Un tris d'assi: Totò, Anna Magnani, Ben Gazzara

Un tris d'assi: Totò, Anna Magnani, Ben Gazzara

Totò

Antonio De Curtis, alias Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, in arte Totò, nacque nel rione Sanità di Napoli il 15 febbraio 1898. Figlio illegittimo del marchese Giuseppe De Curtis, fu riconosciuto dal padre nel 1921. In seguito ad un incidente nel collegio Cimino il suo viso assunse una particolare conformazione del naso e del mento. Nel 1913 iniziò a frequentare i teatrini periferici esibendosi con lo pseudonimo di "Clerment" in imitazioni di Gustavo De Marco. Riscosse i primi successi alla Sala Napoli con una parodia della canzone Vipera, intitolata Vicolo. Nel 1922 la sua famiglia si trasferì a Roma, ove Totò, dopo alcuni difficoltà professionali, riuscì a farsi scritturare al Teatro Ambra Jovinelli, recitando con successo tre macchiette di De Marco. Seguì poi la scrittura al Teatro Sala Umberto I, dove inventò il suo caratteristico costume di scena (ispirato a quello del vagabondo di Chaplin).




Tra il 1923 e il 1927 si esibì in importanti caffè-concerto italiani, facendosi conoscere anche a livello nazionale. Nel 1929 recitò per la prima volta una pièce di Eduardo Scarpetta, Miseria e nobiltà. Nel 1930 fece il primo provino cinematografico per la Cines ma per il momento preferì continuare l'attività teatrale. Infatti nel 1932 diventò capocomico d'avanspettacolo e si affermò definitivamente come uno dei comici più popolari della penisola. Debuttò nel cinema nel 1937 per iniziativa di Gustavo Lombardo, fondatore della Titanus, che produsse Fermo con le mani di Gero Zambuto. Seguì il film Animali pazzi (1939) di Carlo Ludovico Bragaglia, dove Totò interpretò un doppio ruolo, e San Giovanni decollato (1940), sceneggiato, tra gli altri, da Cesare Zavattini, per la regia di Amleto Palermi. Zavattini scrisse per l'attore il soggetto Totò il buono che non fu realizzato ma ispirò Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica, senza Totò. Come i precedenti, anche il quarto film, L'allegro fantasma (1941), sempre di Palermi, non fu un grande successo e Totò preferì ritornare sul palcoscenico, dove recitò con Anna Magnani nella rivista Quando meno te l'aspetti (1940-1941) di Michele Galdieri, con cui l'attore strinse un sodalizio durato nove anni, con spettacoli scritti anche dall'attore stesso: Volumineide, Orlando Curioso, Che ti sei messo in testa? e Con un palmo di naso.

