Antologia critica

Come un corpo può presentarsi allo stato amorfo o cristallizzato, l'arte di Rossellini sa dare agli atti, di volta in volta, la loro struttura più densa e più elegante: non la più gradita o "bella" ma la più acuta, la più diretta o la più tagliente. Con lui il neorealismo ritrova naturalmente lo stile e le risorse dell'astrazione. Rispettare il reale non significa, in effetti accumulare le apparenze, ma al contrario spogliarle di tutto ciò che non è l'essenziale, pervenire alla totalità nella semplicità. L'arte di Rossellini è lineare e melodica. È vero che parecchi suoi film fan pensare ad uno schizzo, in cui il tratto suggerisce più che dipingere compiutamente. Ma non bisogna confondere questa sicurezza di tratto per povertà o pigrizia; tanto varrebbe rimproverarla a Matisse! Forse Rossellini è davvero più disegnatore che pittore, più narratore che romanziere, ma la gerarchia dei valori non sta nei "generi" sta negli artisti!

André Bazin, Difesa di Rossellini, "Cinema nuovo", n.65, 1955

 

 

Un prete e un comunista lottano per la stessa causa. Dietro di loro si muove un quartiere popolare di Roma, coi suoi casoni squallidi, I cortili in cui la storia di ognuno è la storia di tutti e dove la sofferenza e le speranze sono comuni. La forza di Roma città aperta è in questa molteplicità di elementi umani coagulati da un'unità superiore.

Carlo Lizzani, Storia del cinema italiano 1895-1961, Parenti, Firenze, 1961

 

 

Roma città aperta, per esempio: sempre più mi confermo che tra le matrici fondamentali di questo film c'è la commedia dell'arte.
La commedia dell'arte è un genere basato sull'improvvisazione: si parte da un canovaccio, da una situazione nota a tutti, e ci si serve di questa per muovere in diverse direzioni, costanti, nate dall'humus popolare. Le costanti però sono deformate, sono maschere. La caratteristica delle maschere è di essere estremamente semplici, banali a livello di contenuti psicologici, costanti nel comportamento e quindi prevedibili, riconoscibili. Questa fissità permette loro però di essere dei nuclei totali, dei punti fermi. Ora, in Roma città aperta, noi non corriamo che relativamente il rischio di immedesimarci nella vicenda o nell'epoca, perché non l'abbiamo vissuta e ne abbiamo solo ricordi riflessi, e le reazioni che abbiamo sono reazioni emotive sì ma di tipo ideologico, non diretto. Possiamo quindi vedere il film per quello che è: strutturalmente una favola, che rimanda a una realtà tragica con la puntualità della cronaca su fatti appena accaduti.
Il prete buono che è sempre buono (sempre prevedibile, costantemente, come tutto il film, mentre i personaggi del cinema moderno sono contraddittori e imprevedibili); il comunista serio; la popolana generosa; l'ufficiale nazista sadico che è costantemente cattivo; la donna perversa; la donna debole e vittima eccetera.
Il canovaccio da commedia dell'arte è Roma occupata dai nazisti: su questo canovaccio, con le maschere, Rossellini improvvisa la sua commedia dell'arte. Niente di meno neorealistico, o di più se per esempio identifichiamo nel neorealismo il tentativo di estrarre l'humus più profondo della cultura popolare italiana.
Ora una delle cose geniali che io trovo in Rossellini è di cambiare ogni volta e di fare film diversissimi l'uno dall'altro. Questa totalità che è la sua caratteristica si realizza di volta in volta in film totali e (totalmente) diversi: il tramite è la sua persona. Non come Hitchcock, o Bresson, autori di un solo film che di volta in volta viene perfezionato, in una ripetizione ossessiva di un punto di vista unico, nevrotico, malato, sul mondo. Rossellini è uno che guarda la realtà con la voglia di cambiare punto di vista ogni volta. Già Paisà non è più la stessa cosa, il personaggio "unico" diventa un ambiente unico, anzi sei ambienti unici. Non più Pulcinella ma Napoli.

