Antologia critica

Antologia critica

Bertolucci ha realizzato una saga familiare e storica tutta costruita, nutrita, imbevuta di immaginario. Rèverie, favola, leggenda, mito, avventura della psiche, sognante utopia di palingenesi future, visitazione febbricitante di un ‘passato’ mitico in vista di un futuro altrettanto mitico, Novecento riassume e coordina fra loro – con un'operazione culturale che ha certamente del mirabile per vastità di disegno e per audacia sperimentale – tutte le tendenze e/o conquiste del cinema ‘storico’ e riduce a loro, magari squisita, funzione tutte le tendenze e/o conquiste delle nouvelle vague recenti che posero (o cercarono di porre) fine al cinema come puro ‘immaginario’. Ma questo ‘immaginario’ non crea – né lo potrebbe – un rapporto dialettico con lo spettatore: si propone come totalità, come vissuto storico, come realtà autosufficiente che rinvia a se stessa; esclude il reale, il mondo e la storia, proprio perché si dà come ‘spettacolo’ della loro sintesi; invece di rendere più intellegibile la contraddizione, la rende indistinta, trasformandola in una sorta di gioco delle parti, con ruoli assegnati e inamovibili.

Lino Micciché, “L'Avanti”, 4 settembre 1976




È lampante la voglia di compiere un salto dalla prosa, cui lo spinge l’ossatura romanzesca del film, alla versificazione del poema, ma per naturale che sia il cangiamento qualitativo cagionato dalla matrice essenzialmente epica di Novecento, la propensione di Bertolucci inclina a una forma aulica. Uomini, donne, cose sono visti a distanza con adesione affettiva e ripugnanza viscerale, ma anche consegnati alla statuarietà marmorea dei monumenti, a una assolutezza sublime – nella gloria, nella sofferenza e nell’infamia – che è prerogativa dei simboli, a una lontananza che diviene celebrazione di un passato conchiuso, a un’enfasi che liricizza ogni immagine e ogni avvenimento. La storia tende a vestirsi di leggenda e a rappresentarsi su un vasto e arioso spiazzo con un corredo decorativo il cui preziosismo accresce la solennità del rituale.

Mino Argentieri, “Rinascita”, 17 settembre 1976




È un'opera fondata sulle contraddizioni, sulla mediazione dei contrari. È un film sulla lotta di classe, in chiave esplicitamente antipadronale, che è costato alcuni miliardi […]. È un film ‘socialista’ con una palese, appassionata adesione alle masse popolari, prodotto all'interno di un sistema multinazionale […]. È un film profondamente regionale (sulla campagna padana, sulla gente che vice, cammina e muore sulla terra) e, al tempo stesso, internazionale per il suo finanziamento, la distribuzione degli attori e persino il linguaggio […]. È un film che cerca di conciliare la tecnica narrativa del cinema classico americano con quella del realismo sovietico con qualche risvolto, nel finale, di balletto cinese. È un film che si propone una finalità ideologica, ma che punta sul coinvolgimento emotivo dello spettatore, sul sentimento, sulla commozione, sull’orrore. È un film che chiede una lettura di primo grado, ma che contiene anche, nel suo gioco continuo tra particolare e universale, tra privato e pubblico, una profonda carica emblematica e metaforica.

Morando Morandini, “Il Tempo”, 19 settembre 1976




Metafora d’un mezzo secolo con cui il giovane Bertolucci esercita il diritto di trasfigurare in visione l’idea che a torto o a ragione se n’è fatta, non importa molto se Novecento è meno fedele alla storia di quanto si potrebbe pretendere da un documentario. Preme invece che abbia una sua tenuta fantastica, una sua magnificenza di romanzo-fiume per immagini, una potenza di chiaroscuro che esprima la drammaticità vista la destinazione popolare dell’opera. Queste virtù non gli mancano, sorrette da una carica emotiva e da un’intelligenza visionaria quasi permanente. Novecento si fa apprezzare come un concerto di sensazioni e di memorie sopite spesso toccante per la virgiliana sensibilità di paesaggio, per la densità balzachiana di qualche ritratto, l’uso amorevole delle comparse emiliane, la franchezza così sfuggente alle tentazioni manichee non nasconde la ferocia sottintesa anche nel mondo rurale, l’ariosità della saga e la pregnanza dell’allegoria.

Giovanni Grazzini, “Corriere della Sera”, 26 settembre 1976




Ovviamente si possono esprimere sul film, che a me sembra assai pregevole, pareri disparati. Ma si è verificata una situazione alquanto strana. Mentre i critici professionisti, anche se con qualche riserva, enunciano giudizi complessivamente positivi, la nostra intellighenzia critica l'opera in modo pesante. Quale mai callo avrà pestato Bertolucci a questi nostri scrittori ‘di sinistra’ per provocare simili atteggiamenti? Sotto, sotto (ma in definitiva poi abbastanza scopertamente) viene anche mosso a Bertolucci il rimprovero di aver guadagnato troppi quattrini con Ultimo tango, e di averne spesi ancora sempre troppi per Novecento; e soprattutto di essere divenuto — alla sua giovane età — un personaggio di tale prestigio sul palcoscenico internazionale, da ottenere dai grossi capitalisti mezzi ingenti per fare tutto quello che gli pare e piace. […] Ma che sia tutta qui la ragione di questo livore? Sembrerebbe impossibile se si pensa all'alto livello delle persone. Eppure un qualche movente deve esserci. Forse si tratta della stessa storia narrata. Una storia recente, che ognuno vorrebbe raccontata a modo proprio. E che raccontata invece da un altro, e diversamente, viene sentita come usurpazione di qualche cosa che ci appartiene. Bisognerebbe sottoporre ad analisi questi critici. Ma essi continuano tutti a ripetere che gli psicoanalisti non debbono entrarci. E quindi non c'è proprio nulla da fare.

