Daguerréotypes

Daguerréotypes

Soggetto e sceneggiatura: Agnès Varda. Fotografia: Nurith Aviv, William Lubtschansky. Montaggio: Gordon Swire, Andrée Choty. Suono: Jean-François Auger, Antoine Bonfanti. Missaggio: Maurice Gilbert. Interpreti: i commercianti della rue Daguerre. Produzione: Ciné-Tamaris. Durata: 80’

Restaurato nel 2014 da Ciné-Tamaris presso i laboratori Éclair, con il sostegno del CNC




Agnès Varda sul film


Daguerréotypes non è un film sulla rue Daguerre, pittoresca via del 14° arrondissement, è un film su un pezzetto di quella strada, tra il civico 70 e il civico 90, è un documento modesto e locale su alcuni piccoli commercianti, uno sguardo attento sulla maggioranza silenziosa. È un album di quartiere, sono ritratti stereo-dagherrotipati, sono archivi per gli archeo-sociologi dell’anno 2975. Come nella rue Mouffetard, dove ho girato il mio Opéra-Mouffe, Daguerréotypes è il mio Opéra-Daguerre.
(1978)



Intorno al 1973 Eckart Stein della ZDF mi aveva dato carta bianca per il suo programma più o meno di nicchia e io gli avevo espresso il mio desiderio di filmare oggetti, persone immobili e perfino volti di defunti. Nella via in cui abitavo c’era poi un negozio che mi affascinava, Le Chardon Bleu, le cui vetrine erano immutabili, come la morte di un negozio. Eppure vendeva normalmente articoli di merceria e profumi al litro. Il pretesto per iniziare il film mi fu fornito da un mago che incollò nel caffè del quartiere un manifesto che annunciava il suo spettacolo per il sabato successivo. Agitai in direzione di Magonza la mia carta bianca che si trasformò in un assegno. Tirammo fuori le nostre riserve, l’INA mise il resto. Così è nato Daguerréotypes, un film sui commercianti del mio isolato in fondo alla rue Daguerre, lato avenue du Maine, riuniti da Mr. Mystag per uno spettacolo al caffè (senza aumento del prezzo delle consumazioni).
(1994)



Non mi interessava fare un film politico. Non sono andata a chiedere: E il fisco? E le tasse? E il futuro? Non vuole che cambi qualcosa? Come vota? Ho invece cercato un approccio del tutto quotidiano, cercando di cogliere il modo di vivere di queste persone, i loro gesti.
(1975)



Ho fatto tirare un filo elettrico dal contatore di casa mia, era lungo novanta metri. Ho deciso di girare Daguerréotypes entro quella distanza. Non volevo andare più in là del mio filo. Avrei trovato qualcosa da filmare là, e non oltre. Ho capito solo qualche tempo dopo perché i miei vicini mi affascinassero tanto. Il fatto è che filmandoli avevo potuto restare vicina a quel bambino che ero riluttante ad affidare a una babysitter e che non volevo lasciare. Ciò che era stato dettato da esigenze organizzative rivelava ben altro. Per esempio, per non disturbare i commercianti illuminavamo i negozi agganciando al nostro contatore un grosso cavo elettrico che andava da casa nostra alle loro attività passando per la fessura della cassetta delle lettere. Il cavo era lungo novanta metri, impossibile illuminare e filmare oltre. In seguito ho ripensato a quel filo che mi aveva tenuta attaccata alla casa e al piccolo Mathieu. Era il cordone ombelicale, non era stato ancora veramente tagliato!
(1994)


Il talento, quando si è documentaristi, è riuscire a farsi dimenticare. Aver annunciato le proprie intenzioni. Aver detto: adesso accendo le luci, mi metto là, ma dopo dimenticate che esisto. È a partire da quel momento in cui ve-niamo dimenticati che si vede il nostro talento. Ma il tema principale sono loro. Non io. [...] Dire loro: cominciamo là dove la televisione si ferma. Noi stiamo accanto a voi. Accettate che si filmi tutto, e non solo quello che voi trovate importante! [...] Il lavoro documentario non è semplicemente tecnico e cinematografico. Sta nell’avvicinarsi alle persone, nell’ascolto, e naturalmente anche nei piccoli espedienti per farle parlare, ma mettendole in una situazione in cui tutto possa andare bene.
(1987)



