L'immaginazione al potere: il Sessantotto

L'immaginazione al potere: il Sessantotto

Io credevo sinceramente che tutto fosse sul punto
di cambiare radicalmente dall’oggi al domani.
Gilbert Adair


Le prime sequenze di The Dreamers ci proiettano subito nell’immaginario. Il secolo, la Storia, l’utopia, la vita. Creando una sovrimpressione tra materiali d’archivio e scene girate nel presente che li ‘riproducono’, Bertolucci apre il film con la protesta contro la rimozione dalla Cinémathèque di Henri Langlois, il suo fondatore, ordinata dall’allora ministro della cultura francese André Malraux, decisione che provocò una vera e propria rivolta. Davanti alla sede storica della Cinémathèque, il Palais de Chaillot, si mobilita tutto il cinema francese, attori, registi, Truffaut, Belmondo, Godard, Rivette, Chabrol, la nouvelle vague cresciuta con i film di Langlois. E migliaia di persone, ragazzi soprattutto. Jean-Pierre Léaud, legge (allora) e ‘interpreta’ (oggi) l’atto di accusa contro il governo: “La libertà non è data, si prende”. “Il mondo del cinema è tutto con Langlois”.
1968, non siamo ancora nel Maggio, anche se molti vedono in questa battaglia uno dei suoi segni premonitori più forti. […]
The Dreamers vive nel Sessantotto ma non è un film sul Sessantotto come lo hanno definito in molti quando è uscito, ed è anche il motivo per cui è stato criticato, accusato di essere parziale, di non dire abbastanza di cosa è stato quel momento.
Eppure Bertolucci non ci nasconde mai – sin dall’inizio, dalla meravigliosa camminata di Matthew verso la Cinémathèque – che siamo, e saremo, davanti a uno schermo, che a un certo punto sarà invaso dalla violenza della Realtà, la stessa che si porta dietro il sasso del pavé parigino quando sfonda il vetro della casa in cui Isa sta vivendo la ‘sua’ Mouchette bressoniana sotto una tenda nel deserto. Ma ci dice anche che c’è una reciprocità in questo rapporto, un ‘viceversa’ Schermo-Realtà. […]
Il Sessantotto è un momento di rottura, quasi il ‘romanzo di formazione’ di una generazione e del mondo. In questo Bertolucci riprende i fili, l’alterità rispetto all’evidenza di una cronologia che confinerebbe ogni cosa alla sola dimensione del passato: “Non, je ne regrette rien” come canta Edith Piaf sui titoli di coda. La potenza del Sessantotto è essere divenuto immaginario, avere stravolto l’esperienza sensoriale meglio e più di un LSD. Vita e cinema, dentro e fuori, l’altrove rimane possibile perché l’immaginario non si consuma, rimane quel ‘virus’ pericoloso che precorrendolo inventa il proprio tempo.
È questa la bellezza di The Dreamers, la sua forza politica, perché politiche sono le immagini, non la storia che raccontano, politica è la scomposizione/ricomposizione delle realtà, il suo passaggio nel sogno. E per un sognatore tutto è sempre possibile.
Cristina Piccino, The Dreamers, in Bernardo Bertolucci. Il cinema e i film, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia 2011


