La storia del film

La storia del film

L'idea del film


La prima idea del film è di Enrico Lucherini, il principe dei press-agent, una sorta di Richelieu dei salotti romani, un pigmalione di stelline che durano una stagione, un infaticabile stratega di successi più o meno effimeri: quindi, apparentemente, l’esatto opposto del poeta civile Pasolini, l’anti-Pasolini per eccellenza. Bene, Lucherini, suggestionato dal successo dei tre film della Trilogia della vita (soprattutto del Decameron) si accorge che nella miniera dei novellatori a sfondo erotico c’è ancora una vena da sfruttare, quella del Marchese de Sade. E soprattutto il catalogo delle nefandezze de Le 120 giornate di Sodoma.
Lucherini propone l’idea alla Euro International Film, una delle grandi distribuzioni del momento e Cesare Lanza, il manager della Euro, commissiona una sceneggiatura a Claudio Masenza e a Pupi Avati. Sì, avete capito bene, proprio Pupi Avati, la cui filmografia successiva tutto lascerebbe supporre meno che un viaggio nell’immaginario sadiano. Ma la storia del cinema è bella e appassionante proprio perché, a rileggerla, è sempre imprevedibile e piena di sorprese. Così, dopo una prima stesura, viene avvicinato Sergio Citti e gli viene proposta la regia. Probabilmente per motivi strumentali: Pasolini era sulla cresta dell’onda e considerato forse ‘irraggiungibile’ o forse troppo autore e troppo incontrollabile e non organico al progetto ‘commerciale’ di un film senza molte pretese, per questo si tenta con Citti, suo grande amico e collaboratore, tutto intriso, a livello mediatico, di una giusta dose di ‘pasolinismo’.
Ma Sergio, che in realtà era un vero autore, pieno di originalità e di personalità, non è affascinato dalla proposta e, ancora una volta per un gioco del caso, per pure ragioni di contiguità, quel progetto finisce nelle mani di Pier Paolo, che, di lì a poco, viene improvvisamente folgorato da un’idea, ardita e spericolata: perché non ambientare l’opera di Sade nei giorni cupi della Repubblica di Salò, perché non trasformare quel terrificante gioco dell’oca della perversione al potere in un immaginario episodio del fascismo al tramonto?

(Giuseppe Bertolucci, Cosedadire, Bompiani, Milano 2011)

Il film era stato offerto a Sergio Citti e io ho lavorato con lui alla sceneggiatura. Il mio principale apporto a questa sceneggiatura è consistito nel dare alla sceneggiatura una struttura di carattere dantesco che probabilmente era già nell'idea di De Sade, cioè ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura questa specie di verticalità e di ordine di carattere dantesco. Ma mentre lavoravamo appunto a questa sceneggiatura, Sergio Citti man mano si disamorava perché gli era giunta un'altra idea, l'idea di un altro film e io invece pian piano me ne innamoravo e me ne sono innamorato definitivamente quando è avvenuta questa illuminazione, quando cioè è venuta l'idea di trasporre De Sade nel '44, a Salò.

(Pier Paolo Pasolini, aprile 1975)




La messa in scena

A differenza dei film della Trilogia della vita, in particolare Il fiore delle Mille e una notte, e analogamente a Porcile (l’episodio contemporaneo), gli esterni, i paesaggi e le case popolari sono scomparsi: l’unica realtà è rappresentata da opprimenti e claustrofobici interni borghesi. Interni che Pasolini ha fatto arredare al suo scenografo Dante Ferretti con mobili mastodontici e scuri – grandi tavoli e lampadari che incombono plumbei, sinistri totem rituali – come i cromatismi delle pareti e dei pavimenti, dove ricorrono ossessive simmetrie di disegni geometrici, e simmetriche sono anche le scansioni degli spazi nella frontalità delle inquadrature. È un universo artificiale e concentrazionario dove ogni forma è cristallizzata in prospettive, luci e colori luttuosi che assorbono in un’uniformità allucinata anche i quadri delle avanguardie storiche appesi alle pareti (nelle camere dei Signori) – falsi che ‘imitano’ Boccioni, Balla, Feininger o Léger, la sedia in stile Art Nouveau (come quella disegnata nel 1897 da Charles Rennie Mackintosh) dove siedono a turno i mostri (con l’eccezione del Vescovo) e da cui guardano le torture – referti di un’arte che è stata anch’essa normalizzata e asservita. La sarcastica preziosità di questi riferimenti convive nel film con alcuni interni volutamente disadorni, come la sala dove si consumano i ‘matrimoni’ coatti, mentre il cortile delle sevizie finali riecheggia chiaramente gli spazi di segregazione e tortura dei lager.
(Roberto Chiesi)



Il film ha una forte dimensione stilistica con una grande ricerca nella scenografia, una sorta di Bauhaus ‘imperiale’, nell’architettura, nei costumi, negli arredi e nell’uso del linguaggio, più basato sulle citazioni che sul parlato. La superficialità delle posizioni filosofiche era voluta: Pasolini, pur citando Baudelaire, Nietzsche, Blanchot e Klossowski, non omette di irridere nel film i personaggi che quelle idee, in un certo modo, esprimono. Nell’allestimento freddo e astratto, Pasolini ci obbliga a fare a meno di quei meccanismi di difesa che la libertà degli scritti di Sade avrebbe probabilmente permesso alla nostra immaginazione. Tutte le barriere cadono e ci troviamo esposti all’infinita brutalità, nuda e crudele.
(Bachmann)







Le riprese del film ebbero luogo dal 3 marzo al 9 maggio del 1975 a Villa Zani (Villimpenta), Villa Bergamaschi (Ponte Merlano), Gonzaga nel mantovano, villa Siliprandi (Cavriana, sul lago di Garda), a Villa Aldini e San Michele in Bosco (Bologna) e a villa Sorra (Castelfranco Emilia) e infine a Roma al teatro n. 15 di Cinecittà. La postproduzione fu rallentata dal clamoroso furto di settantaquattro pizze di negativi, sottratte dalle celle frigorifere della Technicolor, dei film Il Casanova di Federico Fellini, Un genio, due compari e un pollo di Damiano Damiani e Salò, avvenuto fra il 14 e il 18 agosto, quando lo stabilimento era deserto. Erano tutti film prodotti dalla PEA di Alberto Grimaldi (che aveva prodotto anche la Trilogia della Vita e aveva ereditato il progetto dell'ultimo film dalla Euro International Film, nel frattempo fallita). I ladri ricattarono la PEA chiedendo cento milioni di lire per il riscatto dei film ma il produttore Grimaldi rifiutò di pagare. Di Salò esisteva un "intermediate" negativo a contatto che fu utilizzato per il montaggio del film. Passò quasi completamente inosservata la notizia del ritrovamento delle pizze avvenuto il 2 maggio 1976 quando i carabinieri le ritrovarono nel teatro di posa n. 15 degli stabilimenti di Cinecittà. Proprio lo stabilimento dove Pasolini aveva realizzato le ultime riprese del film.