Simenon al cinema

Simenon al cinema

La ragione per la quale non vedo né i film né i lavori televisivi tratti dai miei romanzi è facile da comprendere, anche se i giornalisti – io rispetto i giornalisti, anche quelli che mi detestano e mi offendono – non l'hanno ancora compresa. Scrivendo un romanzo, io vedo i miei personaggi e li conosco nei minimi dettagli. Come possono un regista, un attore, restituire questa immagine che esiste soltanto dentro di me? Non le mie descrizioni, che sono sempre brevi e sommarie, perché voglio lasciare al lettore il compito di far lavorare la sua immaginazione. Quale sarebbe la vostra reazione davanti a uno dei vostri figli che vi apparisse improvvisamente trasformato dalla magia della chirurgia estetica? Bene, la stessa reazione dolorosa è la mia davanti al migliore degli attori che interpreta uno dei miei personaggi. Perché dovrei sottopormi a questa sofferenza?

Georges Simenon




Vediamo di capirci. Simenon al cinema può voler dire parecchie cose. C'è il romanziere - prolifico e di successo come pochi altri in questo secolo - che il cinema corteggia e paga profumatamente per avere nei titoli di testa, utilizzando (e talora deformando, ma non è il solo a rischiare questa fine) storie, ambienti e personaggi il cui spessore è già per certi versi profilmico. C'è poi un Simenon che va al cinema: poco, molto poco a dire il vero ("La folla mi spaventa, anche in un cinema..."), ma volentieri cinéphile – è lui stesso a raccontarlo – negli anni d'oro delle avanguardie, quando per un Clair o un Buñuel si faceva volentieri a botte alle Ursulines. Al cinema ci va anche il suo alter ego, Maigret, trascinato dalla moglie, svogliato, e qualche volta anche da solo, nei tempi morti di un'inchiesta, attratto dal torpore ("buon caldo") della sala, che gli consente di "vagare con la mente", interrompendo la razionalità (non di rado inconcludente) dei circuiti logici. E non è ancora finita. Con oltre duecento romanzi all'attivo (per limitarci a quelli 'firmati') è inevitabile che il cinema entri, esso stesso, nella vita di alcuni dei personaggi che animano le sue storie. Tanto più in quanto ambientate in un'epoca (anni 'Trenta/Quaranta) e popolate da soggetti sociali (piccola borghesia urbana, generalmente) che assegnano al cinematografo una funzione ancora primaria, ben inscritta nei riti e miti della quotidianità. […] ; il cinema diventa – accanto a molte altre cose, naturalmente – scenario, luogo sociale, referente, testimonianza di un universo còlto per atmosfere, secondo le caratteristiche del romanzo psicologico. C'è infine, e la lasciamo per ultima perché è la più intrigante, la questione dello stile. La narrativa simenoniana si caratterizza per una scrittura asciutta ma fortemente evocativa, per la quale ogni minimo dettaglio deve, prima o poi, essere messo opportunamente a fuoco. Una scrittura essenzialmente visiva, è stato osservato. Per paradossale che possa sembrare, possedendo essa stessa "la caratteristica di trasformarsi immediatamente in