Adriano Aprà, Dibattito su Rossellini, a cura di Gianni Menon, Partisan Edizioni, Roma, 1972

 

 

Rossellini traversa il periodo neorealista (che non è solo cinematografico) facendone la storia, cioè tracciandone le linee di forza, definendo le idee generali che lo reggono e lo muovono; e che nel fare ciò parte dalle apparenze stesse di questa storia, che sono innanzitutto il cinema come il medium espressivo più avanzato dell'epoca [...], il medium che già di per sé pone in crisi la nozione di arte. Rossellini utilizza poi il cinema come "specializzazione" realistica, e questa non è tanto una scelta a priori quanto la conseguenza dell'uso di una tecnologia determinata contro le regole fino a quel momento codificate, che si possono riassumere nella ideologia dello spettacolo e che si specificano nello star system, nella finzione romanzesca, nel rapporto "teatrale" col pubblico. Il cinema esce per le strade, diventa "realistico", quando elimina una serie di diaframmi rispetto a una sua specificità tecnica [...]. In Roma città aperta il titolo stesso rivela un'apertura inconsueta: la gente, non i borghesi (che vivono nascosti nei loro uffici) ma la gente del popolo, vive all'aperto, nella città. Se il film è la storia di un caseggiato, lo è in quanto quest'ultimo è un microcosmo che sintetizza (come un palcoscenico en plein air) la città intera: le nostre case già sono per Rossellini, nel '45, le nostre strade, e non più degli interni; la vita privata, le storie d'amore, coinvolgendo gli altri, si svolgono alla luce del sole; e la clandestinità della lotta partigiana è una nuova prassi, che passa attraverso i tetti e non si cela nel basso delle cantine, e che collega in una rete articolatissima ciò che il nemico fa fatica a percepire, con le sue più vecchie coordinate culturali (ma già il nazista meglio del fascista: si veda la scena del maggiore Bergmann che "legge" la città nel suo ufficio attraverso le fotografie quotidiane: il suo è però un sapere improduttivo). Rossellini, già oltre la guerra, vive nello spazio della modernità. Il centro, l'accentramento e l'accerchiamento sono combattuti e battuti: alla fine del film i bambini hanno ereditato l'esperienza di un decentramento, e la cupola di San Pietro non funziona più da meta ma da sfondo per un cammino "aperto", poiché bisogna tener presente la nostra eredità culturale, che per Rossellini è soprattutto quella cattolica.

Adriano Aprà, Rossellini oltre il neorealismo, in Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Venezia 1975

 

 

Il film è stato tradizionalmente elogiato per il suo realismo. Ma come viene 'elaborato' questo realismo? Sono due gli aspetti che sollecitano una riflessione. Il primo, sul quale molti critici si sono soffermati, ha a che vedere coi set o con la loro assenza, cogli attori o con l'impiego di non-attori, con la macchina a mano, con la particolare grana della pellicola che conferisce un'autenticità da cinegiornale, con una produzione estranea all'industria dominante, e con una sceneggiatura frutto di un apporto collettivo. Tutti questi fattori sono importanti, e anzi contribuiscono a dar forma a una narrazione il cui aspetto è assai diverso da quello dei 'telefoni bianchi' italiani, ama che dai consueti schemi narrativi americani.
D'altra parte, è necessario esaminare la struttura che sorregge il racconto in Roma città aperta.
Fino a che punto è diversa dal modello dominante americano? A questo proposito serve una risposta molto chiara. Il mestiere e l'abilità che affiorano in Roma città aperta appartengono a un regista che ha acquistato la padronanza totale e assoluta nel modo di rappresentazione creato dalla tradizione cinematografica borghese, da David W. Griffith in avanti.
È un modo di rappresentazione il cui scopo fondamentale è far sì che il pubblico sospenda la propria incredulità, e scivoli nell'universo del film come se questo fosse il mondo reale; il pubblico è infatti spinto a percepire il tempo e lo spazio dell'azione filmica come se fosse omogeneo, continuo, 'reale': l'insistenza sulla 'realtà' dal punto di vista strutturale porta infatti a nascondere il processo di produzione di senso. L'attività significante è cancellata nel tentativo di renderci consenzienti, nel farci ritenere che 'tutto ciò che vediamo è come il mondo reale', di farci esclamare 'che modo prodigioso nel cogliere la realtà in condizioni così difficili!'. Ed è proprio questa la principale caratteristica del cinema 'illusionista' borghese, che scaturisce nell'opera di Rossellini da una tensione davvero affascinante [...] il 'realismo' di Roma città aperta non è una questione che abbia a che vedere con la registrazione di una realtà preesistente, ma si basa piuttosto su una sensibilità cinematografica altamente sofisticata [...]
In un'intervista, Rossellini ha dichiarato che 'la grande missione dell'arte' è di 'affrancare gli uomini dai loro condizionamenti'. Un'analisi accurata di Roma città aperta rivela che il regista vi è uscito solo in modo assai parziale [...]. L'impiego dei non-attori per molti ruoli, le riprese in esterni (solo per alcune scene del film) e le altre caratteristiche ben note del neorealismo, sono tutte manifestazioni superficiali che in nessun modo mutano i nostri condizionamenti ben radicati verso un certo tipo di cinema: quello della illusione e della verosimiglianza.
Il modo in cui Rossellini costruisce la 'realtà' di Roma città aperta (l'efficacia della sua atmosfera sul piano emotivo e la sua credibilità) avviene grazie all'impiego dei codici di rappresentazione che sono proprio quelli degli abituali schemi drammaturgici, che lui stesso denigra. La struttura su cui Roma città aperta si fonda da nessun punto di vista 'ci libera dai nostri condizionamenti', che invece rimangono dipendenti dagli stessi codici filmici cinematografici del racconto, all'insegna della rappresentazione trasparente, esattamente quei 'clichés' dello schermo dai quali Rossellini tenta di mantenersi alieno.

