Chaplin sul film

Chaplin sul film

E poi per caso, e quando meno me l’aspettavo, mi venne l’improvviso desiderio di girare un altro film muto. Fu una cosa curiosa. Paulette e io eravamo andati al concorso ippico di Tijuana, in Messico, dove il vincitore di non so quale gara del Kentucky doveva ricevere una coppa d’argento. Paulette fu invitata a consegnare la coppa al fantino vincente e a dire qualche parola con accento meridionale. Non occorse molta persuasione. Rimasi sbalordito nell’udire la sua voce dall’altoparlante. Benché fosse di Brooklyn, Paulette fece un’eccellente imitazione di una dama della buona società kentuckiana. Fu questo a convincermi che sapeva recitare. Il primo stimolo nacque di lì. Trovai in Paulette qualcosa della gamine. Sarebbe stato un magnifico personaggio da portare sullo schermo. Già vedevo il nostro incontro su un cellulare della polizia dove il Vagabondo, con la galanteria di un gentiluomo, si alzava in piedi per cederle il posto. Era su questi spunti che costruivo gli intrecci e inventavo le situazioni più comiche dei miei film.

Poi mi venne in mente l’intervista che mi aveva fatto un giovane e brillante cronista del World di New York. Essendo venuto a sapere che stavo per recarmi a Detroit, mi aveva parlato delle catene di montaggio adottate dalle fabbriche locali: la storia angosciosa dei robusti giovanotti strappati alle fattorie con la prospettiva di più lauti guadagni, che dopo quattro o cinque anni di lavoro alle catene di montaggio diventavano rottami umani col sistema nervoso rovinato. Fu quella conversazione a darmi lo spunto di Tempi moderni.





Mi servii della macchina per mangiare come di un dispositivo per risparmiare tempo, in modo che gli operai potessero continuare a lavorare anche durante l’intervallo per il pranzo. La sequenza della fabbrica si risolveva con l’esaurimento nervoso del Vagabondo. La trama seguiva poi il corso naturale degli eventi. Dopo la cura il Vagabondo viene arrestato e incontra una gamine, arrestata ella pure per aver rubato del pane. S’incontrano in un cellulare, gremito di delinquenti. Da allora in poi il film è la storia di due persone qualsiasi che cercano di tirare avanti in questi tempi moderni tra crisi, scioperi, dimostrazioni e disoccupazione.

Paulette era la Monella vestita di stracci. Mancò poco che piangesse, quando le tinsi la faccia per farla sembrare sporca. “Quelle macchie sono nèi che ti rendono molto più bella” le dissi per consolarla. È facile vestire un’attrice con abiti alla moda e renderla attraente, ma vestire una fioraia e renderla attraente, come nelle Luci della città, fu assai difficile. Il costume della ragazza nella Febbre dell’oro non costituì un grosso problema. Ma l’abbigliamento di Paulette in Tempi moderni richiese la stessa cura e le stesse attenzioni di una creazione di Dior. Se un costume da gamine non è studiato con la necessaria accuratezza, le toppe hanno un’aria artificiosa e poco convincente. Nel vestire un’attrice da monella o da fioraia io miro sempre a creare un effetto poetico e non a sminuire la personalità.





Prima della proiezione di Tempi moderni alcuni giornalisti scrissero di aver sentito dire che il film era comunista. Immagino dipendesse dal riassunto della trama già apparso sulla stampa. Tuttavia, i critici più aperti scrissero che non era né pro né contro il comunismo, e che metaforicamente io mi ero seduto sullo steccato. Non c’è nulla di più esasperante che ricevere bollettini dai quali apprendi che il pubblico della prima settimana ha battuto tutti i record e che invece la seconda settimana di proiezioni ha fatto registrare una lieve flessione. Perciò, dopo le “prime” di New York e Los Angeles, il mio unico desiderio era di allontanarmi il più possibile da ogni notizia relativa al film. Perciò decisi di andare a Honolulu, portando con me Paulette e sua madre e dando istruzioni allo studio di non inoltrarmi alcun messaggio.



Charles Chaplin. La mia autobiografia (Mattioli 1885, 2011)
Per le foto © Roy Export Company S.A.S.