immagini" (De Fallois), è una scrittura che può risultare maggiormente ostica in sede di ricostruzione filmica. Quando lo scrittore inizia la sua fortunata carriera si guarda bene dal cedere i diritti extra-letterari dei suoi lavori. Anni dopo, decide di non cedere neppure quelli letterari, procedendo al riacquisto di ciò che aveva "incautamente" venduto in gioventù. Non si può dire che gli mancasse il senso degli affari e la cinquantina di film tratti dai suoi romanzi (senza contare le serie televisive, una persino in Giappone) ha sicuramente avuto la sua parte nel conto in banca (che si dice essere stato favoloso). E tuttavia è questo, del tornaconto economico, l'unico pregio che egli sembra disposto a riconoscere al cinema. Addirittura proverbiale la diffidenza nutrita verso quanti – registi e produttori - mostravano di interessarsi ai suoi romanzi (le poche eccezioni, Renoir ad esempio, sembrano dettate più da rapporti di amicizia che da autentica stima per i possibili risultati). Diceva di averne visti pochissimi, di quei film, e anzi di averli voluti apposta evitare, per non restarci troppo male. Poi, però, mettendo a confronto dichiarazioni e interviste rese in tempi differenti, salta fuori che proprio del tutto disinformato non è. Un atteggiamento un po' contraddittorio, in linea con le asprezze, le radicalità, i trasalimenti, diciamo pure le idiosincrasie che al personaggio non sono mai mancate. Su un punto non ci sentiamo di dargli torto. Quando bolla la ridicolaggine di certa critica, che fermandosi a regolette scolastiche sosteneva l'impossibilità di portare sullo schermo i suoi lavori in quanto romanzi d'atmosfere: "Ancora parole! Ancora regole! E un romanzo senza atmosfere, che cosa mai sarebbe? E un film senza atmosfere?". Ha ragione lui: il problema non sta nella astrazione delle atmosfere, sta nella loro concretezza, tanto più necessaria in quanto esse giocano nelle pagine di Simenon – a differenza che in quelle di altri scrittori – un ruolo che non è 'accessorio': "L'atmosfera – scrive ancora Bernard de Fallois – è quel che un autore aggiunge alla sua storia: la racchiude. Qui, invece, è al centro del caso. La descrizione non è mai spaesamento, evasione artificiale, fascino delle cartoline, è sempre un modo per ristabilire la verità". In altre parole, il problema sta nella capacità, da parte del regista, di cogliere lo spirito del romanzo di partenza, lo spessore di ambienti e personaggi, la profondità degli aspetti drammatici in gioco. Una volta di più, in materia di rapporti fra cinema e letteratura, vale il principio dei doverosi adeguamenti linguistici a fronte di specifici codici differenziali. Per cui, la maggiore fedeltà (stilistica, ma anche d'assunti) può passare per il più esplicito tradimento (narrativo). Purché le "forme" salvino l'anima o, meno idealisticamente, la forma-film sappia restituire le suggestioni, gli interrogativi, le emozioni, in una parola il "piacere" della forma-romanzo. Restituire e magari arricchire (si veda Tavernier).