Martin Walsh, Re-evaluating Rossellini. "Rome, Open City", "The Rise to Power of Louis XIV", "Jump Cut", n. 15, luglio 1977

 

 

In poche parole noi percepiamo qualcosa come realistico quando corrisponde a un insieme di aspettative rese convenzionali (in gran parte derivate da film precedenti o dalla prassi consuetudinaria nel romanzo) in relazione alle azioni che la gente compie nei film, e non quando corrisponde all'esperienza empirica vera e propria. Tutto ciò fornisce un comodo involucro di verosimiglianza al film convenzionale che ci permette di essere coinvolti in quel complesso procedimento che chiamiamo 'l'identificazione del pubblico'. In effetti, assistendo a un film, non vogliamo propriamente considerare ciò che vediamo al cinema come la realtà; e non pretendiamo di scavalcare lo schermo per trarre d'impaccio i personaggi ai quali ci sentiamo vicini dal punto di vista emotivo. Ma quando noi percepiamo, con un forte investimento emozionale, un film come più realistico del solito - cioè più simile alla 'vita reale' rispetto ai precedenti che abbiamo visto - credo che ciò avvenga perché quel film sta infrangendo i limiti di ciò che comunemente intendiamo per realistico, avvicinandosi al carattere imprevedibile tipico del reale (messo in scena).
Questo 'effetto di realtà' sembra provocato dal fatto che noi riteniamo che un avvenimento o un'impressione siano più reali proprio perché non ne abbiamo mai visto uno simile sullo schermo, prima d'ora [...] Così, Roma città aperta è stato considerato più realistico perché ha effettivamente ampliato i confini dei codici prevalenti del realismo, incorporando un nuovo modello di realtà nei termini di set all'aperto, di linguaggio parlato autentico, di attori privi di fascino, e così via. Dopo quarant'anni, noi possiamo facilmente vedere quante delle sue novità siano divenute abituali nella pratica registica, e, come, in conseguenza di ciò, abbiano perso molta della loro efficacia.

Peter Brunette, Roberto Rossellini, Oxford University Press, Oxford-New York, 1987

 

 