Il successo al cinema arrivò con I due orfanelli (1947) diretto da Mario Mattòli, con il quale Totò interpretò altri tre film, tutti coronati da un enorme successo popolare: Fifa e arena, Totò al giro d'Italia e I pompieri di Viggiù. Continuava, intanto, a recitare a teatro e trionfando ovunque con le riviste C'era una volta il mondo (1947-48) e Bada che ti mangio (1949-50). Le sue interpretazioni cinematografiche si susseguivano a ritmi vertiginosi (una media di cinque-sei film all'anno). In una filmografia comprendente novantasette titoli, sono da ricordare Yvonne la nuit (1949) di Giuseppe Amato (1949), Totò cerca casa (1949) di Steno e Mario Monicelli, L'imperatore di Capri (1949) di Luigi Comencini, Totò le Mokò (1949) e Totò cerca moglie (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia (1950), Napoli milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, Totò sceicco (1950) di Mario Mattòli, 47 morto che parla (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia, Guardie e ladri (1951) di Steno e Monicelli, Totò a colori (1952) di Steno, Totò e i re di Roma (1952) di Steno e Monicelli, Totò e le donne (1952) di Steno e Monicelli, Dov'è la libertà? (1952, ma distribuito nel 1954) di Roberto Rossellini, L'uomo, la bestia e la virtù (1953) di Steno, dove recitò con Orson Welles, Un turco napoletano (1953) e Il più comico spettacolo del mondo (1953) di Mattòli, l'episodio La patente di Questa è la vita (1954) di Luigi Zampa, l'episodio La macchina fotografica di Tempi nostri (1954) di Alessandro Blasetti, Miseria e nobiltà (1954), Il medico dei pazzi (1954) e Totò cerca pace (1954) di Mattòli, l'episodio Il guappo di L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Totò e Carolina (1954) di Monicelli, Totò all'inferno (1955) e Siamo uomini o caporali? (1955) di Camillo Mastrocinque, film di cui fu anche co-sceneggiatore, Racconti romani (1955) di Gianni Franciolini, Destinazione Piovarolo (1955), con Tina Pica, e Il coraggio (1955), con Gino Cervi, di Domenico Paolella, La banda degli onesti (1956) e Totò, Peppino e la... malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque, entrambi in coppia con Peppino De Filippo, con cui costituì uno dei binomi più affiatati e fortunati, I soliti ignoti (1958) di Monicelli, dove si misurò con i giovani Gassman e Mastroianni, La legge è legge (1958) di Christian-Jaque, con Fernandel, I tartassati (1959) di Steno, con Aldo Fabrizi e Louis de Funès, Arrangiatevi! (1959) di Mauro Bolognini e Signori si nasce (1960) Mattòli, entrambi ancora con Peppino De Filippo, Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi (1960) di Mattòli, con Aldo Fabrizi, Letto a tre piazze (1960) di Steno, con Peppino De Filippo, Risate di gioia (1960) di Monicelli, Chi si ferma è perduto (1960) di Sergio Corbucci, Totò, Peppino e...la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci, Sua Eccellenza si fermò a mangiare (1961) di Mattòli, con Ugo Tognazzi, Totòtruffa 62 (1961) di Mastrocinque, con Nino Taranto, I due marescialli (1961) di Corbucci (1961) con Vittorio De Sica, Totò Diabolicus (1962) di Steno, Totò e Peppino divisi a Berlino (1962) di Giorgio Bianchi, Lo smemorato di Collegno (1962) di Corbucci, I due colonnelli (1962) di Steno, con Walter Pidgeon, Il monaco di Monza (1963) di Corbucci, con Macario e Nino Taranto, Il comandante (1964) di Paolo Heusch, primo tentativo di un ruolo quasi completamente drammatico, l'episodio Amare è un po' morire di Le belle famiglie (1964) di Ugo Gregoretti (1964), Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Paolo Heusch, La mandragola (1965) di Alberto Lattuada e Operazione San Gennaro (1966) di Dino Risi. Fondamentale fu, nel 1965 l'incontro con Pier Paolo Pasolini che lo diresse in un importante lungometraggio, Uccellacci e uccellini (1966) che valse all'attore un Nastro d'argento e una menzione al Festival di Cannes, e in due splendidi mediometraggi, La terra vista dalla luna, episodio di Le streghe (1966) e Che cosa sono le nuvole?, episodio di Capriccio all'italiana (1967). Il suo ultimo spettacolo fu A prescindere (1956) che ebbe una conclusione drammatica (durante le repliche Totò ebbe gravi problemi di salute e perse la vista quasi completamente). Morì a Roma il 15 aprile 1967.



