Il film raccontato dal regista

Il film raccontato dal regista

Un film sulla cultura popolare

Ecco una delle idee di base di Novecento: film sulla cultura popolare, secondo Gramsci, e nel senso di Pasolini. E una chiave precisa: l'identificazione delle masse non tanto con i personaggi di finzioni narrative, ma con questi che si scollano dal loro ruolo letterario per diventar personaggi della Storia. Dunque, anche un'accettazione dei luoghi tipici della narratività, addirittura ottocentesca: sia in senso nazionalpopolare, sia criticamente, come rivisitazione neoretorica. Insomma, una formula è una formula: la differenza è che nelle sedi ottocentesche originarie gli archetipi narrativi erano spesso condannati a soluzioni di tipo psicologico. In Novecento, ci si ritrova nel mondo delle idee: cioè si fanno i conti con l'ideologia. E proprio utilizzando formule che sono sempre state adoperate per fini psicologici.

Com'è fatto? C'è una divisione segreta in quattro stagioni. La grande estate dell'infanzia e dell'adolescenza ai primi del secolo, coi primi rapporti tra il figlio del contadino e il figlio del padrone, in un'aura ancora ottocentesca, poetica, lirica. Molta campagna. Molta Emilia. Molto Verdi. Verdi che aveva sempre dei punti di riferimento nella campagna intorno alla sua casa. Comincia con uno che corre attraverso i campi gridando appunto: "È morto Verdi!". Sono i funerali dell'Ottocento, i personaggi del dopo-Verdi si vedono già come dei sopravvissuti... Poi l'autunno che precede il fascismo; e il lungo inverno fascista durato vent'anni: soprattutto psicologico, perché il fascismo pretende psicologia.

Finalmente, il 25 aprile, la primavera, quando si materializza l'utopia contadina, i contadini della Bassa padana credono d'aver fatto la rivoluzione, e forse l'hanno fatta davvero, anche se finiranno per lasciarsi convincere a restituire le armi.




Libertà creativa

Per questo film ho avuto un massimo di libertà, mai avuta, mai sognata, e un minimo d’impedimenti o controlli. In contrario del solito: una combinazione produttiva imponente, però una libertà di improvvisazione direttamente proporzionale all’enorme costo del film. Cioè, un caso unico, che poi forse conferma quell’altra regola. Ma per me, il cinema è molto improvvisazione. Sceneggiatura molto costruita, molto programmata. Ma poi, secondo Renoir: “Sempre lasciare aperta una porta sul set, qualcosa o qualcuno potrebbe entrare…”.

Dopo Ultimo tango, potevo fare tutto quello che volevo e mi sono quindi detto:“Farò una sorta di film-ponte tra il cinema hollywoodiano e sovietico, tra la finzione hollywoodiana e il realismo socialista”.Tutto questo mi eccitava enormemente, e il film è il risultato di un momento in cui, non mi vergogno a dirlo, ero un po’ megalomane. Volevo fare il film più lungo… Ricordo molto bene il giorno in cui ho incontrato Francis Ford Coppola; avevo appena finito Novecento, e lui stava per partire con Vittorio Storaro,il direttore della fotografia che gli avevo presentato per Apocalypse Now. All'uscita del ristorante, Francis si è voltato verso di me e mi ha detto: “Farò un film di un minuto più lungo del tuo” ma non ci è riuscito! Quando due megalomani cenano insieme!”.