Roberto Ellero, Simenon al cinema, CircuitoCinema, Venezia 1990




Nonostante l'analitica precisione dei suoi ambienti e delle sue psicologie, la sovrabbondanza passionale e il susseguirsi incessante di eventi della sua narrazione, nonostante quella sua atmosfera minuziosa e avvolgente, fatta di abitudini, di passato e di riti di provincia, di occhi che osservano e di solitudini ricercate, Georges Simenon è stato trasposto in cinema molto meno di quanto la sua sterminata produzione letteraria potrebbe far supporre. Cinquantasette film tra il 1932 e il 1998 (parlo solo di cinema, non dei numerosi adattamenti televisivi internazionali), tratti da una trentina tra romanzi e racconti (compresi i Maigret), non sono tanti rispetto ai circa quattrocento che Simenon ha scritto. Certo, pare che una parte della sua produzione (soprattutto quella iniziale, scritta con pseudonimi diversi) sia abbastanza dozzinale; ma credo che una storia dozzinale di Simenon sia comunque molto più ricca, sottile e articolata di tanti sforzi di sceneggiatori e soggettisti cinematografici.
Cos'è allora che non avvicina quanto dovrebbe il cinema al complesso di un'opera che per il cinema pare nata? Certamente, non la paura della lesa maestà, visto che solo alcuni dei cinquantasette film in questione si preoccupano, non tanto del rispetto e della fedeltà al romanzo originario (che il film, opera autonoma, non è tenuto ad avere), ma semplicemente di arrivare a un analogo livello di profondità e suggestione. […] In sostanza, credo si possa affermare che pochi film da Simenon si elevano al di sopra di un'onesta produzione media (anche tralasciando i Maigret, che rappresentano un capitolo a parte). Per esempio, La nuit du carrefour di Renoir (che è un Maigret, ma è anche un Renoir), Les inconnus dans la maison e La verité sur Bébé Donge di Decoin, Panique di Duvivier, La Marie du port di Carné (non ho mai visto Il fondo della bottiglia, diretto nel 1955 da Hathaway). Sono rispettivamente del 1932, 1942, 1952, 1947 e 1950. Sono cioè tutti 'film d'epoca', talvolta (i primi) quasi contemporanei all'uscita del romanzo, tal'altra successivi di un decennio, ma comunque diretti da registi già maturi al tempo della stesura e della pubblicazione dei romanzi. Che fosse l'aria del tempo che andava respirata? Con le città di provincia, Lione, La Rochelle, Moulines, arroccate nelle loro dinastie borghesi e Parigi che conservava ancora squarci di provincia, con le famiglie che si tramandavano ancora il lavoro di padre in figlio e con le belle borghesi dalle caviglie esili che erano capaci di pazzie improvvise? Non è così, evidentemente, e la prova (ce ne fosse bisogno) è nelle opere di due autori che, per strade diverse e traverse, sono andati dritti all'anima della narrativa di Simenon: Claude Chabrol, che ha realizzato due film da Simenon, Il fantasma del cappellaio (1982) e Betty (1992), e che è, visceralmente, l'autore cinematografico più affine allo scrittore, e Bertrand Tavernier, che ha esordito nel lungometraggio nel 1974 con L'orologiaio di Saint-Paul, tratto da L'horloger d'Everton. Entrambi hanno riportato l'opera di Simenon ai giorni attuali, ma in nessuno dei due l'inserimento di echi contemporanei (L'orologiaio di Saint-Paul si situa esplicitamente nell'atmosfera esplosiva del conflitto generazionale e politico di fine anni Sessanta) snatura l'essenza, il senso dei romanzi. In tutti e tre i film s'intuisce che 'l'anima' è rimasta intatta. […] Il fatto è che la 'commedia umana' narrata da Simenon è talmente universale e talmente ancorata alla cultura e alla società moderne, talmente 'novecentesca', da andare ben al di là di occasionali mutamenti del costume. […] Michel Audiard, che ha adattato una decina di romanzi di Simenon, ha detto che i romanzi dello scrittore belga, per la loro ricchezza, sono fonti inesauribili di storie cinematografiche. Ma ha anche aggiunto: “Si crede che Simenon sia immediatamente traducibile in cinema; ma non è vero: tutto accade nella testa dei personaggi. Perciò, nell'adattarlo, non conservate praticamente niente, ma avete a disposizione l'essenziale, lo spessore, la polpa, partendo dai quali si possono fare mille cose”. La difficoltà di riportare sullo schermo i fatti tracciati da questo monologo interiore è