"L'inizio, dice Aristotele, è la metà di tutto". Per Rossellini, questo inizio, questa metà di tutto, si chiama Roma, città aperta, film esemplare instancabilmente ostacolato da dei critici pugnaci o afflitti dalle ulteriori erranze del cineasta: grande film sulla Resistenza e manifesto del neorealismo, epopea di coloro che morirono senza parlare, radicate nella rappresentazione insomma le trovate della vita quotidiana, i gesti e le intonazioni del vero popolo; in breve, l'esatto adeguamento di un contenuto politico e di una forma artistica, della storica lotta di un popolo e della battaglia per la rappresentazione autentica del popolo. Eppure i nostalgici che oppongono la perfezione di questo adattamento alle storie malconce, ai raccordi sfacciati e ai sermoni cattolici di Stromboli o di Viaggio in Italia sembrano aver notato poco quanto questo manifesto realista contenesse inverosimiglianze, come anche queste resistenze esemplarmente rappresentate mostrassero delle leggerezze. Ecco un capo clandestino che intrattiene un rapporto con una delle attrici di cabaret che vivono della liberalità degli ufficiali occupanti. Rintracciato il suo domicilio, va a cercare rifugio da uno dei suoi commilitoni in un palazzo dove una banda di ragazzini si esercita nella preparazione e nell'uso di esplosivi ed informa del suo trasferimento un'altra "artista" della stessa vena. Ecco un prete che fabbrica falsi documenti mentre accoglie un disertore della Wehrmacht... non abbiamo mai rappresentato un così singolare esercito dell'ombra. Tuttavia non c'è alcun impeto di carattere, alcuna insofferenza politica che li rende inadatti alla vita clandestina. Se questi personaggi tanto ragionevoli nei loro pensieri e ponderati nei loro atti, si buttano così facilmente nella bocca del lupo, è piuttosto per la deliberata intenzione del loro creatore. Tutto accade come se fosse inadatto o indifferente alla rappresentazione dell'ombra; come se il suo solo desiderio fosse quello di vederli premurarsi solo verso quello che gli importa: la congiunzione degli elementi antagonisti, il puro incontro degli estremi.
[...] Sappiamo che Rossellini spesso dichiarava di costruire i suoi film per una sequenza, un piano, qualche volta per un gesto: l'errare di Edmund per le strade di Berlino, i barattoli di ferro bianco che rotolano lungo le scale de Il Miracolo (Amore), le due "pertiche" anglosassoni prigioniere della folla di microbi napoletani alla fine di Viaggio in Italia. Chiaramente qui la sequenza per la quale è costruito il film è quella della morte di Pina. Ma questa sequenza è anche altamente improbabile: per lanciarsi follemente all'inseguimento del camion che porta il suo fidanzato Francesco, Pina ha dovuto forzare degli sbarramenti, strapparsi da delle braccia che visibilmente avrebbero dovuto trattenerla. Niente a che vedere qui con l'energia della disperazione o il sano vigore che è convenzionalmente concesso alle donne del popolo. Si tratta piuttosto di una creatura che infrange le sue catene per buttarsi da un lato, la dove è la chiama il desiderio del suo creatore. Adesso si sottrae alla brulicante folla di soldati tedeschi e abitanti del palazzo, occupa da sola il centro della strada, sagoma nera su un grande campo bianco, tesa verso di noi, verso la cinepresa, verso i fucili: comica quasi