Il film infinito

La realizzazione di Novecento è stata un'avventura incredibile: si trattava del film più lungo e complesso mai girato fino ad allora in Italia. La sua scansione ritmica, nei termini in cui l'avevo progettata, doveva dipanarsi dall'infanzia di Olmo e Alfredo lungo la loro crescita, il loro diventare prima adolescenti e infine uomini, nel corso delle quattro stagioni: l'estate dell'infanzia, l'autunno e l'inverno quando si impone il regime fascista, la primavera del 1945 che sancisce la Liberazione. Per narrare una storia che si estende lungo un così grande arco temporale abbiamo ovviamente girato per molte settimane (quarantotto), al punto che il film era diventato la nostra stessa vita. C'era una numerosa troupe romana di macchinisti, operatori, elettricisti; tutti costoro si erano di fatto creati una seconda famiglia in quel di Parma, quasi fossero un esercito di occupazione pacifica. E quando infine – un lunedì – il produttore mi comunicò che era giunto il momento di chiudere le riprese, avvertii la troupe: “Signore e signori, sabato il film finisce”, e scatenai autentici drammi. Alcuni si erano costruiti una seconda identità, avevano impostato una seconda vita a Parma. Trovavano la gente del posto estremamente affabile, affettuosa, gentile, amavano la cucina locale, insomma erano felici. Anch'io, forse, in fondo mi ero come loro abbandonato all'illusione che quel film non sarebbe mai finito, che anzi sarebbe andato avanti per sempre, e questo si percepisce chiaramente nel film stesso. Ci fu chi addirittura mi tolse il saluto per qualche tempo, offeso dal fatto che lo avessi forzato a svegliarsi da quella specie di sogno.




Memoria e politica

È un film basato sulla contraddizione […].Volevo fare un poema su questo secolo, la mia terra e la mia famiglia, mio padre e mio nonno, rifacendomi in qualche modo al poema di mio padre intitolato La camera da letto, che è una sorta di diario di cronaca familiare scritto dal figlio di un piccolo proprietario terreno che nel film ho trasformato in un proprietario molto ricco, un latifondista. Da un lato dunque un’immersione nella memoria, e dall’altro un dialogo continuo, la dialettica con la fede marxista o piuttosto con la fede nel Partito Comunista Italiano, che ormai è cambiato. Dunque una contraddizione non solo accettata, ma anche ricercata e sfruttata, ne ero molto cosciente. La lettura puramente politica è sicuramente superficiale, se non volgare, ma è un film che non avrei potuto fare che in quegli anni: l’ho girato nel 1974-75 ed è uscito nel 1976. Non potrei farlo oggi perché è il prodotto dell’incontro tra il bisogno di tornare a Parma, di guardare indietro, e la situazione politica dell’Italia di quegli anni, il momento del miglior Berlinguer, quando aveva prefigurato il compromesso storico, la fusione tra il proletariato comunista e quello cattolico, una formula molto italiana. Non è un caso se la famiglia dei proprietari si chiama Berlinghieri. Costruire la più grande bandiera rossa mai vista al cinema, ricavata dall’unione di tutte le bandiere rosse che i contadini avevano nascosto durante il fascismo, e pagare il tutto con dollari americani, mi eccitava enormemente! Era ancora forse per gusto di provocazione.




La scrittura di Novecento: Kim Arcalli e Giuseppe Bertolucci

Kim mi ha dimostrato in concreto, lavorando sul corpo del film, che il materiale offre un'infinita serie di possibilità d'interpretazioni, modificazioni, manipolazioni. E che durante il montaggio è possibile, così come durante le riprese, lasciare una porta aperta sul caso e sull'azzardo [...]. Dopodiché ho capito che Kim era anche un uomo ricco di cose da dire, e che poteva dirle personalmente, direttamente, allora l'ho chiamato accanto a me e l'ho usato come ho usato Marlon Brando in Ultimo tango, come ho usato i contadini in Novecento, cioè ho usato Kim quasi come fosse un personaggio del film, non fuori dal film. Così è un collaboratore importante: presente nel film, ma invisibile. È stata utile la sua vita. Lui è stato un partigiano famoso, lo è diventato a quindici anni e ai compagni aveva detto di averne diciotto per essere accettato e avere più autorità. A quattordici anni era già commissario politico di una Brigata Garibaldi che ha compiuto azioni indimenticabili. Ma al film non è stata utile quella sua esperienza, bensì ciò che lui ha capito vivendo quell'esperienza e poi gli anni dell'immediato dopoguerra fino a oggi. Kim viene da una famiglia proletaria molto composita, metà veneziana e metà modenese, con una lunga permanenza a Roma. Una famiglia storicamente comunista [...]. Ha vissuto gli anni del dopoguerra come un assoluto autodidatta culturale. Kim è un caso vivente di cultura popolare nazionale con forti contatti con la cultura borghese, una persona con il cuore sempre là, infallibilmente dalla parte della cultura proletaria, e con il cervello che ogni tanto fa dei blitz bellissimi nella cultura borghese. Questa è una cosa piuttosto interessante che riguarda la meccanica del lavoro di scrittura nel cinema, quando si è sceneggiatori ma non scrittori. Kim non scrive una riga. Novecento, che è un copione di centinaia e centinaia di pagine, è stato scritto interamente da me e mio fratello Giuseppe. Kim ha portato solo del materiale orale, molto prezioso. Mai però del materiale che avesse la forma e lo stile dell'espressione scritta. Per lui l'attimo dello stile viene dopo, al momento del montaggio, quando dalle inquadrature riesce a tirar fuori anche quello che nascondono.

