Cléo dalla 5 alle 7

Cléo dalla 5 alle 7

Soggetto e sceneggiatura: Agnès Varda. Fotografia: Alain Levent, Jean Rabier. Montaggio: Pascale Laverrière, Janine Verneau. Scenografia: Jean-François Adam, Bernard Evein. Musica: Michel Legrand. Interpreti: Corinne Marchand (Cléo), Antoine Bourseiller (Antoine), Dominique Davray (Angèle), Dorothée Blank (Dorothée), Michel Legrand (Bob), Loye Payen (Irma, la cartomante), Jean Champion (il padrone del bar), Jean-Pierre Taste (il ragazzo del bar), Renée Duchateau (la venditrice di cappelli), José Luis de Vilallonga (l’amante di Cléo), Serge Korber (Maurice), Raymond Cauchetier (Raoul, il proiezionista), Robert Postec (dottor Valineau). Produzione: Georges de Beauregard e Carlo Ponti per Rome-Paris Films. Durata: 90’

Restaurato nel 2012 da Ciné Tamaris presso gli Archives Françaises du Film del CNC e Digimage, con il sostegno del CNC


Alle 5 del pomeriggio, il 21 giugno 1961, Cléo scoppia a piangere da una cartomante. Attende il risultato di un esame medico. Ha paura di avere un cancro. Cléo esce. Tutti la guardano. È una donna splendida, civettuola e capricciosa. Compra un cappello e rincasa in taxi. Per novanta minuti, in mezzo a orologi a pendolo che segnano il trascorrere del tempo, non la abbandoniamo per un istante. La sua governante, il suo amante e i suoi musicisti non capiscono la sua ansia. Ripete una canzone, il cui testo la turba. Esce nuovamente, sola. La paura l’ha svegliata. Inizia a osservare gli altri, i passanti, gli avventori dei caffè e un’amica premurosa. Va in un parco a guardare gli alberi e incontra un soldato a fine licenza. La complicità che nasce tra i due, in questo momento pericoloso delle loro vite, placa Cléo. Lui l’accompagna all’ospedale prima di ripartire per la guerra d’Algeria. Vivono un momento di grazia nel giorno più lungo dell’anno.




Agnès Varda sul film



Un ritratto di donna inserito in un documentario su Parigi, ma è anche un documentario su una donna e l’abbozzo di un ritratto di Parigi. Dalla superstizione alla paura, da rue de Rivoli al café du Dôme, dalla civetteria all’angoscia, da Vavin alla gare du Maine, dall’apparenza alla nudità, da Parc Montsouris alla Salpêtrière, Cléo scopre, un po’ prima di morire, il colore strano del primo giorno d’estate, nel quale la vita diventa possibile.
(1962)



Un piccolo film, una ‘scommessa su Parigi’. Volevo girare La Mélangite a Sète e a Venezia, a colori e in costume. “Troppo caro” mi disse Beauregard, a cui Demy mi aveva presentata. “Faccia un piccolo film in bianco e nero che non costi più di trentadue milioni”. Ho subito pensato di girare a Parigi in una sola giornata (risparmiando su viaggi e rimborsi spese, costumi e complicazioni). Cosa suscitava in me Parigi? Una paura diffusa della grande città e dei suoi pericoli, di perdermici sola e incompresa, magari anche spintonata dai passanti. [...] Senza perdere di vista il piano finanziario della produzione, ho pensato a un film minimalista collocato in una continuità temporale. Vi ho aggiunto un percorso reale che può essere tracciato su una vera mappa del centro di Parigi (il gioco era questo, un “pari sur Paris”, una scommessa su Parigi).
(1994)



Cléo rappresenta bene l’associazione insopportabile tra bellezza e morte. Ho avuto la fortuna che la magnifica Corinne Marchand, con la sua grazia e la sua sensibilità, potesse a quel punto essere Cléo. E che Antoine Bourseiller interpretasse con delicatezza un soldato alla Giraudoux.La guerra d’Algeria era reale e i giovani costretti a combatterla ne erano devastati. Volevo che questo soldato, insieme a Cléo, fosse al di fuori del tempo, al di fuori della paura, almeno nel momento molto breve del loro incontro. Prima di giungere a quel finale distensivo bisognava trascorrere novanta minuti con poche azioni, soprattutto sensazioni furtive e discontinue.
(2012)


I dipinti di Hans Baldung, belli e spaventosi, sono ben presto diventati il senso del film e la sua forza: la bellezza e la morte. Raffigurano donne, belle nel loro incarnato biondo, ghermite da uno scheletro che la maltratta o le terrorizza. In uno dei quadri lo scheletro afferra la donna per i capelli. È la paura, la vera grande paura, la morte per cancro. Cléo attende i risultati di un esame medico. La paura la sveglia. "Tutti mi vogliono, nessuno mi ama", dice. A metà film, precisamente a quarantacinque minuti dall’inizio, Cléo si strappa via la parrucca, si toglie la vestaglia provocante e se ne va tutta sola, vestita sobriamente. Osserva, si apre al mondo. Inizia a vedere le cose e le persone in maniera più semplice.
(1994)


