Antologia critica

Il primo mostro è – o sembra essere – il regista, David Lynch. Due teste: Eraserhead e Elephant Man. Così diverse l'una dall'altra, si dice in giro. E invece fino a oggi (privilegio e condanna del vivere e scrivere in quest'attimo) i due film formano un campo meravigliosamente organizzato e coltivato e integrato, percorso da scambi (evidenti, o nascosti come il flusso di certe acque) che ne fanno un unico corpo ma soprattutto un'unica testa girevole, evidentemente a due facce (che si nutrono dello stesso cervello).
Dal titolo, la bifrontalità e il gioco degli scambi dilagano e si riverberano sui diversi piani, i due film sembrano attivarsi a vicenda. Elephant Man è un'opera fortemente cancellata, mentre Eraserhead (distribuito in Italia col titolo La mente che cancella) mostra con molta evidenza le mostruosità dei corpi, in una flagranza vicinissima al titolo del film successivo. Eraserhead domina dal 1977 (insieme con Rocky Horror Picture Show) il circuito americano dei ‘cult-movies’ di mezzanotte, Elephant Man è uno dei più grossi successi del 1980. […] Due situazioni produttive diverse (tra l'altro, con un trattamento inversamente proporzionale del mostrato rispetto alla disponibilità economica della produzione). La sperimentazione di due moduli opposti ma con risultati ugualmente padroneggiati; anzi, finalizzandoli entrambi a una medesima possibilità di controllo. Così, se Eraserhead è una ‘creatura’ di cui Lynch rinvia senza impazienza la venuta alla luce, è per poter disporre liberamente del tempo (e, nel tempo, del denaro) […], in Elephant Man la precisione è ottenuta mediante il capitale che permette di concentrare il tempo di un'accanita lavorazione in studio. Il tempo è una nozione chiave per il lavoro di Lynch, anche se i suoi film sembrano poi prescindere completamente da esso, uscirne. Del resto, i mostri non si evolvono. Per definizione, si pongono fuori dalla linea generazionale evolutiva. Sono apparizioni accecanti e attraenti, ma senza precedente e senza successori, invito a ogni stordimento sbigottito, o divertimento sadico di spettatori, o orrore analitico di chi interpreta. Il Lynch-mostro arriva nel cinema senza una cultura cinematografica, senza filiazioni o referenti diretti, forse quasi con una certa ignoranza di esempi che non siano quelli canonici. Lynch dice di amare Fellini, Bergman, Tati, Kubrick, Wilder. Omaggi al ‘cinema d'autore’, certo, ma anche predilezione per i film centrati su personaggi e situazioni anomale e abnormi. […] Ma non è neanche cinema d'autore tipico quello di Lynch. Lynch non filma; costruisce un film, lo compone.
[…] Elephant Man si pone sotto il segno dell'ambizione cosmica, agitando e mostrando prima di tutto proprio lo spettro della generazione e della pro-creazione fantastica, il formarsi nel vuoto oscuro di un biancore che diventa forma, sostanza, incubo, elefante, gomma, materia qualsiasi.
Tutto il cinema di Lynch, in Elephant Man in modo più semplificato e paradigmatico essenziale, in Eraserhead più polifonicamente e complessivamente, è il sorgere di forme che si scontrano, si spezzano, si suddividono, ne procreano altre, senza problemi quanto alla materia, sia essa carne o gomma.
(Enrico Ghezzi, "Scena", n. 1, 1982)

 

 

È un film bello, inquietante, disturbante. The Elephant Man usa alcuni espedienti dell’horror, come musiche sinistre, stacchi improvvisi, accenni a minacce incombenti, ma è un horror innocuo, uno di quelli in cui la ‘creatura’ è perseguitata non il persecutore. […] Quello che alla fine possiamo scorgere dietro la facciata non è “la riflessione sulla dignità” di cui ha scritto Ashley Montagu, ma qualcosa di ancor più toccante, una riflessione sulla finezza che in qualche modo reprime ogni rabbia. Questa è la qualità che illumina il film e lo rende ancora più interessante del semplice ritratto di un freak dignitoso. Per tutto il film si desidera l’arrivo di uno scoppio d’ira. E il fatto che non arrivi mai è tremendo. L’accettazione del valore dell’altro da parte di John Merrick è un’ispirazione.
(Vincent Canby, “The New York Times”, 3 ottobre 1980)