per i suoi grandi gesti come per chiamare un conducente partito senza aspettare la sua passeggera. E si pensa anche a quegli sposi in ritardo dei film comici che si lanciano vestiti a metà verso la chiesa. E, infatti, è all'altare che lei doveva raggiungere questa mattina Francesco. Questa meravigliosa sospensione dell'immagine e del senso, pochi cineasti resisterebbero alla tentazione di trattenerla - di perderla - per un ralenti o un fermo immagine. Ma l'arte di Rossellini non conosce queste debolezze. Per la sua cinepresa e per le pallottole, è il tempo di porre fine alla suspense. Adesso Pina crolla sul bianco della strada come un grande uccello sul quale, come altri due uccelli stagliati dalle mani di un pittore, vengono ad abbattersi di volta in volta, senza che le guardie possano fare altro, il bambino in lacrime ed il prete che lo vuole sottrarre al suo dolore.
Mai il peso dei corpi che cadono e l'assoluta leggerezza della grazia si sono uniti meglio che in questa curva tanto dolce dove tutto il dolore e tutto il disordine sono aboliti anticipatamente: linea che si richiude - Jacques Rivette parlava testé di arabesco in evocazione di Matisse, il pittore degli uccelli stagliati - efficacia dell'immagine che condensa i rapporti e le tensioni del film senza simbolizzarle, senza associarle a nient'altro, se non al bianco e nero i cui i rapporti definiscono l'immagine filmica. Non capiremmo per quale ragione il pittore della Resistenza lavora per il solo piacere "estetico" del bel piano che racchiude in aggraziati arabeschi la tragica morte della madre e della donna del popolo. Per Rossellini, non ci sono dei bei piani che non siano un momento di grazia nel senso più forte, nel senso paolino del termine, che non passa per l'assoluto consenso all'incontro di questo e quello che non si cercava. Ma anche, e là è assolutamente infedele all'Apostolo, non c'è grazia che non si merita.
La grazia è l'altra faccia del coraggio, quella che rende rappresentabile la qualità propria. Quello che c'è stato dato qui, è l'esatta concordanza di una apparizione etica e di una traccia estetica. È al di qua di tutte le determinazioni politiche, il puro slancio originario, l'assoluta gratuità o generosità di questa libertà per la quale il prete cattolico e l'ingegnere comunista muoiono senza parlare. Pina, colei da cui non si sentono affatto discorsi su un avvenire radioso, si è lanciata davanti ai fucili, davanti alla cinepresa, per disegnare la curva esatta di questa libertà. Ed è come la dolcezza raccolta della sua caduta che si esprimerà nel gesto infinitamente dolce per la quale Don Pietro, tenendo tra le sue mani la testa di Manfredi morto, chiuderà con il suo pollice la palpebra che i carnefici non hanno ancora chiuso. In una lunga sequenza di un altro film, San Francesco, rivedremo lo stesso attore, Aldo Fabrizi, svolgere nuovamente - in maniera diversa - il senso di questo gesto, quando interpreta il tiranno Nicolaio che tiene tra le sue mani la figura ugualmente assassinata di Frate Ginepro torturato dai suoi commilitoni, fino a riconoscersi vinto, disarmato per l'enigma assoluto di questo volto senza paura, per la potenza incomprensibile che si chiama la forza dei deboli, la forza invincibile di coloro che hanno consentito all'abbandono radicale, all'assoluta debolezza.