"Il Totò dei film dopo il '50 è un Totò sottoproletario che ha qualche punto di riferimento, qualche modello nel mondo piccolo-borghese. Ne ha il carattere puntiglioso e presuntuoso, il senso formale del decoro, l'adesione a certi valori più radicati (la famiglia, ad esempio), e infine l'individualismo perlopiù qualunquista. Ma ha del sottoproletario gli aspetti più importanti: l'eterna voracità, l'obbedienza agli istinti, la volontà quasi sempre delusa di diventar altro, di trasformarsi nel piccolo-borghese che gli sta sopra. E ancora l'arte di arrangiarsi, il pessimismo fondamentale, la vitalità che si rivela in una certa tragica frenesia. In ogni caso, quando Totò tende al personaggio, ciò avviene in termini abbastanza precisi di homo oeconomicus, alle prese con la lotta per la sopravvivenza. In quanto tale, certi problemi o fenomeni lo toccano poco: la sua morale non è mai rigida, potrà indubbiamente fare atti di contrizione ripetuti (e magari sinceri) ma si è certi che, non appena vi sarà di nuovo costretto, ricadrà senza scrupoli. [...]
Totò marionetta ha assorbito con immensa intelligenza plastica gli elementi 'umani' (cioè, ci insegna Zavattini, piccolo-borghesi) che gli venivano proposti. Ma la forza della sua tradizione era tale che non è stata affatto distrutta dal suo ritorno sulla terra. Di più: ha fatto contemporaneamente ricorso alla tradizione napoletana della commedia populista più matura e tragica e senza sbavature (Viviani) risalendo sempre, anche se attraverso Scarpetta e Eduardo, fino alla eterna fame di Pulcinella, e questo gli ha dato dimensioni nuove, ma di portata più universale e meno banalmente realistica che nei citati e nei rivali anche napoletani. L'incontro con Pirandello ha aggiunto un tanto di grottesco amaro, e il rifiuto di influenze esteriori (nessuna influenza reale da comici di altri Paesi, neanche dai grandi americani del muto) l'ha preservato dalle disavventure su incerti terreni. La fedeltà di un pubblico popolare che l'ha accettato fino in fondo come qualcosa di stabile, di eterno, cioè come una nuova maschera da aggiungere agli Arlecchino e Pulcinella della tradizione, lo ha preservato infine da trasformazioni azzardate che il suo mito probabilmente non avrebbe sopportato. Così Pasolini crea i suoi personaggi sulla sua maschera; Lattuada adatta il ruolo del prete ruffiano di Machiavelli alla sua maschera, ne fa un napoletano che ha tanto del Totò".
Goffredo Fofi, Totò, Savelli Editore, Roma, 1975

 

Anna Magnani

Così la grande attrice autodefinì se stessa: «Sono la donna più discontinua del mondo. Tutto cambia dentro di me da un'ora all'altra. Il fatto è che seguo sempre il mio istinto e il mio cuore. Non mi curo mai di quello che sembro, di come gli altri mi vedono. Sono così come la mia vita, le mie speranze, le mie delusioni, le mie gioie e le mie infelicità mi hanno fatta. Lo sono senza riserve e senza ipocrisie. Nella vita però tutto mi emoziona, tutto mi commuove, mi fa tenerezza e mi spinge alla generosità. Ma nel lavoro, lo riconosco, sono una peste. Qualche volta posso anche diventare cinica, cattiva, spietata. Non ammetto che si bari, si truffi, si cerchi di dare ad intendere di saper fare una cosa se non è vero. Io, il mio mestiere l'ho sudato e sofferto. Ho impiegato molto tempo, e ho faticato per diventare la Magnani. Ora sudo e fatico per continuare ad esserlo".




