie a un angelo custode chiamato Stuart Cornfeld, un produttore esecutivo. Cornfeld aveva visto il film a Los Angeles e se ne era innamorato. Così telefonò a Lynch per dirgli che trovava il film straordinario. Questa conversazione segnava l'inizio di un'amicizia e Cornfeld cominciò ad aiutare Lynch a fare altri film. […]
Il produttore Jonathan Sanger acquista i diritti della sceneggiatura di Elephant Man, scritta da Chris De Vore e Eric Bregren, la sottopone a Stuart Cornfeld che propone Lynch come regista. Il personaggio sorprende Sanger, già affascinato dalla maturità cinematografica di Eraserhead. Chiede di vedere The Grandmother e capisce che non si tratta di un episodio isolato.
All'epoca si parlava molto di Elephant Man, la pièce teatrale di Bernard Pomerance interpretata da David Bowie e ispirata a una storia vera: la vita di John Merrick, l'uomo-elefante, un mostro che viene sfruttato prima di finire in un ospedale. […]
Dopo molti rifiuti, il copione trova la sua strada grazie a Mel Brooks. Cornfeld era produttore associato di La pazza storia del mondo, il più costoso della serie di parodie in cui era specializzato Mel Brooks.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)



Stuart fece avere a Anne Bancroft la sceneggiatura di Chris De Vore ed Eric Bergren. Anne la apprezzò molto e la passò a Mel Brooks: stesso risultato. Quindi la prima conseguenza fu che Mel decise di produrre The Elephant Man come film d’esordio della sua nuova compagnia, la Brooksfilms; e la seconda fu che lo stesso Mel disse: “Okay, Stuart: tu, Jonathan, Chris ed Eric siete della partita, ma chi è mai questo David Lynch?”.
Così gli raccontarono di Eraserhead; Mel ne aveva sentito parlare quando era in cartellone, ma non l’aveva mai visto. Perciò organizzarono una proiezione, il che mi terrorizzava: le possibilità che io dirigessi quel film erano... zero […]. Decisi di aspettare fuori dal cinema. Non rammento nulla fuorché le porte che si aprono e Jonathan che esce dalla sala; non è che sembrasse morto o roba simile, ma sul suo viso cera un’espressione che ricordava quella dei giurati del processo a O.J. Simpson: del tutto imperscrutabile. Ma ecco che Mel allunga il passo e viene quasi di corsa verso di me a braccia aperte, mi abbraccia e mi dice: “Sei un pazzo, ma mi piaci! Sei dei nostri”.
Dopodiché, a mo’ di ciliegina sulla torta, attaccò a parlare di Eraserhead. Be’, io conoscevo Mel solamente come comico, ma devo dire che è una persona assolutamente sorprendente, acuta e sensibile. Durante tutto il periodo di produzione di The Elephant Man era perfettamente al corrente di come andavano le cose sul set; non solo mi ha dato la mia grande occasione, ma mi ha sostenuto come nessuno ha mai più fatto da allora in poi.
(David Lynch, Io vedo me stesso, a cura di Chris Rodley, Il Saggiatore, Milano 2016)

 


Nonostante il materiale fosse piuttosto scarso, la sceneggiatura riesce a mantenere una progressione drammatica, facendo coincidere con il giorno i miglioramenti nella sorte di Merrick e con la notte il degrado della sua vita (l'idea di creare questi mondi paralleli sembra dovuta a Lynch). Si inventa anche l'episodio in cui Bytes, il proprietario, rimette le mani su Merrick quando egli credeva ormai di essere sfuggito alla propria condizione di mostro. Infine si riesce a tendere due elementi di mistero fino al limite del possibile per tenere lo spettatore col fiato sospeso: in primo luogo la rivelazione della fisionomia di Merrick, che il dottore scopre quasi all'inizio, ma che lo spettatore vedrà soltanto dopo quaranta minuti di film (attraverso lo sguardo di un'infermiera). E, in secondo luogo, il momento in cui Merrick prende la parola, con la rivelazione che non si tratta di un povero di spirito, ma di un uomo intelligente e terrorizzato.
Se sulla carta, in astratto, potrebbe esserci a questo punto una sorta di forzatura degli effetti, sullo schermo, grazie allo stile particolare di Lynch, la drammatizzazione solenne di questa doppia rivelazione – del corpo e della voce – diventa un rituale sconvolgente. […]
La sceneggiatura è dunque strutturata molto classicamente in tre atti: la scoperta dell'uomo-elefante; la permanenza in ospedale e la graduale ammissione, non priva di ambiguità, in una società, come spiega Serge Daney, avida di guardarsi nei suoi occhi; e infine, dopo l'ultimo calvario, la fine e la sua morte. Questa via crucis è segnata da tre circostanze nelle quali gli si chiede di alzarsi: la prima in veste di mostro ai baracconi, poi come caso clinico in un anfiteatro di medicina, e infine a teatro per essere acclamato. L'ultima è la più inquietante, perché nessuno sa esattamente che cosa sta applaudendo!
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)