Il film si snoda al presente. La macchina da presa non abbandona mai Cléo dalle cinque alle sei e mezzo. Se il tempo e la durata sono reali, lo sono anche i tragitti e le distanze. All’interno di questo tempo meccanico, Cléo sperimenta la durata soggettiva: “il tempo non passa mai” o “il tempo si è fermato”. Lei stessa dice: “Ci resta così poco tempo” e, un minuto dopo: “Abbiamo tutto il tempo”. Mi è sembrato interessante far sentire questi movimenti vivi e diseguali, come una respirazione alterata, all’interno di un tempo reale in cui i secondi si misurano senza fantasia.
(1962)



Temevo di annoiare, così ho interrotto la passeggiata angosciata di Cléo con una distrazione, un piccolo film burlesco prima di rituffare Cléo nella superstizione degli specchi rotti. [...] È un mini film burlesco infilato nel film per segnare una pausa nel racconto dell’angoscia di Cléo. Con il senno di poi, questi pochi minuti di dolcezza tra Jean-Luc Godard e Anna Karina e l’allegria degli altri attori nelle loro brevi apparizioni possono essere visti come una vetrina della nouvelle vague, famosa in tutto il mondo.
(1994)



Quando immaginavo Cléo in pericolo, la minaccia era bianca come sarebbe la morte. Avevo letto che in Oriente il colore del lutto è il bianco. E io avevo creduto di morire fulminata con due riflettori negli occhi, di morire quindi per eccesso di luce. Ho usato il bianco come sensazione. È uno sfondo che minaccia di invadere l’inquadratura e sul quale si delineano gli elementi neri. Nel monolocale di Cléo, spazioso e bianco, si staglia il letto nerissimo (la scenografia è di Bernard Evein). Jean Rabier, il direttore della fotografia, ha creato questa impressione di luce diffusa catturando la luce naturale, soprattutto quella proveniente dalle vetrate, con pannelli riflettori e teli bianchi. Jean, oltre a essere una persona squisita, aveva il talento di adattarsi alle variazioni della luce naturale aggiungendovi un minimo di luce elettrica. [...] Ho imparato a lavorare con la luce, soprattutto con quella naturale, a vedere il bianco e il nero come colori. [...] Sin dalle prime immagini di Cléo dalle 5 alle 7 i tarocchi colorati della cartomante raccontano il futuro virtuale di Cléo, come menzogna o premonizione. Ma quel futuro nascosto nelle carte e il silenzio della cartomante turbata dall’impiccato spaventano Cléo. Tutto il film è il racconto delle sensazioni e delle emozioni generate da tale paura. Come un breve prologo inserito nel racconto, questo inizio di Cléo dalle 5 alle 7 è a colori. O meglio, lo sono il tappeto da tavolo e le carte. Sulle immagini scorrono i titoli di testa. Il film è annunciato a colori, quel che vede la cartomante è una finzione, poi vediamo il viso sconvolto di Cléo, in bianco e nero come il resto del film.
(1994)


Ovunque vada, anche in giro per il mondo, mi parlano di Cléo e piovono i complimenti. Tutti questi fiori e corone sul mio lavoro avrebbero potuto stordirmi o rendermi pretenziosa. No. Se sono stati scritti bellissimi testi e belle lettere è perché il film, interpretato da attori eccellenti, e il suo soggetto suscitano emozioni e riflessioni. Il mio progetto è stato compreso bene: misurare il tempo, quello degli orologi, un minuto dopo l’altro, alla luce della preoccupazione di Cléo, seguendo il ritmo disuguale e soggettivo delle sue sensazioni. Avevo in testa un metronomo in continuo movimento e un assolo di violino, commovente. Desideravo che a essere udito fosse il violino. [...] Adesso so che Cléo esiste come personaggio cinematografico capace di vivere nei ricordi.
(2012)

 

Le dichiarazioni di Agnès Varda sono tratte da:
Testo di presentazione del film, 1962
Intervista di Michel Capdenac, “Les Lettres françaises”, n. 922, 12-18 aprile 1962
Intervista di Jean Collet, “Télérama”, n. 641, 29 aprile 1962
Varda par Agnès, Éditions Cahiers du cinéma, Parigi 1994
Dichiarazione in occasione della presentazione del restauro del film al festival di Cannes, 2012




