Oui, je suis cinéphile

Oui, je suis cinéphile

È ovvio che puoi utilizzare tutto quello che vuoi dei miei film.
E ricordati, non ci sono diritti d’autore, solo doveri!
Jean-Luc Godard
in risposta alla richiesta di Bertolucci di utilizzare immagini di
Fino all’ultimo respiro e di Bande à part in The Dreamers


ADAIR: Questa ribellione contro il Padre, con tutta l’intransigenza che porta con sé, la ritroviamo poi nella vera e propria macchina da guerra lanciata dalla nouvelle vague contro il ‘cinema di papà’.
BERTOLUCCI: Si faceva sempre una distinzione accurata tra vari tipi di Padri, però. Né Truffaut, né Godard, né Varda, né Resnais si sono mai sognati di detronizzare gente come Renoir o Ford o Rossellini. Anzi, questi erano i nostri idoli, li veneravamo letteralmente.
ADAIR: Certo, c’era pure I 400 colpi, c'era Hiroshima mon amour o Cleo dalle 5 alle 7, ma credo sia stato Fino all’ultimo respiro a scatenare tutto. Nel 1960, io ero un cinéphile di soli quindici anni e mi ero abbonato ai “Cahiers du cinéma”: si scriveva di Renoir e di Rossellini in ogni numero, ma anche di Hawks, Lang, Huston, Hitchcock, Mizoguchi. E anche se non avevo ancora visto un solo film di Ophuls, sapevo benissimo chi era e cosa aveva fatto grazie alla lettura dei “Cahiers”. Il cinema che amavo era legato anzitutto agli autori, anzi agli auteur del passato; poi, con la nouvelle vague, sono arrivati di colpo dei giovani che hanno preso il loro posto. Per me questo ha segnato la fine del cinema percepito come un fenomeno esclusivamente nostalgico, per passare a un cinema appartenente alla mia generazione.
Gilbert Adair e Bernardo Bertolucci, Quegli anni Sessanta… e quella nouvelle vague, in Sognando The Dreamers, a cura di Fabien S. Gerard, Ubulibri, Milano 2003


Seconda fila estrema sinistra, contatto laterale con lo schermo. Lì siede Matthew, ragazzo di San Diego, California, un ventenne solitario che assapora nel suo alberghetto bohémien Parigi e l’Europa sognata dall’altra parte dell’oceano. Sotto la Tour Eiffel Matthew ha scoperto il cinema, la Cinémathèque è diventata la sua casa. ‘Alieno’ nel mondo, si muove a suo agio solo nella sala buia che lo ha accolto facendolo sentire parte di una ideale comunità: i cinefili. Lui è di quelli ‘insaziabili’, divora con lo sguardo blu le immagini che gli offrono una nuova conoscenza del mondo: Shock Corridor di Samuel Fuller, Nicholas Ray, il tip tap irrefrenabile di Fred Astaire (Top Hat), i Freaks di Tod Browning, Queen Christina... […]
Il gioco del cinema fra i tre ragazzi è immediato. Si sono riconosciuti, dichiarano un’appartenenza: il cinema dice il loro essere nel mondo, è un’arma di seduzione, un segreto ‘dirty pleasure’ in cui lo schermo si moltiplica all’infinito, la sala dissolve le sue pareti, diviene la casa dove vivono la loro avventura, esprime il conflitto con l’esistente.
Ed è anche il legame tra i loro continenti, l’Europa e l’America, il viaggio di sola andata a Hollywood che fecero i registi europei per salvarsi da un secolo ormai impazzito alle soglie della Seconda guerra mondiale. Un orizzonte ‘vergine’ in cui inventarsi (e scoprirsi) diversi.
Cristina Piccino, The Dreamers, in Bernardo Bertolucci. Il cinema e i film, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia 2011