stata sottolineata da molti dei registi che si sono avvicinati a Simenon: Carné ha detto che l'arte di Simenon è tanto grande da farvi credere a una densità di fatti, quando invece vi trovate in presenza solo della descrizione pregnante di un'atmosfera e di un tratteggio minuzioso di caratteri. Granier-Deferre ha sottolineato che il suo rigore drammatico è interno ai personaggi e che l'andirivieni continuo tra passato e presente che si svolge nella loro testa non è riproducibile al cinema, a meno di non praticare incessantemente il flashback. Mentre i critici André-Sylvain Labarthe e Jacques Siclier sottolineavano nel 1961 che fino ad allora uno dei "segreti essenziali" di Simenon, "la confusione dei tempi", sembrava essere sfuggita alla maggioranza degli adattatori; e questa era probabilmente una delle ragioni per le quali i film tratti dai suoi romanzi lasciavano quasi sempre insoddisfatti i suoi lettori.
Ma forse la spiegazione più efficace di queste difficoltà l'ha offerta lo stesso Simenon, rispondendo a Claude Chabrol (simenoniano nell'anima e nello sguardo, nel gelo e nella malinconia) che gli confidava i problemi di intreccio che aveva avuto con l'adattamento di I fantasmi del cappellaio. “Quando comincio un romanzo, conosco i miei personaggi principali, soprattutto il mio protagonista, ma non conosco nulla dell'intreccio. Parto, semplicemente, dall'inizio. Che vuol dire: cosa può essere successo nella vita di quest'uomo, che lo costringe ad andare fino al fondo di se stesso? Dal momento in cui trovo l'inizio di un mio romanzo, mi metto nella pelle di questo personaggio principale. Tutto è visto non dall'autore, ma da questo personaggio. I miei libri sono scritti d'istinto. Quindi, come vuole con l'intelligenza cambiare un'opera d'istinto?”. Il segreto vero del fascino e della potenza affabulante di Simenon era forse proprio questa capacità, questo bisogno, di adesione totale ai personaggi, tutti alter ego (non solo Maigret, ma anche gli avvocati, i giudici, i notabili, i fattori, gli industriali, i bottegai, gli uomini di mezza età troppo a lungo spenti e i giovani troppo nobili o troppo ignobili), fantasmi di una vita che avrebbe potuto essere piatta e altera, di un'ingordigia emotiva che non si faceva scrupolo di divorare gli altri, di un'urgenza espressiva che si manifestava irrefrenabile nella scrittura e nell'amore. Simenon, a chi lo legge, trasmette il piacere e la facilità della scrittura. Come può questo piacere, e come può il suo incessante rimuginare, tradursi in piacere del cinema? Probabilmente, l'unica strada per trasporre Simenon in cinema non è 'adattarlo', ma (come hanno fatto Tavernier e Chabrol) tradirlo, prenderne possesso, far vivere in se stessi e nei propri tempi quei personaggi lacerati ed esterrefatti dai loro stessi atti, star male con loro, e con loro prendere atto dei propri abissali baratri. [...]
È un peccato, forse, che Simenon non abbia mai provato a trasformarsi in autore di cinema, perché nelle sue continue, monologanti descrizioni, nei suoi rovelli, non ci saranno magari, come hanno lamentato in molti, dialoghi riproponibili o 'fatti' riproducibili, ma certamente ci sono una densità di vita, di moralità e immoralità, una conoscenza dell'anima nelle sue sfumature più cupe o più disarmate, che fanno la base di ogni grande racconto, cinematografico e non. C'è il senso della Storia che, impercettibile, impone il proprio andamento a ogni esistenza, e c'è quella qualità 'anti-intellettuale' del racconto che lo stesso Simenon riconosceva con ammirazione a Fellini. “Lei è, come me, e credo di averglielo già detto, un istintivo; e quello che ha registrato involontariamente durante la sua infanzia, e quello che registra ancora inconsciamente oggi, lei lo restituisce con una forza accresciuta che fa delle sue opere opere universali. A un livello inferiore, è lo stesso per me. Ed è stato lo stesso, per tutta la sua vita, per Jean Renoir. Noi siamo un po' come delle spugne che aspirano la vita senza saperlo e che poi la rendono trasformata, senza conoscere l'alchimia che si è prodotta in noi». Quell'alchimia e quell'istinto sono il grande segreto di Simenon; probabilmente impossibili da riprodurre, possono essere ricreati solo da autori cinematografici che li possiedano già.