Ho tentato di combinare tra loro fiction e documentario. È un errore credere che il documentario sia più facile del film di fiction. Al contrario, richiede un’opera più precisa di registrazione, di selezione e poi di ricostruzione. Molto più tempo, pazienza, attenzione e sforzi. Sia come autore di documentari, sia come autore di fiction, ci si trova comunque in quella stimolante no man’s land che divide la cosa rappresentata dalla rappresentazione. Ne deriva un continuo e difficile va-e-vieni, per cui la mia collocazione non si è mai precisata una volta per tutte.
(1983)



Non credo al cinéma-vérité. Anzi, non credo neanche al documentario oggettivo. I documentari sono tutti soggettivi. Caratteristica del documentario è che il soggetto principale è proprio il soggetto, o il gruppo o la casa che si vuol far vedere. Tendo a sentire nello stesso modo il desiderio di fare documentari o fiction, mescolando le tecniche e gli stili. Mi piace molto fonderli insieme. Tuttavia resta una differenza fondamentale nel documentario: il soggetto non sono io o il mio stile, ma il soggetto stesso. E necessario che questo predomini, anche se la mia interpretazione sarà soggettiva. Nella fiction predominano le mie emozioni, i miei istinti, in cui vengono poi a inserirsi alcuni elementi documentaristici.
(1986)



Le dichiarazioni di Agnès Varda sono tratte da:
Intervista di Mireille Amiel, “Cinéma 75”, n. 204, dicembre 1975
Intervista di Andrée Tournès, “Jeune Cinéma”, n. 140, febbraio 1982
“Cicim”, n. 4, febbraio 1983
“Séquences”, n. 126, ottobre 1986
Intervista con Colette Milon, “Cinémaction”, n. 41, 1987
Varda par Agnès, Éditions Cahiers du cinéma, Parigi 1994



Antologia critica


Agnès Varda è rimasta fedele alla propria maniera, ma conserva la stessa forza d’immaginazione, lo stesso amore per le forme unito alla volontà di attraversarle, di andare al di là della loro bellezza o della loro falsa banalità [...]. Daguerréotypes ha la tristezza di un addio al commercio al minuto, alle piccole vie familiari minacciate dal cemento (la rue Daguerre vive all’ombra della Tour Montparnasse), ma è una tristezza mescolata al piacere di dimostrarci che ciò che troviamo familiare contiene anche la magia, il meraviglioso, a patto di saperlo guardare.
Michel Pérez, “Le Quotidien de Paris”, n. 379, 28-29 giugno 1975



Meravigliosa Agnès Varda, pittrice di vita, fedele ai volti e a tutto ciò che esprimono, inginocchiata in un angolo del negozio come le donatrici effigiate sulle antiche vetrate, presente là dove i profumieri, i macellai, i panettieri, i venditori di fisarmoniche, ma sì, le librerie e i negozi di ferramenta difendono, giorno dopo giorno, le loro personali Verdun, gli amori del 1925 – ricordi quel ballo dove ho piantato la mia dama per te? – il margine di profitto che si restringe, il gusto di conversare, la cortesia dell’accoglienza. Ogni gesto riacquista nobiltà: il pane infornato, la costoletta tagliata e quei bottoni bianchi a venti centesimi presi sopra l’armadio... Un’ora di vita. Il respiro sospeso. La tenerezza irresistibile per tutte queste persone che un’ora fa non conoscevamo.
Claude Manceron, “Télérama”, n. 1404, 8 dicembre 1976



Agnès Varda ha filmato il suo vicinato. Né reportage né documentario tradizionale, Daguerréotypes è ciò che lei stessa ben definisce “cinema di quartiere”. Uno spettacolo della realtà in cui i commercianti e i passanti sono diventati personaggi di Varda, sotto lo sguardo curioso e affettuoso che la regista riserva alle sue ‘creature’. Le immagini sono belle, con, a volte, inquadrature studiate. Non un pittoresco ‘populista’ ma una sorta di fantastico sociale che nasce dalla ripetizione dei gesti quotidiani, da un immobilismo delle abitudini e dei modi d’essere [...]. Agnès Varda ha colto, al di là del realismo, il mito collettivo di persone fissate nel passato, nelle loro tendenze naturali. Il piccolo commerciante, l’artigiano. Insieme fotografa e cineasta, ha svelato con i suoi ‘ritratti animati’ il mistero del quotidiano.
Jacques Siclier, “Le Monde”, 2 marzo 1979