Alberto Moravia, in un articolo scritto in occasione della sua morte, scrisse fra l'altro: "Era, sì, l'attrice celebre, il personaggio rappresentativo; ma insieme, nel fondo contraddittorio della sua strana e orgogliosa umiltà, forse dubitava di esserlo davvero oppure avrebbe voluto esserlo in un altro modo. Il suo narcisismo scontento e diffidente le faceva forse subodorare nella sua popolarità qualche cosa di inautentico [...]. Ma probabilmente si rendeva pure conto che ogni popolarità è fondata su un malinteso; e che la sua, almeno, poteva contare su una originaria carta di nobiltà verace e indiscutibile. D'altra parte, alla sua rassegnata e scettica partecipazione doveva anche contribuire la riflessione che per una attrice come lei, che aveva dovuto il successo proprio al fatto di aver abolito il confine tra la vita e l'arte, tra la persona e il personaggio, tra la passione e l'espressione, era impossibile fare certe sdegnose e schive distinzioni. Essa doveva accettare di essere, così sullo schermo come fuori dallo schermo, una presenza fatta di impetuosa vitalità esistenziale, la quale, via via, poteva, come non poteva, coagularsi in una forma riconoscibile. Ma come si fa a sapere quando la vitalità riesce a trovare la forma che le conviene e quando invece si limita ad esplodere? Affidata al solo istinto, Anna Magnani probabilmente non era mai del tutto sicura di aver creato un vero personaggio; o invece di essere rimasta al di qua dell'interpretazione, nell'imitazione di se stessa.
Ho cercato di illuminare il difficile e oscuro rapporto nella vita e nell'animo di Anna Magnani tra la figura pubblica e l'interprete. Ora però vorrei aggiungere che questa attrice arrivata così tardi alla maturità artistica e al successo, dopo una lunga anticamera nell'avanspettacolo e nel cinema di consumo, questa donna disadattata, affettuosa, incolta e nevrotica, seppe fare qualche cosa che accade molto di rado nel mondo casuale e improvvisato del nostro cinema: intersecare la proprio meteorica traiettoria con l'orbita misteriosa e controversa della cometa chiamata Storia".
Alberto Moravia, Anche Roma ha una mamma, "l'Espresso", 7 ottobre 1973




Anna Magnani nasce a Roma, il 7 marzo 1908 - Roma, 26 settembre 1973). Figlia illegittima, fu affidata dalla madre, trasferitasi ad Alessandria d'Egitto, alla nonna materna. Da bambina studiò pianoforte e portò avanti la sua formazione fino alla seconda liceo. A diciannove anni iniziò a frequentare la scuola d'arte drammatica Eleonora Duse, diretta da Silvio d'Amico, quindi entrò nella compagnia teatrale Vergani-Cimara, diretta da Dario Niccodemi. Nel 1934 passa alla rivista, recitando accanto ai fratelli De Rege, ma interpreta anche spettacoli da pièce di Robert Emmet Sherwood, Eugene O'Neill. Un notevole successo lo riscuotono le riviste interpretate accanto a Totò, Quando meno te l'aspetti (1940), Volumineide (1942), Che ti sei messo in testa? (1944) e Con un palmo di naso (1944). All'inizio degli anni Quaranta la sua carriera cinematografica (debuttata nel 1928 con un piccolo ruolo in Scampolo di Augusto Genina) vanta già diciannove titoli - fra cui Teresa Venerdì (1941) di Vittorio De Sica, Campo de' fiori (1942) di Mario Bonnard e L'ultima carrozzella (1943) di Mario Mattòli, questi ultimi due accanto ad Aldo Fabrizi. Ma è il ruolo di Pina in Roma città aperta (1945) a consacrarla come una delle più importanti attrici italiane (per la sua interpretazione, ottenne il primo Nastro d'argento del dopoguerra), con un temperamento che domina tutti i registri, da quello drammatico al tragico all'umoristico. In seguito ritrovò Rossellini in L'amore (1948) e recitò anche sotto la regia di Alberto Lattuada (Il bandito, 1946), Luigi Zampa (L'onorevole Angelina, 1947), Mario Camerini (Molti sogni per le strade, 1948 e Suor Letizia, 1957), Luchino Visconti (Bellissima, 1951, e l'episodio di Siamo donne, 1953), Jean Renoir (La carrozza d'oro, 1952), George Cukor (Selvaggio è il vento, 1957), Sidney Lumet (Pelle di serpente, 1959), Mario Monicelli (Risate di gioia, 1960), Pier Paolo Pasolini (Mamma Roma,1962) e Federico Fellini (Roma, 1972).
Nel 1956 vinse il premio Oscar quale miglior attrice protagonista per La rosa tatuata (The rose tatoo, 1955) di Daniel Mann. È morta a Roma il 26 settembre 1973.