Emanuela Martini, Georges Simenon... mon petit cinéma, Bergamo Film Meeting 2003




Della cinquantina di titoli che compongono la "involontaria" filmografia simenoniana, più di due terzi traggono origine dai lavori dove Maigret non compare. Film soprattutto francesi, ma anche inglesi, americani, tedeschi (curiosamente, non un italiano). Dei non francesi è presto detto: anche quando il regista si chiama Hathaway (The Bottom of the Bottle, 1955), Simenon resta uno spunto letterario, un soggetto da collocare magari in luoghi irriconoscibili (irriconoscibili nonostante gli stessi frequenti esotismi simenoniani) e secondo usanze narrative convenzionali. Sono i film francesi a meritare maggiore attenzione. Per Simenon passano i registi del realismo poetico (Duvivier, Carnè), i maestri o soltanto abili artigiani del noir (Clouzot e Melville; Decoin, Lacombe e Delannoy), i cineasti grand public (Verneuil, De La Patellière, Molinaro), qualche mestierante di poco conto ma anche signori registi (Chabrol), autori rigorosi (Tavernier), vecchi e nuovi outsider di non facile classificazione (Autant-Lara, Granier-Deferre, più di recente Patrice Leconte). Passano per Simenon sessant'anni di cinema francese, di stili, tendenze, modi di intendere e fare il cinema. È peraltro curioso che 'l'altro Simenon' tardi a giungere sugli schermi: i primi film non maigretiani arrivano con la guerra, dopo che la grande stagione del realismo s'era già conclusa da un pezzo. Forse perché l'individualista Simenon piaceva poco ai registi del Front Populaire, forse perché ci vuole una tragedia collettiva come la seconda guerra per accettare e comprendere il senso di decadimento, l'odore di morte, l'ineluttabile solitudine che molte pagine di quest'altro Simenon impongono al lettore, ben oltre la dimensione 'sociale' del pessimismo 'frontista'.
È un grande Raimu, attore sommo secondo Orson Welles, a renderci palpabile il malessere dell'avvocato Loursat (Les inconnus dans la maison, 1941) e la calda umanità del clochard La Souris (Monsieur La Souris, 1942), mentre spetta ad un altro mostro sacro del cinema d'oltralpe, Michel Simon, il compito d'incarnare sullo schermo la diversità dell'innocente/colpevole Monsieur Hire (Panique, 1946). All'indomani della barbarie nazista non è senza significato il calvario di questo ebreo appartato e un po' schivo, diciamo pure antipatico, condannato senza processo per le sue abitudini e il suo aspetto fisico più che per l'omicidio di cui è sospettato (e che del resto non ha commesso).
Altri Simenon si avvicendano sullo schermo, e mentre alcuni romanzi (anche importanti, come il citato Testament Donadieu) rimangono volentieri ignorati, s'inaugura la moda dei rifacimenti, per la quale sembrano particolarmente versati gli inglesi. Prima di imbattersi in Maigret, Jean Gabin passa per l'altro Simenon. Ed è una esperienza tutt'altro che facile perché apre (con La Marie du port di Carnè, 1949) e chiude (con En cas de malheur di Autant-Lara, 1958) una seconda fase del mito Gabin. Il proletario s'è imborghesito; già avanti con gli anni, s'innamora di donne generalmente molto più giovani di lui, destinate a ribaltare i ruoli.
Torbido, fosco, inguaribilmente pessimista, attratto dalle zone d'ombra e dai lati oscuri dell'esistenza: il Simenon noir è quello che più affascina i cineasti, i quali spesso dimenticano che la crudeltà dello scrittore - se crudeltà si può chiamare -non è mai un punto di vista. Come Maigret, che osserva e non giudica, familiarizzando sovente con i 'colpevoli', anche l'altro Simenon racconta e si guarda bene dal prendere partito, entomologo di una commedia umana a proposito della quale anche la critica meno condiscendente non può più fare a meno di tirare in ballo i nomi di Balzac e Dostoevskij. È soprattutto negli anni '70, dopo che molti schematismi critici sembrano essere definitivamente saltati, che Simenon trova sullo schermo i suoi migliori interpreti. Di Granier-Deferre, autore di quattro film d'après Simenon, come non ricordare l'atroce jeu de massecre dell'anziana coppia de Le chat (1971)? In quei risentiti silenzi, in quel volontario escludersi alla comunicazione anche fra persone che si sono amate e che forse, a modo loro, continuano ad amarsi, c'è tanto di quel Simenon da far perdonare al cinema certe sciatterie del passato. E non bastasse Granier-Deferre (del quale, notevoli, restano anche La veuve Couderc, del '71, e L'Etoile du Nord, dell'82), ecco l'asciutta agnizione del Tavernier de L'horloger de Saint-Paul (1973), ritratto di un borghese che 'si' ritrova nell'istante in cui accetta di 'bruciare' l'immagine stereotipata con cui ha vissuto; ecco il sottile ma profondo legame di complicità che viene ad unire i rispettabilissimi dirimpettai dello Chabrol de Les fantômes du chapelier (1981). I tempi sono finalmente maturi perché anche certi repéchages non si limitino all'operazione del mero ricalco. Riportando sugli schermi, a distanza di oltre quarant'anni da Duvivier, uno dei romanzi più complessi ed intriganti di Simenon (Les fiancailles de Monsieur Hire), Leconte 'attualizza' i termini del conflitto. Hire è ancora un 'diverso' senza il bisogno che la sua ebraicità venga sottolineata. È piuttosto un timido, un immaturo, un voyeur che vive 'innocentemente' i suoi peccati. Vede ciò che non dovrebbe ma, ancora una volta, non è l'oggetto del desiderio (il corpo di Alice, spiato alla finestra) la fonte dei suoi guai, bensì le prove di un delitto di cui egli stesso, in ragione della sua diversità, diviene il primo indiziato. Ancora la solitudine, l'impossibilità di comunicare, gli equivoci della vita, la labilità della linea di demarcazione fra innocenza e colpevolezza, la crudeltà del destino e degli uomini. Ancora Simenon, in definitiva.

Roberto Ellero, Simenon al cinema, CircuitoCinema, Venezia 1990