Jacques Rancière, La chute des corps, in AA.VV., Roberto Rossellini, Editions de l'Étoile/Cahiers du Cinéma, Paris 1990.

 

 

Le tre morti rappresentate con grande evidenza in Roma città aperta assumono sullo schermo una dimensione plastica nella quale non è difficile riconoscere affinità con l'iconografia della passione di Gesù. Questo aspetto del film trova connotati immediatamente riconoscibili nella scena della fucilazione di don Pietro, dove anche le parole pronunciate dal sacerdote contengono un esplicito riferimento al dramma del Golgota. [...]
Per quanto riguarda il Golgota, la situazione è stata tante volte analizzata e rappresentata nei testi delle sacre rappresentazioni che, a partire dall'alto Medioevo, attraversano i secoli della cultura cristiana; spettacoli frequentatissimi un tempo, dei quali restano tracce, oltre che in alcune superstiti reliquie viventi, nei dipinti a grandi dimensioni, a essi ispirati, che ancora si possono vedere sulle pareti dei luoghi santi. Pur senza scostarsi sostanzialmente dalla cronaca dei fatti accaduti, Rossellini ha messo in scena, forse senza rendersene del tutto conto, una sacra rappresentazione della Passione, ambientata in epoca moderna. L'aggiunta dei ragazzini che, dopo aver assistito all'esecuzione, si avviano verso la città che appare lontana, dominata dalla cupola di San Pietro, può essere considerata come una dilatazione della scena precedente, modellata sull'esempio dei dipinti ai quali si faceva cenno, dove la scena del Golgota è distesa in larghi spazi, nei quali sono distribuite figure gesticolanti, raggruppate in masse contrapposte, mentre sullo sfondo si vede la città di Gerusalemme, dominata dalla mole del Tempio. [...]
Mentre la morte di don Pietro propone sullo schermo il volto di un Gesù sereno, che muore perdonando i suoi crocifissori, quella dell'ingegner Manfredi, dirigente del Partito Comunista e capo della Resistenza, che soccombe sotto le torture dei nazisti, propone il volto di un Gesù, uomo dei dolori, sfigurato dallo spasimo, che muore gridando. [...]
Il terrore, l'attesa di una morte atroce, la perdita della libertà, l'ansia per la sorte dei propri cari, tutto questo è stato vissuto ed espresso dagli artisti e dai poeti che operavano a Roma in quegli anni come un prolungarsi della stagione dei primi martiri dell'era cristiana. La passione di Cristo era il punto di riferimento obbligato per coloro che cercavano di trovare un senso al dolore diffuso all'intorno in un'estensione che sembrava senza limiti. [...]
Ci sono cose che si possono soltanto immaginare; altre invece sono lì sotto gli occhi di tutti e parlano con la loro concretezza immediatamente percepibile. Nelle ultime due inquadrature della sequenza si vede don Pietro, inginocchiato per terra, che tiene tra le braccia il corpo esanime di Pina, mentre il "metropolitano" trattiene Marcello. La prima delle due immagini è un campo medio; la seconda un piano ravvicinato. Anche se nelle due inquadrature non vi è nessuna accentuazione che lascia supporre, da parte del regista, l'intenzione di ottenere particolari effetti visivi, allo spettatore attento non sfugge la dimensione plastica che i corpi di Fabrizi e della Magnani assumono per l'evidenza stessa della situazione nella quale si sono venuti a trovare. Ciò è particolarmente chiaro nella seconda delle due inquadrature, quella ripresa da vicino, che chiude la sequenza. Pochi secondi di verità folgorante. Il corpo di una persona viva sorregge il corpo di una persona morta. L'equivalente moderno del concetto espresso nel gruppo marmoreo della Pietà. Il pensiero va immediatamente al gruppo marmoreo scolpito da Michelangelo, che si ammira nella basilica di San Pietro, ed è da ritenere che Rossellini si riferisse, in maniera più o meno consapevole, a esso, nel comporre e riprendere le immagini del film, anche se, in tanti secoli di arte cristiana, il lamento della Madonna sul corpo del Cristo morto ha ispirato una grande quantità di opere realizzate con tecniche diverse.

Virgilio Fantuzzi, Riflessi dell'iconografia religiosa nel film "Roma città aperta" di Roberto Rossellini, "La Civiltà Cattolica", quaderno n. 3489, 4 novembre 1995

 

 

Per Amidei la verità significava un film che mostrasse la malvagità e la corruzione dei Nazisti (al fascismo si alludeva appena), la bontà e l'eroismo dei romani, fino a che punto i cittadini avessero sofferto nel nome del diritto e della giustizia e come perciò fosse inevitabile la vittoria del popolo.
Ogni avvenimento e ogni individuo dovevano avere una qualche rispondenza con avvenimenti e persone reali, ma vi era anche una componente melodrammatica situata al cuore del conflitto fra bene e male, caro ad Amidei. I suoi personaggi erano stereotipati: il sacerdote grasso e sempre buono; l'eroe sempre eroico; i nazisti sadici sempre cattivi; la tossicodipendente lesbica, che sprofonda nella perfidia, provocando la tragedia dell'eroe; la madre innocente, che soffre e muore; il ragazzino reso orfano. Il male è concentrato su un solo versante, tanto quanto il bene su quello opposto: gli aguzzini, le 'perversioni' sessuali, i tossicodipendenti, gli ubriaconi, i traditori e gli interni in ombra versus le madri, i ragazzi, tutti coloro che lottano per la libertà, un sacerdote, e la luce del sole.
Gli stereotipi del patriottismo, della Cristianità, della solidarietà, del populismo, della morale e dell'esistenzialismo furono contrapposti a quelle della dannazione eterna. Ma l'arte rivoluzionaria è solita tracciare questo cammino che Amidei si prefiggeva: un film che avrebbe espresso in modo chiaro le esperienze e i sogni delle masse, un film che avrebbe proclamato la verità della rivoluzione. Le convenzioni che Amidei stava maneggiando erano per giunta e nonostante secoli di esistenza, ancora vitali nel campo della rivista teatrale e nella commedia dell'arte. Sia il vaudeville che la commedia mettevano in scena vicende, ricorrendo a personaggi standard che indossavano maschere come base per l'improvvisazione su temi di interesse attuale.

Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films, Da Capo Press, New York 1998.