L'altra novità in Novecento è proprio l'entrata in scena di Giuseppe, che io considero la mia anima politica. Non conosco i sensi di inferiorità che lui ha nei miei confronti, forse saranno tanti, ma conosco bene quello che ho io nei suoi riguardi, ed è che politicamente Giuseppe è sempre stato assai più corretto, più giusto, più rigoroso di me. Lui ha investito nella politica una serie di esigenze molto profonde, che io ho invece investito in altre cose. Per questo è stata importante la presenza di Giuseppe nel film, perché politicamente sia io sia Kim siamo due irregolari, esattamente il suo contrario.




Grimaldi: il produttore
-padre e il produttore-nemico

Fare un film con l'avvocato Grimaldi significava godere di un rapporto privilegiato con il mercato americano, prepararsi all'incontro con un grande pubblico internazionale, e al tempo stesso avere un rapporto col produttore di II buono, il brutto e il cattivo , Decameron e Fellini-Satyricon. Sembrava facile: il produttore era un avvocato del diavolo da tirare fuori quando ne sentivo il bisogno ma che potevo far tacere quando mi ero stancato di ascoltarlo. Sul set non veniva mai. Durante gli undici mesi di riprese di Novecento è venuto solo una volta, restando nascosto tutto il pomeriggio dietro il gruppo elettrogeno. […] Tra me e Grimaldi era nata subito, quasi dal primo incontro, una corrente molto forte. Mi piaceva molto la sua timidezza sul set, bilanciata dalla sua sicurezza nel suo ufficio o al Polo Lounge del Beverly Hills Hotel. Lui era ideale soprattutto al momento dell'ideazione e delle riprese. Dopo le riprese vengono altre fasi fondamentali, dalla scelta del materiale fino alla composizione della prima copia campione, durante le quali il film che stai facendo continua a cercare un'identità. A quel punto la presenza di Grimaldi era forte, ma ancora discreta. Mi sembrava di contemplare un diagramma: dopo Partner, il film senza produttore, e dopo Strategia del ragno e II conformista, con il produttore-cugino, era arrivata la figura del produttore che aspettavo da sempre, una figura amica che sarebbe diventata, con Novecento, quella del produttore nemico.[...] Per farla breve, a un certo punto Grimaldi non ha rispettato le regole dell'Edipo occidentale, secondo le quali è il figlio che cerca di uccidere il padre. Come in certe culture orientali, è stato il padre che ha cercato di far fuori il figlio.




Un film regionale

Novecento è stato per me un film fondamentale anche a livello personale, nel senso che mi ha permesso di chiudere in qualche modo i conti con una parte della mia vita che mi vedeva ancora tutto preso dal fascino delle campagne intorno a Parma e dall'innamoramento per la poesia di mio padre, che appunto di quelle campagne parla. Mi ha costretto insomma a fare i conti con l'infanzia e l'adolescenza.

.Novecento è un film regionale. Io credo che regionale voglia dire popolare, e che popolare voglia dire regionale: e cerco di fare un cinema molto regionale molto popolare. E cultura popolare vuol dire continuità del mondo contadino: la stessa luce dolce e feroce che hai visto negli occhi del nonno – mugik – padano la ritroverai in quelli del nipotino, pioniere del Pci, il giorno della sua prima comunione.