 

 

Rispetto a Eraserhead, The Elephant Man (1980) costituisce un cambiamento di scala alquanto sorprendente. Lynch passa da un'opera quasi sperimentale, dominata da un'originalità radicale e spesso disturbante, a un film di stampo hollywoodiano, con un budget abbastanza confortante e una narrazione nettamente più classica. Eppure il cineasta riesce comunque a cavarsela brillantemente, rivelando un'altra sfaccettatura della sua personalità, e cioè il gusto per il melodramma e la capacità di commuovere lo spettatore senza per questo tradire gli elementi che stanno alla base della sua originalità. Ciò che colpisce nella storia di questo "uomo-elefante", creatura ibrida che cerca di riconquistare la sua parte di umanità, sono in primo luogo, come in Eraserhead e nella maggior parte dei film di Lynch, le atmosfere, gli stati d'animo, l'ambientazione. Un bianco e nero tutto giocato sui contrasti e piuttosto metallico, esaltato dal tocco del grande direttore della fotografia inglese (e in qualche circostanza regista) Freddie Francis, l'influenza gotica dei film della Hammer – la società di produzione inglese che negli anni '50 rivoluzionò l'estetica del cinema dell'orrore –, il clima della rivoluzione industriale con le officine, le ciminiere fumanti, le foschie, il carbone, di cui John Merrick, l'uomo-elefante, rappresenta l'impensato, il rimosso, la parte maledetta e sotterranea, senza dimenticare l'atmosfera vittoriana, ricreata con estrema precisione: tutto contribuisce ad ancorare The Elephant Man nella storia della città e delle forme, senza che David Lynch perda in questo contesto la sua libertà creativa.
(Thierry Jousse, David Lynch, Cahiers du cinéma, 2010)

  

 

Per nostra buona sorte, Lynch non è né un melenso predicatore né un moralista in vena di contestazione storica. Alle prese con una materia molto ricca di spunti critici, sull'ipocrisia, la bestialità delle plebi, i pregiudizi, lo snobismo dei filantropi, la speculazione degli scienziati la santità dei reietti e via sociologizzando, egli si muove soprattutto come uomo di cinema, correggendo l'indignazione con un filo d'ironia e dando al racconto un'andatura spesso affascinante. Contrariamente a quanto si può sospettare, non c'è niente di crudele in questa storia, nel contempo tristissima e tenera. C'è un civilissimo calore, molto affetto per i martiri incolpevoli e un gusto dell'eccentrico che non sconfina mai nel terrorizzante. C'è più Dickens che l'eco di Freaks, il classico film sui mostri di Browning. E ci sono attori di buona stoffa inglese. Mentre John Hurt merita ogni plauso per l'umiltà con cui ha accettato un trucco che lo deturpa e la misura con cui si trasforma da fenomeno di luna-park in vanitoso uomo, di mondo, il dottor Treves ha trovato in Anthony Hopkins un medico d'epoca quasi perfetto. Anne Bancroft è l'attrice che si lascia baciare senza disgusto e il presidente dell'ospedale è John Gielgud. E c'è un antidoto contro il pericolo di commuoversi: ricordarsi che da dietro le quinte spunta, produttore, Mel Brooks.
(Giovanni Grazzini, “Il Corriere della Sera”)

 

 

Non avevo più rivisto il secondo lungometraggio di David Lynch, The Elephant Man, dai tempi della sua prima uscita, nel 1980; vedendolo di nuovo, con l'aggiunta di tre decenni di estatici ricordi, sono rimasto sorpreso. Quello che ancora resta forte e puntuale è la rappresentazione che Lynch fa di una storia ai margini dell'inconscio, di una visione che ossessiona non solo il senso morale, ma suscita anche i presentimenti, le paure e le simpatie più oscure e primordiali. Ciò che mi ha sorpreso nell'approccio di Lynch alla storia del terribilmente sfigurato John Merrick è stata la fusione di una dialettica politica e visiva. La potente rappresentazione che Lynch fa di Merrick (interpretato da John Hurt) sposta lo spettatore dalla repulsione e dalla paura verso l'empatia e la tenerezza.
(Richard Brody, “The New Yorker”, 6 febbraio 2013)