ADAIR: Ero arrivato da poco a Parigi, perché amavo da sempre tutto ciò che era francese – le banchine della Senna, il Louvre, i castelli della Loira, la cucina, la musica, la cinefilia – e abitavo nel quartiere latino, visto che insegnavo alla Sorbona. Infatti, per la ‘grazia dell’accuratezza’, io avevo ventiquattro anni, ero appena più grande dei miei studenti, e risultava abbastanza naturale ai miei occhi sfilare a braccetto con loro. Prima per l’‘affaire Langlois’, poi, tre mesi più tardi, ci siamo ritrovati travolti da un fiume umano sui Grands Boulevards. A proposito del Maggio ’68 si può dire tutto, e anche il suo contrario. Il punto chiave è che eravamo tutti giovanissimi. Ci sono stati parecchi danni materiali, ma nessun morto negli scontri. Perciò è solo bon ton dire oggi che non si trattò d’altro che di una specie di rivolta potiche, di facciata, abortita nel giro di tre settimane. Non è vero: non era rientrato tutto in ordine all’inizio dell’estate e non pochi aspetti della nostra vita quotidiana sono cambiati in profondità negli anni successivi. Certe cose sbiadiscono facilmente; col tempo la gente dimentica come viveva prima. […] Comunque, sul momento, noi vivevamo questa formidabile esplosione di libertà come se fosse una specie di orgasmo collettivo che si è protratto per diverse settimane, e io credevo sinceramente che tutto fosse sul punto di cambiare radicalmente dall’oggi al domani. Poi, ho perso ovviamente qualsiasi forma di certezza in questo campo...
GERARD: Tu invece non eri a Parigi, nel 1968?
BERTOLUCCI: No, stavo a Roma. Avevamo appena iniziato le riprese di Partner, dal Sosia di Dostoevskij. Ricordo però che la lavorazione si nutriva, proprio giorno per giorno, delle notizie che ci arrivavano in continuazione da Parigi, dove il mio attore, Pierre Clémenti, tornava perfino ogni fine settimana, così da riportarci il lunedì mattina alle otto gli ultimissimi motti nati sulle barricate: “Il potere all’immaginazione”, “È proibito proibire”, “Sotto il selciato c’è la spiaggia”... Nel film Clémenti interpretava un professore schizofrenico che insegnava addirittura ai suoi studenti la ricetta per fabbricare una bomba a mano, la cosiddetta bottiglia Molotov – anzi, la “bottiglia Majakovskij” come la chiamava lui! In compenso, un paio di mesi prima, ero stato presente a Valle Giulia – quasi per caso, in verità – quando la Celere venne a cazzotti coi ragazzi che occupavano la facoltà di architettura. La stessa sera Pasolini scrisse la tanto discussa poesia dove diceva di essere dalla parte dei poliziotti e contro gli studenti, perché questi erano “figli di papà”, mentre i poliziotti erano “figli di poveri” che non avevano il privilegio di poter frequentare l’università. Si contarono centinaia di feriti, quel giorno. Senza cercare di essere più sciovinista dei nostri vicini transalpini, non è completamente sbagliato dire che, in qualche modo, il Maggio ’68 era già cominciato a Roma... nel mese di marzo!
Gilbert Adair e Bernardo Bertolucci, Quegli anni Sessanta… e quella nouvelle vague, in Sognando The Dreamers, a cura di Fabien S. Gerard, Ubulibri, Milano 2003


Partner e The Dreamers, girati da Bertolucci a quasi quarant’anni di distanza, tra loro lontanissimi per situazione produttiva e scelte stilistiche, raccontano ambedue la stessa cosa, il primo in tempo reale, il secondo con il senno di poi, e cioè il sentimento e lo stato di grazia della cinefilia sullo sfondo (emotivo più che politico) del Sessantotto, e dunque presentando storie di formazione e di rivolta attraverso il trionfo e la caduta di una grande illusione generazionale e collettiva.
La politica, il cinema, la vita. Isabelle, protagonista femminile di The Dreamers, si presenta dicendo di essere nata nel 1959 sugli Champs-Elysées, proprio nei giorni e nel luogo in cui Jean-Paul Belmondo (À bout de souffle) incontrava Jean Seberg, americana a Parigi che vendeva ai passanti il “New York Herald Tribune”; americano come lei è il giovane Matthew, l’altro protagonista di The Dreamers, appassionato di cinema e di Buster Keaton, che per la prima volta conosce la ‘massoneria dei cinéphiles’, i famelici spettatori che siedono a ridosso dello schermo per essere i primi a ricevere ‘incontaminate’ le immagini dei film; e potrebbe essere il figlio o il nipote di un altro americano a Parigi, il Paul interpretato da Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi […]. Insomma il massimo della cinefilia in azione, il cinema che si rincorre nel cinema in un continuo gioco di specchi, rimbalzi e citazioni, fino all’irruzione inevitabile della vita: una ‘fuga’ in equilibrio lungo un cornicione nella scena finale di Partner, un colpo di pistola in Ultimo tango a Parigi, un leggero bussare alla porta, all’alba, in L’assedio, la pietra che spacca il vetro della finestra in The Dreamers (“La rue est entrée dans la chambre” ammette la protagonista), e col fumo acre dei lacrimogeni in casa entra anche il suono violento degli slogan che invitano “a scendere in strada”. È la legge del contrappasso preconizzata da Godard nelle sue Histoire(s) du cinéma: alla fine la realtà si vendica sull’immaginario e pretende ‘vere lacrime e vero sangue’. È la presa d’atto che la vita è altrove, che non si può restare per sempre ‘spettatori innocenti’ e che la memoria-cinema ha senso solo se diventa esperienza, memoria storica, crescita. È anche di questo che gran parte del cinema di Bertolucci parla, di quel bellissimo sogno ‘sognato tutti insieme’ che porta lontano o vicinissimo, festival degli affetti (come dice Roland Barthes) o di catastrofi, terra in trance dove tutto può accadere, amour fou capace di segnare un destino, ronde trascinante ed effimera dove tutto alla fine ritorna.
Piero Spila, Correi di un crimine. Sul sentimento cinefilo in Bertolucci, in Bernardo Bertolucci. Il cinema e i film, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, Venezia 2011