Agnès “la daguerréotypesse” (così si firma), ha realizzato il ‘dagherrotipo’ più bello. Ottantacinque metri di rue Daguerre – la via in cui abita – filmati con rispetto, pudore, tenerezza. Dieci piccole attività, dal panificio alla merceria, dalla macelleria all’autoscuola.[...] Il pittoresco c’è, ovviamente: un negozio in cui si insegna la fisarmonica, una meravigliosa merceria d’altri tempi che avrebbe fatto la felicità di Nicole Védrès e si chiama Le Chardon bleu. Ma dietro il pittoresco c’è soprattutto la spaventosa stanchezza di una vita dall’orizzonte così limitato. E a poco a poco ecco che questi volti chiusi, ostili, aspri, li scopriamo commoventi. Ma i volti, gli sguardi, non sono tutto. Agnès Varda ha impiegato quattro mesi a montare il suo film. E con l’intelligenza del montaggio ci fa scoprire ciò che condiziona questi pochi rappresentanti della maggioranza silenziosa. [...] Quale parte dei loro sogni hanno soffocato questi uomini, queste donne che non scherzano con i soldi faticosamente guadagnati e per i quali il fuoco serve solo a cuocere il pane e i coltelli servono solo ad affettare le bistecche? Li hanno repressi così bene, i sogni, che affermano in buona fede di non averne. E quando uno di loro accenna ai propri sogni notturni è solo per raccontare le preoccupazioni sulle quali rimugina prima di dormire... Vite senza sogni, vite recluse, vite dalle quali hanno premurosamente – loro, o l’esistenza stessa – cancellato ogni speranza? Non proprio. Nei loro occhi così tristi trapela a volte un brivido, un sogno mai confessato.
Claude-Marie Trémois, “Télérama”, 7 marzo 1979



Sorrisi congelati, sguardi di sottecchi, espressioni contrite, è tutta la vita che passa, triste e allegra, buffa e patetica. “I misteri dello scambio quotidiano”, come dice Agnès Varda commentando con estrema discrezione. Come l’illusionista Mystag, la cineasta risveglia un mondo dopo averlo addormentato con un colpo di bacchetta magica. Filma il gesto augusto del macellaio che taglia le costolette, le mani dei clienti che contano i soldi, la sonora risata del parrucchiere; solleva il sipario sulla monotonia del reale e lo riabbassa sullo sguardo sconvolgente di Madame Chardon Bleu che fa qualche passo fuori del suo negozio al crepuscolo.
Claude Beylie, “Ecran 79”, n. 79, 5 aprile 1979



Agnès Varda racconta i fatti della sua vita quotidiana come un memorialista. I suoi sforzi sono tesi a ‘rendere-conto-di’: la cinepresa funge da registratore di cassa e da strumento di lavoro. Tuttavia Daguerréotypes non punta all’esattezza sociologica, politica o realistica. Daguerréotypes è un monologo di Agnès Varda sulle persone che in qualche modo le piacciono. [...] Agnès Varda è molto chiara: il suo sguardo tenero non sottace alcuna forma di adesione. Testimonia senza falsare, ma non nasconde le valutazioni personali. Più che le immagini di Daguerre, questo Daguerréotypes fa venire in mente i disegni a colori del XVII e del XVIII secolo con le figure solo a tratti caricaturate dei venditori ambulanti: tutti fieri nella consapevolezza del ruolo, sono commoventi nel loro essere logori. Li riscopriamo con quello sguardo un po’ ironico con cui li aveva visti l’artista, ritraendoli in punta di penna, e la nostra tenerezza va innanzitutto a quell’anonimo disegnatore. Così Daguerréotypes è un film di Agnès Varda su Agnès Varda che guarda gli altri. Al di là dei ritratti, è il colpo d’occhio dell’autore che ci coinvolge.
Françoise Audé,“Positif ”, n. 218, maggio 1979



La cineasta e la sua piccola troupe si introducono nei negozi come topolini, con la massima discrezione. Documentando le storie personali del macellaio o del panettiere, le origini provinciali, l’arrivo a Parigi, il lavoro, la pensione, Varda crea così bene una serie di ritratti in movimento da svelare possibilità romanzesche. Ogni soglia di negozio varcata dischiude anche un ricco materiale narrativo, i muri, i banconi, gli sguardi e i gesti raccontano ricordi e tracce di vita quanto le parole degli affabili commercianti.Circoscritta al suo tratto di marciapiede, Varda inventa così un autentico “cinema di quartiere” ridando lucentezza, tenerezza e sapore al quotidiano più prosaico e abitudinario che esista: la propria via.
Serge Kaganski, “Les Inrockuptibles”, novembre 1995