La sceneggiatura di Chris ed Eric era ottima, ma era così fedele alla vicenda reale che dopo un inizio in crescendo finiva inesorabilmente per appiattirsi. La ristrutturammo da cima a fondo e aggiungemmo parecchie scene nuove; per esempio, il prologo e l’epilogo non erano previsti dallo script originale. Imparai moltissimo da quel lavoro, poiché non avevo mai fatto nulla di simile prima. […] Inoltre anche Mel ha partecipato parecchio alla sceneggiatura: per esempio circa il ruolo del portiere di notte... Pensava che lì la sceneggiatura non fosse abbastanza forte: una di quelle osservazioni che non solo giudichi giuste, ma ti autorizzano a intervenire dove in precedenza non eri stato in grado di estrarre tensione sufficiente da una situazione. Pertanto Mel avanzò una serie di considerazioni azzeccatissime, che ci furono molto utili.
(David Lynch, Io vedo me stesso, a cura di Chris Rodley, Il Saggiatore, Milano 2016)




Lynch non riusciva ad immaginare un film come questo se non in bianco e nero, ma temeva che Mel Brooks potesse opporsi ad un simile progetto. Il produttore, invece, accettò con entusiasmò. Il regista partì allora alla volta dell’Inghilterra, luogo delle riprese del film. […] La direzione della fotografia è affidata a Freddie Francis il quale, oltre a essere uno dei migliori operatori britannici, aveva diretto anni addietro alcuni horror di ottima levatura per la ‘famigerata’ Hammer Film. A lui si deve il bellissimo bianco e nero che si imprime nella memoria soprattutto per le ricorrenti immagini di macchinari che emettono fumo bianco e sbuffi di vapore. Per quanto attiene agli interpreti, Lynch, che in Eraserhead aveva fatto recitare soprattutto amici e conoscenti, si trova a dirigere attori della levatura di Anthony Hopkins, che interpreta il ruolo del dottor Treves, di John Hurt, superbo interprete dei tormenti di Merrick nonostante il pesante trucco lo renda davvero irriconoscibile, di Anne Bancroft e di sir John Gielgud. Lynch si misura inoltre per la prima volta con il grande formato, essendo Elephant Man girato in Panavision.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)




La scelta del grande schermo è più inaspettata, da parte di un regista che lavora per la prima volta all’interno di uno studio in condizioni normali […]. Il ‘cinemascope’ gli serve non tanto per riempire l'immagine di dettagli decorativi quanto per aumentare il vuoto intorno ai personaggi, la zona ‘inattiva’ dell'immagine, e per creare un tempo spaziale.
(Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000)




La prima di The Elephant Man ha luogo a New York nell’ottobre del 1980. A tutt’oggi questo resta il maggior successo di pubblico di Lynch, gli varrà diverse nomination all’Oscar, tra cui quelle per il miglior film e la miglior regia, ma non gli varrà nemmeno una statuetta […]. La scommessa di Mel Brooks di affidare la regia di un film commerciale ad un cineasta che molti vedevano come un giovane di talento destinato a rimanere nell’ambito del cinema underground e sperimentale, si rivela vincente. Pur trattando un materiale preesistente, Lynch si rivela capace di ‘rispettare’ il testo, piegandosi alle esigenze commerciali senza troppe ritrosie, pur non rinunciando ad immettere nell’opera elementi decisamente personali.
(Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 1993)