Non è la potenza mobilitante dell'ideologia, come in Novecento, che Bertolucci mette al centro del suo poeticissimo film, bensì quella più aurorale del sogno e del desiderio; restituendo così al Sessantotto l'eccedenza e lo scarto che ne fanno insieme l'ultimo atto del Novecento e qualcosa che dal Novecento già fuoriesce. Un punto di massima tensione in cui il secolo della grande politica volge al termine nelle sue premesse e si apre, o avrebbe dovuto aprirsi, ad altre promesse. Quali? […] Chi si aspetta l'epopea del Sessantotto, la ricostruzione dei fatti e la riconferma delle interpretazioni, storcerà il naso perché nei Dreamers non c'è nulla di tutto questo, e c'è molto di più. Non c'è il Progetto rivoluzionario, non c'è l'unità operai e studenti, non c'è l'internazionalismo contro il Capitale. C'è il momento aurorale appunto, in cui tutto questo è ancora a venire, e una più grande ‘pulsione visionaria utopica’ lo rende possibile, pensabile, fattibile. Corpo, politica, cinema, musica, sessualità, filosofia: erano questi gli ingredienti, elenca oggi il regista, di quel “focolaio magico” che preparò l'esplosione del Sessantotto nella vita pubblica come in quella privata. Desiderio erotico, desiderio di sapere, desiderio di esistenza uniti insieme, come i cattivi maestri di allora, da Lacan a Foucault a Deleuze, ripetevano e le cattive maestre non smettono di ripetere tutt'ora. Personale e politico indissolubilmente legati nel sogno della rivoluzione di tutto; la Storia che irrompe a liberare le vite con un sampietrino lanciato dalla strada dentro le finestre di casa. Altro che fallimento, polemizza Bertolucci con la sua stessa generazione che non riesce a restituire quel focolaio magico ai figli e ai nipoti: da allora niente è stato più come prima, non c'è diritto rivendicabile oggi che non sia piantato nella libertà che ci prendemmo, senza che nessuno ce la desse, allora. Errore politico imperdonabile è misurare il Sessantotto col metro contabile del potere (non) conquistato, invece che con la ricchezza imponderabile della libertà messa al mondo.
Ida Dominijanni, Sessantotto, il focolaio magico, “Il manifesto”, 2 settembre 2003


The Dreamers è un film sull’adolescenza a Parigi nel 1968. Nella primavera del 1968: tempo mitico, tempo fuori dal tempo. C’ è una relazione indissolubile tra quello che accade ai corpi e ai cuori di Matthew, Théo e Isabelle e quello che accade fuori di loro: alla primavera della storia d’Europa si sovrappone la primavera della maturità personale. Si è sentito dire, alla presentazione del film a Venezia, che Bertolucci dimentica il ’ 68, la sua forza e la sua valenza storica ed ideologica, semplicemente perché lo lascia fuori campo […]. [Bertolucci] non prende posizioni attraverso i suoi personaggi: di fronte alle camionette della polizia Matthew predica la non violenza, Théo e Isabelle la partecipazione. Ma se il primo entra in contraddizione con se stesso e con i suoi discorsi sulla legittimità della guerra in Vietnam, gli altri due vedono nella lotta soltanto un altro modo per fuggire ancora insieme, per essere soli, stretti dietro un’automobile ribaltata.
Se l’adolescenza è il periodo della contraddizione e dell’incapacità della scelta se non polemica, il ’68 parigino, sembra dirci Bertolucci, è l’adolescenza (la primavera) dell’Europa, è un luogo di contraddizioni insanabili, un luogo di lotte tra rivoluzione e reazione, tra bourgeois e studenti e operai. Che passa attraverso la scelta impossibile tra Chaplin e Keaton, tra Hendrix e Clapton: è il luogo in cui le idee non possono essere messe in relazione che dialetticamente, e in modo irrisolto.
Andrea Bellavita, Sognare ancora Parigi, “Segnocinema”, n. 124, dicembre 2005