 

 

Il film si pone al servizio di una funzione mitica, comunicando l'impressione di un'unità d'intenti fra i diversi partiti politici e le distinte fazioni all'interno della Resistenza [...] ed è così che il modello particolare di unità del fronte popolare rappresentato dal film, già mitico quando Roma città aperta venne realizzato, sarebbe divenuto una fonte di nostalgia per gli spettatori successivi.
Il mito patriottico presentato nel film fu un esempio della produzione ampiamente diffusa di tali miti, alla cui edificazione contribuirono molte altre pellicole e testi neorealisti, come anche numerose memorie e testimonianze storiche della resistenza. Tutte assieme risposero al forte bisogno collettivo di cancellare porzioni del passato, commemorandone altre, e di produrre una memoria positiva della guerra, capace di scacciare i ricordi dolorosi o traumatici [...].
Un film come Roma città aperta si adatta a questo genere di retorica da molti punti di vista. Il suo stile è volutamente sobrio. Cerca di smuovere gli spettatori, di fare in modo che detestino il male, persuadendoli della verità di ciò che narra e della giustezza della causa che sostiene [...] la volontà di mostrare la verità senza alcun abbellimento produce una testimonianza visiva del tempo di guerra a Roma che sotto molti aspetti risulta attendibile.
Ma produce anche un resoconto di notevole valore storico su ciò che significhi vivere nella città occupata e dà l'idea di come lo spazio e il potere interagissero all'interno di essa. Al contempo, la rappresentazione che il film offre dello spazio è pensata in modo tale da essere funzionale a un insieme di opposizioni schematiche sul piano morale, e il bisogno di produrre una 'memoria positiva' spinge a operare un trattamento selettivo dei fatti storici, in cui alcuni di essi occupano una porzione preminente, mentre altri vengono relegati sullo sfondo o sono del tutto cancellati.

David Forgacs, Rome Open City (Roma città aperta), BFI, London 2000

 

Rossellini per Roma città aperta adotta la tecnica del levare, del togliere, come per la scultura su pietra e non quella dell'aggiungere, che è propria dei metalli e che sarà la sua tecnica di lavoro nei film immediatamente successivi come Paisà, Germania anno zero e Viaggio in Italia. Rossellini era perfettamente cosciente di questo suo modo di operare. Confrontando le due scene relative alla morte della Magnani [...], infatti, ci accorgiamo che la scena del film nasce da un semplice, coraggioso e consistente taglio operato sulla sceneggiatura originale [...] e suggerito agli autori dal celebre episodio di un'infuriata della Magnani che si lancia all'inseguimento dell'auto di Massimo Serato, suo compagno di allora".

Stefano Roncoroni, La storia di "Roma città aperta", Cineteca di Bologna - Le Mani, Recco 2006

 

 

"Roma città aperta costituisce un esempio di film realizzato rispettando norme, codici e regole del cosiddetto "modo di rappresentazione classica": numerose sono le conferme che giungono in tal senso anche considerando le scelte ricorrenti sul piano stilistico. Le inquadrature del film sono in media assai brevi, e durano il tempo indispensabile per permettere allo spettatore di assimilare le numerose informazioni da esse veicolate; i movimenti della macchina da presa sono relativamente frequenti ma discreti, e hanno l'obiettivo di accompagnare la dinamica dei personaggi, senza alcun virtuosismo di natura tecnico-linguistica. Il rapporto tra i piani di una stessa sequenza è regolato da una rigorosa applicazione del sistema dei raccordi: strumenti insostituibili nel découpage classico per nascondere la frattura esistente tra la fine di un'inquadratura e l'inizio della successiva, o, perlomeno, per limitarne gli effetti conferendo una sensazione di fluidità al susseguirsi delle immagini.
Non vi è neppure un'inquadratura che non sia suturata ai due piani contigui (il precedente e il successivo) da almeno un raccordo, secondo un campionario esaustivo, che si presta a fare del film un modello anche in virtù dell'abilità di Rossellini nel rispettare in maniera sistematica un insieme di codici e di norme da lui stesso assimilati durante gli anni di apprendistato cinematografico".

David Bruni, Roberto Rossellini. Roma città aperta, Lindau, Torino, 2006