Antologia critica


A colpirci in questa luce intensa e bianca è la fragilità di una carne così piena e ricca, è il paradosso della morte, l’inspiegabile degradarsi di quel che pareva inalterabile. Anche qui Agnès Varda, con la perfezione della sua fotografia e ancor più con la rettitudine della testimonianza, con il rifiuto di ogni pregiudizio romantico (nel senso volgare del romanticismo), con l’impassibilità della Visione, impassibilità violenta, quasi minacciosa, e nella quale si percepisce come una sensibilità pietrificata, trova il tratto più affilato e più netto per delineare questa vita così sorprendentemente affermata nell’istante stesso del suo smembrarsi, per armonizzare in un medesimo movimento, in un medesimo conflitto, due forze nemiche, come in una luminosa danza della morte, la felicità e la disperazione, la felicità di esistere e la disperazione di morire. È il tempo a governare e scandire questa esitazione eterna.
Pierre Marcabru, “Combat”, 11 aprile 1962



La realtà di Cléo è anzitutto la realtà profonda del nostro tempo, dell’anno 1961 nel quale si trascinava la guerra d’Algeria, ‘pas drôlede guerre’. È importante che il film, come la Giovanna d’Arco di Carl Dreyer, sia stato ‘girato in sequenza’, sequenza temporale e sequenza spaziale [...]. Ogni cosa contiene il tutto. Una goccia di rugiada può riflettere l’intero universo, come amavano ripetere Ėjzenštejn e Dovženko. Novanta minuti della vita di una parigina possono contenere le angosce e le preoccupazioni di una nazione, la Francia, quand’anche per gli spiriti superficiali il suo universo non fosse che un piccolo mondo di sarte e fioraie, di parolieri e paparini. [...] Ho nel cuore, da allora, una piaga aperta. Non ci era mai stato fatto vedere così bene questo nostro tragico tempo dei ciliegi, con la morte e la tortura a ogni angolo della strada, negli spettacoli quotidiani. E questa angoscia non è niente di metafisico, è tutta fisica... Avrò il coraggio di rivedere Cléo? Questo film mi tocca troppo in profondità. E non mi piace star male... Ma se volete sapere cos’è un film vero, moderno, veramente del nostro tempo, se volete veder vivere gli eroi di oggi, se volete anche divertirvi – perché nella sua tragicità questa storia è molto buffa – allora via, non lasciatevi sfuggire Cléo dalle 5 alle 7.
Georges Sadoul, “Les Lettres françaises”, n. 922, 12-18 aprile 1962



Diciamo subito che questo film si trova sul piedistallo di una mia gerarchia tutta personale: Cléo dalle 5 alle 7, secondo me, il più bel film francese dopo Hiroshima mon amour, La dolce età e Il buco. Non c’è niente di più ammirevole di un’intelligenza nutrita di sensibilità, se non una sensibilità diretta dall’intelligenza. Niente di più raro di uno spirito appassionato tanto dal rigore quando dalla fantasia, se non un temperamento iper-istintivo e insieme lucidissimo. Cléo perciò è nello stesso tempo il più libero dei film e il più costretto dai condizionamenti, il più naturale e il più formale, il più realista e il più prezioso, il più coinvolgente a vedersi e il più bello a guardarsi. [...] Le armi della seduzione della Varda sono molteplici: i dialoghi, la bellezza delle immagini e quella della protagonista, la ricchezza inventiva della messa in scena fanno di lei ‘lo stile'
Roger Tailleur, “Positif ”, n. 44, marzo 1962



Agnès Varda eccelle nella ripresa in diretta ma supera lo stadio del documentario e i limiti evidenti del cinéma-vérité perché tutti i fotogrammi filmati camminando per le vie di Parigi sono ripensati e incorporati in un montaggio brillante che suggerisce ancor meglio la stanchezza e l’angoscia di Cléo (le maschere, gli studenti travestiti, il litigio nel caffè, il mangiatore di rane, il saltimbanco che si perfora il braccio, ecc.). “Documento soggettivo”: la definizione applicata dall’autrice al proprio film non resta forse la migliore?
Jacques Belmans, “Marginales”, n. 87, 1962



L’attesa di un verdetto che già conosce comporterà per Cléo tre conseguenze essenziali. La prima, la più evidente, sarà l’alterazione del suo sguardo. Noterà cose che normalmente non la colpiscono, compirà scelte diverse nel suo spettacolo, diventerà sensibile a tutto ciò che, da vicino o da lontano, evoca la malattia, il sangue, la bruttezza. Seconda conseguenza: l’alterazione del tempo. “Non mi piace raccontare una storia” scrive Agnès Varda, “ma ciò che accade nei momenti importanti di una storia: quel che fa Antonioni mostrando i tempi deboli. Mi piacerebbe trattare i momenti da cui non ci si aspetta nulla e che si rivelano più toccanti degli altri”. La storia di Cléo, nelle due ore in cui la seguiamo per Parigi, è fatta tutta di questi momenti da cui non ci si aspetta nulla, perché il solo momento che conta, il solo momento importante, è quello che giungerà alla fine. Il tempo è come svuotato del suo contenuto, sospeso, immobile.
Bernard Pingaud, “Arsept”, n. 1, gennaio-marzo 1963