 

Ben Gazzara

Secondo Mario Monicelli, "Gazzara fu un mio piccolo apporto al cinema, assieme alla Cardinale, a Gassman, alla Vitti e a tanti altri. Credo che un regista alla fine della sua carriera debba pure aver dato qualcosa, aver inventato qualche attore o qualche attrice, o un genere. La verità è che la maggior parte dei registi non fa altro che sfruttare delle cose inventate da altri; tra Gassman e la Vitti, credo di aver dato vita ad almeno cinquanta commedie all'italiana!" (Mario Monicelli, L'arte della commedia a cura di Lorenzo Codelli, Dedalo, Bari 1986).




All'anagrafe Biagio Anthony Gazzara, Ben Gazzara è nato a New York il 28 agosto 1930. Figlio di emigrati siciliani originari della provincia di Agrigento, Gazzara crebbe in una famiglia povera in un quartiere malfamato di New York. Decise di studiare teatro con Erwin Piscator e divenne dell'Actors' Studio nel 1951. Riscosse successo a Broadway con il dramma A Hatful of Rain ed esordì nel cinema con Un uomo sbagliato (The Strange Man, 1957) di Jack Garfein, ma si rivelò soprattutto con Anatomia di un omicidio (Anatomy of a Murder, 1959) di Otto Preminger. Interpretò quindi vari film senza però riuscire ancora ad affermarsi definitivamente: Risate di gioia (1960) di Mario Monicelli, Giorni senza fine (The Young Doctors, 1961) di Phil Karlson, Tre passi dalla sedia elettrica (Convicts 4, 1962) di Milard Kaufman, La città prigioniera (1962) di Mario Chiari e Joseph Anthony, Canto per un altro Natale (Carol for Another Christmas, 1964) di Joseph L. Mankiewicz (1964), Il ponte di Remagen (The Bridge of Remagen, 1969) di John Guillermin. Nella sua carriera fu determinante l'incontro con i registi della New Hollywood e in particolare con John Cassavetes che lo diresse in Mariti (Husbands, 1970), L'assassinio di un allibratore cinese (The Killing of a Chinese Bookie, 1976), La sera della prima (Opening Night, 1977) - e con Peter Bogdanovich, autore di Saint Jack (Id., 1979) e ...E tutti risero (They All Laugh, 1981). Fra gli altri film più significativi della sua carriera ricordiamo Storie di ordinaria follia (1981) di Marco Ferreri, Figlio mio, infinitamente caro (1985) di Valentino Orsini, Il camorrista (1986) Giuseppe Tornatore, Il giorno prima (1987) di Giuliano Montaldo, Più veloce della luce (Quicker than the Eye, 1988) di Nicolas Gessner, Nefertiti, figlia del sole (1995) di Guy Gilles, Il prigioniero (The Spanish Prisoner, 1997) di David Mamet, Buffalo '66 (1998) di Vincent Gallo, Il grande Lebowski (The Big Lebowski, 1998) di Ethan e Joel Coen, Happiness (Id., 1998) di Todd Solondz, Illuminata (1998) di John Turturro, S.O.S. Summer of Sam - Panico a New York (S.O.S. Summer of Sam, 1999) di Spike Lee, Dogville (2003) di Lars von Trier, Quartier Latin episodio di Paris, je t'aime (2006) di Gérard Depardieu, 13 - Se perdi muori (13, 2010) di Géla Babluani (2010) e Chez Gino (2011) di Samuel Benchetrit.
Ha anche diretto un film, Oltre l'oceano (1990). È morto a New York il 3 febbraio 2012.