The Dreamers fa largo uso di frammenti cinematografici tratti da altri film, per lo più intervallati da discussioni sui film o da giochi basati su di essi. Questo uso di frammenti potrebbe sembrare una tecnica banale, ma in verità è un modo nuovo, e forse mai così riuscito, di rendere la cinefilia. La maggior parte delle pellicole che parlano della passione per i vecchi film lo fanno creando una sorta di dicotomia fra la ‘magia’ dello schermo e il ‘mondo reale’, fra un Altro idealizzato e una realtà spesso deprimente.
Per lo più Bertolucci trasmette la cinefilia attraverso frammenti che riflettono la memoria affettiva dei film da parte dei personaggi e il loro modo di definire un dato momento o evento in termini presi da quei film. La tecnica di usare ‘esempi’ della cultura di massa per il commento di un personaggio su di sé o sulla situazione è stato largamente usato da Alain Resnais, sia in forma di frammenti di vecchi divi del cinema sia di canzoni. Tuttavia questo commento auto-riflessivo e spesso gentilmente sarcastico funziona in modo molto differente dagli interventi archivistici di Bertolucci. Anche quando il tentato suicidio di Isabelle è interlineato con la volontaria morte di Mouchette in Bresson, ciò sembra più un’espressione spontanea del suo senso della tragedia che un commento intellettuale sulla sua azione. Le citazioni di Resnais sono private, rappresentano un conflitto interno alla mente, laddove in generale Bertolucci forma un forum inter-soggettivo di sentimenti condivisi che consente una comunicazione immediata e profonda fra i personaggi. Più che usare il cinema come un’evasione dalla vita, per i ‘dreamers’ l’energia emozionale del film in fin dei conti diventa un incentivo e un motore per l’esplorazione dei loro stessi sentimenti. Questa necessità di ‘vivere cinema’ e di vivere all’altezza del cinema, di rifarlo e in ultima analisi di trascenderlo, è l’aspetto più commovente e riuscito di The Dreamers.
Maximilian Le Cain, Before the Revolution: Bernardo Bertolucci’s ‘The Dreamers’, “Senses of Cinema”, maggio 2004


Per i cinéphiles i film più amati non si esauriscono mai nella proiezione in sala, sono qualcosa che resta attaccato alla vita e la fa vivere in modo diverso. “Il cinema sostituisce al loro sguardo un mondo in armonia con i loro desideri” (Godard); di conseguenza essi scambiano facilmente il confine tra il sogno e la realtà, anzi amano prolungare l’uno nell’altra, fino a dimenticarsi di essa o renderla vana […] Che tra sala cinematografica e vita quotidiana non ci sia soluzione di continuità, per Théo, Isabelle e Matthew, protagonisti di The Dreamers, è un fatto assodato, perché per loro ad agire sono sempre l’immaginario e la messa in scena, la vita e il fantasma della vita. Isabelle confessa il suo turbamento amoroso mascherandolo con l’atteggiamento e le parole di Greta Garbo pronunciate dopo la notte d’amore in Queen Christina (“Voglio imprimere per sempre questa stanza nella mia memoria”) o inscena il suo gioco di seduzione ripetendo i passi dei danzatori che scortano Marlene Dietrich travestita da gorilla in Venere bionda di Sternberg; per conto suo, Théo viene quasi alle mani con Matthew per stabilire il primato tra Chaplin (“L’uomo macchina”) e Keaton (“L’uomo anima”), e tutti insieme, correndo, cercano di visitare il Louvre in meno di 9 minuti e 45 secondi per battere il record dei protagonisti di Bande à part di Godard. E a Matthew, che teme di essere arrestato a causa di quell’impresa e, come americano, espulso dalla Francia, i suoi amici replicano che non potrà accadere semplicemente perché nel film nessuno viene preso. Si tratta solo di una prova da superare e, alla fine, una volta superata, Isabelle dichiara che Matthew è diventato “uno di noi”, ma ecco che in dissolvenza appaiono i ‘mostruosi’ personaggi di Freaks di Tod Browning che ritmano la stessa battuta. Un bel segnale d’allarme. […]
Meglio rifugiarsi nel cinema, dunque, e in tutti i suoi film Bertolucci sceglie di stare dalla parte di chi guarda la realtà attraverso il filtro della memoria cinematografica e l’immaginario più estremo. Sempre di set e personaggi si tratta, ma sono luoghi, uomini e donne, storie, momenti che in Bertolucci si rincorrono di film in film, prolungando, rivelando o intrecciando itinerari inattesi e proficui. In un’intervista di qualche tempo fa, Bertolucci ha confessato che per lui “i film sono tutti legati, nel bene e nel male” e che l’intera storia del cinema è “un lungo e unico film”. Ancora una dichiarazione di poetica ma anche la messa in pratica di un’idea di cinema nata proprio nel Sessantotto e con la cinéphilie: mischiare tutto e vivere intensamente cinema, politica e privato.
Piero Spila, Correi di un crimine. Sul sentimento cinefilo in Bertolucci, in Bernardo Bertolucci. Il cinema e i film, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia 2011