Cesare Musatti, “Cinema nuovo” n. 243, 1977




E così molti dei critici che si danno delle arie progressiste, che godono di una certa reputazione, si sono improvvisamente smascherati mentre guardavano come si trattasse di un pezzo di propaganda lungo e noioso la seconda parte (Toh! Come mai?) di Novecento. Pur riconoscendo, con ipocrita scaltrezza, le qualità estetiche della prima (come per caso). Obbiettiamo subito alla grande coalizione reazionaria dei tartufi e degli snob che Novecento, film diviso in due parti simmetriche, forma nonostante ciò un insieme coerente. Se la seconda parte irrita tanto alcuni, è perché descrive con gioia ed entusiasmo la liberazione degli oppressi che fa tremare i profittatori di un ordine ingiusto, è perché mostra chiaramente, semplicemente e serenamente (senza imboccare le trombe di un lirismo fuori luogo e già in sé reazionario), quello che è una rivoluzione – e come è noto, non è un pranzo di gala […] Tutta la questione deriva, io credo, dal fatto che Novecento è una favola-affresco. Ora, mentre l'affresco è per definizione ampio e ribollente come un fiume, la favola è concisa per convenzione. In questo sta la folle ambizione di Bertolucci: fare di Novecento un film favoloso in senso proprio.

Gérard Lenne, “Écran”, n. 51, settembre 1976




Tutto quel che accade in Novecento è rappresentazione e la rappresentazione è la ‘verità’, la Storia e l'invenzione della Storia, la nostalgia e l’utopia del già stato. In fondo, il film è una lunga tessitura di memorie, di avvenimenti fantasticati, realizzati come (e nel momento stesso in cui) accadono, in una sorta di palcoscenico vastissimo, dove ogni gesto si inscrive in una silloge imprevista, festa grandissima al confine del sogno, dove tutto è accaduto e la dimensione fantastica non è che un desiderio, sogno utopico dentro l'impossibile. Bertolucci ha voluto guardare la Storia dentro un imbuto di cose familiari, di gesti raccontati, di ricordi inventati, con l'occhio di chi ha visto cinema, si è nutrito di immagini, ha imparato a guardare la realtà ‘attraverso lo schermo’. […] In questo modo, anche le esperienze filtrano attraverso la diegesi dell'invenzione, anche i fatti della Storia si inseriscono nelle pieghe di una finzione cinematografica e sviluppano una loro realtà, proprio nell’irrealtà della loro evidenza. Solo attraverso la mediazione-cinema la famiglia, la casa, i ricordi la stessa infanzia, che si impasta con gli avvenimenti, riescono a staccarsi dalla cronaca e acquisire il sapore del mito; solo attraverso la mediazione gli accadimenti veri, le violenze, gli arbitrii assumono l'emblematico aspetto di una favola, possono essere raccontati con la distesa dei tempi, nell'utopico spazio della rêverie.

Edoardo Bruno, “Filmcritica” n. 266, 1976




Qualcuno può dire, ad esempio, che si tratta della fine ‘ufficiale’ del cinema ‘giovane’ degli anni Sessanta. Certo Novecento smette del tutto i vezzi e i modi di quella che è stata un’avanguardia vitale; certo rinuncia agli atteggiamenti giovanili (e giovanilistici) cari al decennio precedente. Ma non sancisce con questo un puro e semplice ritorno all’ordine; non è la resa alla normalità dopo gli inutili eccessi. Novecento spera invece di unire quelli che paiono gli opposti, il desiderio di un cinema politico e il desiderio di un cinema ricco; spera di conservare il meglio di un’esperienza sentita come ormai conclusa e di innestarla sul tronco di una tradizione ancor viva. Per questo compromesso (la battuta viene facile: compromesso storico...) il film è costretto a scegliere un campo: pagherà con il rifiuto di ogni marginalità superflua l’acquisto di un immaginario che si vuole collettivo; pagherà con l’uso della metafora e dell’emblema la volontà di una comunicazione che si vuole la più vasta; pagherà con la rinuncia a ogni accusa privata la sicurezza di costruire una favola ‘esemplare’. Nella biforcazione ormai in atto (ne abbiamo già parlato: da una parte un cinema ‘post moderno’, medium non più universale ma polverizzato in tante esperienze diverse; dall’altra un cinema preclassico che crede ancora in una logica morta e punta a recuperi che non possono che essere parziali), Novecento traccia dei confini: ma dentro i corni del dilemma, e non tra le ipotesi estreme. Un mélo politico? Forse. Forse ce n’era bisogno.

Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, La Nuova Italia, 1976