Ernst Lubitsch e il Lubitsch'touch

Ernst Lubitsch e il Lubitsch'touch

Gli anni berlinesi

Il Lubitsch touch, il tocco di Lubitsch o alla Lubitsch, ha segnato un’epoca del cinema statunitense. Tra i primi registi ad avere l’onore del “nome prima del titolo” sui manifesti e nei cast, Ernst Lubitsch (Berlino 1892 – Los Angeles 1947) era emigrato a Hollywood nel 1923, quando l’industria americana andava setacciando il cinema europeo strappandogli i nomi più prestigiosi. Era già assai famoso. Ebreo berlinese, era stato attore e collaboratore in teatro di Max Reinhardt, aveva alternato in cinema le farse (accusato di “cattivo gusto berlinese” dagli intellettuali weimariani dal palato fino) e i supercolossi su modello italiano, con grande disinvoltura di messinscena e con gusto teatrale.

Sul fronte del comico, s’era reso famoso in ruoli di commesso ebreo proponendo una versione inedita dello humor berlinese popolaresco e di grana grossa. Certa volgarità si trasferirà nell’opera hollywoodiana, basti pensare al pernacchio lunghissimamente preparato dell’episodio con Charles Laughton in If I had a million (Se avessi un milione, 1932), un efficace modo di usare il sonoro nascente. Il film più memorabile, la cui visione è ancora uno spasso, è su questo fronte Die Austernprinzessin (La principessa delle ostriche, 1919), operetta muta affine alla Vedova allegra che già propone, dopo una sfrenata caricatura dei personaggi e delle loro ossessioni tra eros e denaro, il matrimonio tra la ricca America e la povera nobile decaduta Europa.

Sul fronte del grande spettacolo in costume, campeggiano invece Carmen (Sangue gitano, 1918) e Madame Dubarry (1919) con Pola Negri, il secondo attento ai retroscena e ai tempi morti della storia, non solo alle sue esplosioni. Per Emil Jannings, attore principe del tempo e attore gonfio di retorica, Lubitsch dirige Anna Boleyn (Anna Bolena, 1920) e Das Weib des Pharao (La donna del faraone, 1921). più curiosi sono oggi Sumurum (1920), fantasia orientale da uno spettacolo teatrale di Reinhardt, e Die Puppe (La bambola di carne, 1919), fantasia espressionista ispirata a Hoffman.




A Hollywood, si chiede a Lubitsch di ripetere i successi europei, rendendoli ancora più 'europei' secondo il gusto del pubblico statunitense. Ritrova Pola Negri per Forbidden paradise (La zarina, 1924) ed Emil Jannings per The patriot (Lo zar folle, 1928) e per il più penetrante The man I killed (L’uomo che ho ucciso, 1932), melodramma bellico pacifista [...]. Tuttavia, a parte altri rari mélo, è nella commedia che il pubblico comincerà ad amare, seguire, acclamare Lubitsch assiso negli studios della Paramount a capo di uno staff di sceneggiatori preferibilmente europei – tedeschi o viennesi o ungheresi – e a volte già noti come commediografi, mescolati con vecchie o giovani volpi di Broadway e di Hollywood: tra questi, il più fedele e solido fu Samson Raphaelson, i più vivaci e 'nuovi' Billy Wilder e Charles Brackett, una coppia vincente.

Producer dei propri film, maestro di giovani collaboratori […] Lubitsch consolida le sue scelte e il suo 'tocco' nel corso degli anni trenta oscillando tra l’operetta e la commedia sofisticata. […] I suoi personaggi sfiorano sempre, senza oltrepassarlo, il limite della decenza, ma il loro imbonitore non frena le allusioni sessuali, anzi a volte ne abusa con strizzate d’occhio ineccepibili per il grande pubblico. nell’operetta sonora – The love parade (Il principe consorte, 1927), The smiling lieutenant (L’allegro tenente, 1931), One hour with you (Un’ora d’amore, 1932), The merry widow (La vedova allegra, 1934) – fa capolino, nel mezzo di una maestria della costruzione e dell’euforia dell’affresco, tra le allusioni sessuali e la satira dei nuovi e vecchi ricchi, diversamente volgari, una spigliata irriverenza democratica verso il mondo aristocratico, molto grata agli americani, ma non così esplicita come in certi film di autori statunitensi del periodo (quelli per esempio de Leo McCarey). L’Europa è per Lubitsch e per l’americano medio che egli corteggia ancora un territorio di raffinatezza, sogno, eleganza, compiuto edonismo.




all’opposto di Stroheim, la cui crudeltà il pubblico e l’industria non tollerarono, Lubitsch fu cinico e sentimentale, nostalgico e ironico, nonché satirico e comico […]. considerato in Germania un parvenu, dette a Hollywood lezioni di savoir vivre borghese. Seppe catturare l’attenzione dell’America puritana senza scandalizzarla oltremodo, seppe insomma come corteggiarla e blandirla. Secondo il biografo Weinberg riuscì per esempio, bensì imitandolo, dove era fallito Chaplin in Una donna di Parigi, perché non volle essere un fustigatore di costumi, un moralista, ma puramente entertainer, uomo di spettacolo e di successo.