ADAIR: È indubbio che la disinvoltura di Belmondo era totalmente in sintonia con le aspirazioni di tantissimi giovani nella Francia sempre più asfissiante dei primi anni Sessanta. Questi ragazzi, nati dopo il 1945; si ritrovavano bloccati tra un modo di vita ormai sclerotizzato, legato ai valori dei loro genitori, per non dire dei loro nonni, e l’irresistibile frenesia consumistica che gli si offriva improvvisamente. Bisogna pure ammettere che il giovane Belmondo era infinitamente più carismatico della maschera troppo perbene di Rock Hudson, per fare un esempio, i cui aspetti meno ‘moralmente corretti’ furono rivelati solo vent'anni più tardi. Nonostante le loro personalità irrequiete, che magari avranno anche avuto qualche influenza sul cambiamento di comportamento dei futuri sessantottini, Marlon Brando o James Dean recitavano in produzioni di fattura decisamente hollywoodiana, mentre la decontrazione tipica dei protagonisti di Godard rifletteva la naturalezza stessa della sua messinscena, la quale già di per sé era una notevole rivoluzione!
BERTOLUCCI: Per me, che sono regista, l'apporto di Godard consisteva anzitutto nell’anticonformismo col quale trattava sia l’immagine che il suono. In Italia assistevamo da dieci anni alla lenta decadenza del neorealismo – la precedente nouvelle vague nata alla fine della guerra – senza che intervenisse niente di veramente sconvolgente a sostituirlo, a parte forse La dolce vita (un altro shock decisivo, per quanto mi riguarda). In breve, nell’estate del 1960, io avevo finito il liceo, e con mio cugino Giovanni siamo andati a farci una lunga vacanza a Parigi per scoprire tutti i film in versione originale. Il giorno in cui vidi per la prima volta Fino all’ultimo respiro era qualcosa di così diverso rispetto ai film che conoscevo da darmi la strana sensazione di averlo sognato invece che averlo visto. Come Fellini con La dolce vita, Godard aveva inventato a suo modo un mondo che non esisteva prima di lui e che ha continuato a esistere dopo di lui, perché la realtà stessa desiderava ormai assomigliare alla finzione.
Gilbert Adair e Bernardo Bertolucci, Quegli anni Sessanta… e quella nouvelle vague, in Sognando The Dreamers, a cura di Fabien S. Gerard, Ubulibri, Milano 2003


Sul dolcevita e sui pantaloni di velluto di Théo si proietta l’immagine del Jean- Pierre Léaud che interpreta Tom, in un cortocircuito di rimandi di cui è difficile mantenere il conto e il segno, e che tanto più producono significato quanto più si perdono e si confondono in un unico corpo coeso. Léaud è la nouvelle vague, il cinema francese di Bertolucci rispetto al cinema americano di Bertolucci, ma è anche se stesso: in Ultimo tango è un giovane regista entusiasta che vuole fare; un film su una ragazza e il suo rapporto con gli uomini. Come dire: Antoine Doinel è François Truffaut che vuole fare un film su un Antoine Doinel donna. E Théo è meravigliosamente francese e meravigliosamente Tom-Léaud: figlio di un poeta nel racconto (come Bertolucci), figlio di un regista (Garrel) nella vita. Di Léaud prende la recitazione eccessiva e la gestualità esasperata, insieme alla mimica facciale […]. E di Léaud prende il fuoco nel difendere la Cinémathèque e Langlois: non del Léaud di Truffaut, e nemmeno del Léaud di Bertolucci, ma di quello reale, vivo e vero, che nel 1968 arringava i giovani di fronte al Palais de Chaillot per protestare contro la chiusura e contro Malraux, il ministro della cultura di Charles De Gaulle, lanciando volantini sulla folla al termine del suo discorso. Un Léaud personaggio fuori scena, un cortocircuito del cinema che entra nella vita e della vita che irrompe nel cinema, che Bertolucci prende dai filmati di repertorio e monta alternato ad un Léaud del 2003, vecchio e ingrassato, nello stesso ruolo e posizione. Il risultato è uno strappo di mirabile bellezza, in cui bianco e nero e colore, corpo magro e corpo grasso, trench nouvelle vague e giaccone informe, si mescolano e si rincorrono, inaugurando quel bacio (rubato) tra realtà e finzione, vecchio e nuovo, gioco e prova, che è il segno rosso di The Dreamers.
Andrea Bellavita, Sognare ancora Parigi, “Segnocinema”, n. 124, dicembre 2005