Pasolini e l’innocenza contadina

Pier Paolo con i suoi saggi raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell'Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli che quell'innocenza contadina che lui riteneva sparita c'era ancora. Che i contadini emiliani erano riusciti a preservare, grazie al socialismo, la loro identità culturale. E poi volevo raccontare la grande utopia, la rivoluzione contadina. Novecento, distribuito da tre major americane, avrebbe portato negli Usa questo messaggio socialista. Invece la Paramount lo boicottò. Il presidente dichiarò: "Ci sono troppe bandiere rosse".

Nessuno, neppure Pier Paolo Pasolini, che lanciava continuamente invettive contro il pericolo rappresentato dal consumismo, poteva immaginare la resistenza espressa dalla cultura contadina emiliana. La prova è proprio Novecento, cioè i contadini di oggi, che vedevamo arrivare sul set con delle macchine enormi, poi scendevano dall’auto e diventavano attori del film, ritrovando tranquillamente la continuità con le loro tradizioni culturali.




L'accoglienza americana

La vita di Novecento negli Stati Uniti è stata segnata da una serie di rifiuti. Il primo fu quello della Paramount, la compagnia che avrebbe dovuto distribuirlo. Sono seguiti, a ruota, il rifiuto di gran parte della critica e, come conseguenza quasi naturale dei primi due, quello del pubblico, che non è stato messo in condizione di giudicarlo. Oggi, anche se non sono passati molti anni, Novecento è diventato un cult movie, uno di quei film che si proiettano il venerdì e il sabato a mezzanotte in doppio programma. […] Come tutti i cult movie è un film maledetto, che non ha mai incontrato il grande pubblico per il quale era stato realizzato. […] C'è stata un'ostilità della critica prima ancora della proiezione del film. Durante le settimane in cui lo scontro su Novecento era diventato pubblico i critici americani avevano firmato un documento di solidarietà con me, in difesa della versione lunga. Quando si sono ritrovati davanti a un film di quattro ore, senza conoscere le vicissitudini tortuose che ho raccontato, hanno creduto di-vedere la prova del cedimento dell'autore davanti alla produzione e hanno concluso che stavano per vedere soltanto il risultato di un compromesso. Il loro idealismo li aveva accecati, perché Novecento di quattro ore non è un film mutilato; è soltanto un film diverso da quello che avevano visto e giudicato a Cannes.




L’accoglienza italiana e il
PCI

"Paese Sera" aveva organizzato una proiezione-dibattito quando il film era ormai diventato una specie di caso nazionale. Per il Partito Comunista c'erano Spriano e Pajetta. Nell'intervallo tra la prima e la seconda parte Pajetta si è avvicinato e mi ha detto che era commosso e che il film gli piaceva molto. Alla fine del secondo atto la sua reazione è stata sorprendente. Mi ha detto a muso duro che era disposto a partecipare al dibattito ma solo sulla prima parte del film, perché tutta la parte finale, la sequenza del 25 aprile, era brutta perché storicamente falsa. Gli ho risposto che nel film il 25 aprile era un tuffo nel futuro e non una ricostruzione storica del passato; non la messa in scena di ciò che era successo ma di ciò che avrebbe potuto succedere. Pajetta ha tagliato corto ricordandomi che il partito non si era nemmeno sognato di fare il processo al padrone. Io non potevo più discutere e l'ho un po' aggredito dicendogli: "Non avete avuto la forza di fare il processo al padrone nel '45, e non avete nemmeno quella di sopportare questo processo in un film trent'anni dopo". Non si deve dimenticare che eravamo nel '76, quando Berlinguer tentava di realizzare il compromesso storico, e il rapporto tra Olmo e Alfredo è prima di tutto un rapporto di necessità, la necessità è anche l'illustrazione del compromesso storico. Amendola in televisione disse che Novecento non gli piaceva e io ero pieno di amarezza, benché cercassi di convincermi che il rifiuto da parte dei politici significava un torto loro e non del film. Ripenso ai giovani compagni della Fgci che amavano il film, volevano difenderlo e non trovavano spazio sugli organi ufficiali del partito.