I migliori film del decennio restano esemplari modelli di regia. Negli anni venti aveva avuto un rivale in De Mille, autore di commedie mondane anch’esse 'europee', ma nei trenta fu il primo: per la limata perfezione delle regie e delle sceneggiature, il sinuoso e insinuante gioco degli attori da scena a scena, anzi da una porta all’altra (quante porte si aprono e si chiudono nelle commedie di Lubitsch!), i rovesciamenti di situazione e i rientri molto sornioni nell’ordine, il profondo cinismo sui comportamenti umani. Popolano le sue storie avventuriere, ladri in guanti gialli, miliardari ridicoli o ingenui, finti gentiluomini, servitori maliziosi. Egli è maestro di sottile immoralità, di piacevole accettazione, di arguto profittare delle leggi del mondo.




Trouble in paradise (Mancia competente, 1932) è la storia di una coppia di ladri che raggira una bella signora, innamorata di uno dei due. L’amore verrà a patti con il cinismo, il denaro con la gelosia. (…) Design for living (Partita a quattro, 1933) da Noel Coward, propone, di fronte all’impossibilità per l’eroina di scegliere tra i due giovani spasimanti e alla presenza transitoria di un marito, una convivenza affettiva a tre rigorosamente priva di sesso. […] Angel (Angelo, 1937) offre di questo un risvolto assai triste, con la bella Dietrich tentata di tradire il noioso marito ma infine ritrosamente rinunciataria; mentre Bluebeard’s eight wife (L’ottava moglie di Barbablù, 1938), scritto da Brackett e Wilder, elogia la coppia e non disprezza il denaro […]. Gli stessi autori, assieme al commediografo ungherese Melchior Lengyel, forniscono a Lubitsch il materiale per il celeberrimo Ninotchka (1939).

Nel ‘42, […] Lubitsch dirige il suo film certamente più bello. To be or not to be (Vogliamo vivere) si svolge nell’ambiente del teatro nella Praga occupata dai nazisti; un attore sa imitare Hitler, e questo gli dovrebbe servire a risolvere i dilemmi amorosi (teme che la moglie lo tradisca, ed infatti è così) e politici – tra partigiani, collaborazionisti, nazisti, in un rischiosissimo gioco di travestimenti. La celebre battuta dell’Amleto “essere o non essere” è una chiave di passo farsesca e tremenda, sullo stesso rischioso filo della provocazione politica che è stato, poco tempo prima, del Grande dittatore di Chaplin. Ritmata con agilità insuperabile, Vogliamo vivere è una commedia dentro e su un momento tragico della storia, è un’acuta presa in giro del nazismo e fa ridere col nazismo mentre il mondo trema per la paura del nazismo.




È il film più azzardato e intelligente di Lubitsch, così come, di poco precedente, The shop around the corner (Scrivimi fermo posta, 1940) era, in veste di commedia ungherese, il più affettuosamente populista, il massimo di democrazia che Lubitsch sembrava poter accettare. E se Cluny Brown (Fra le tue braccia, 1946), a guerra finita, torna a irridere con relativa simpatia la stolida nobiltà inglese, Heaven can wait (Il cielo può attendere, 1943) è un testamento tutto americano, dichiarazione di principi, lasciataci a futura memoria da un vecchio europeo pieno di saggezza e di arguzia. Saper vivere, amare e godere la vita, questa dev’essere la legge: attenti però a non far del male a nessuno. Nel finale il protagonista rinuncia al paradiso per seguire al purgatorio un’ennesima bella ragazza.

Maestro di registi tra i più interessanti del dopoguerra, direttore di attori eccelso, Lubitsch morì a Hollywood nel ‘47 nel mezzo della regia di un film-operetta, completato da Preminger. La sua importanza è stata di aver offerto all’America un’immagine dell’Europa che le fosse accetta, quindi edulcorata e adattata, ma anche, con cinismo sornione, di aver insegnato all’America regole epicuree che le erano sconosciute: della miseria come della forza, della vanità come della durata dei riti e dei costumi borghesi».

(Goffredo Fofi, I grandi registi della storia del cinema, Donzelli Editore, Roma, 1995)




Il Lubitsch' touch

Lubitsch touch: l’allusione e la reticenza. Come scrive Guido Fink, "nel cinema di Lubitsch, e in particolare nel cinema da lui diretto durante il suo confortevole esilio americano (1923-1947), il non detto, il silenzio, il non visto, contano quanto le parole e le immagini". l’impertinenza delle allusioni – dei silenzi che parlano – fa sì che la reticenza non sia mai veramente discreta. "L’interesse a suggerire invece che a mostrare può essere tattico quanto stilistico: si flirta con il proibito" aggiungono Eithne e Jean-Loup Bourget.




La cena cui prendono parte i tre protagonisti è mostrata solo attraverso i resti che ne tornano in cucina: intoccati quelli di Melvyn Douglas, ancora sorpreso da un incontro inaspettato; martoriati quelli della Dietrich, angosciata da un incontro che avrebbe preferito, forse, evitare; normali quelli di Herbert Marshall, all'oscuro di tutto e del legame fra sua moglie e l'altro. I commenti inconsapevoli della servitù trasformano quella cena nella parodia di se stessa, ci raccontano una storia mostrandone un'altra, al punto che alla fine non sappiamo a quale prestare più attenzione. In The Merry Widow (La vedova allegra, 1934) Chevalier e McDonald si scambiano parole d’amore davanti all’ambasciatore, che non capisce, ma fornisce egualmente un racconto dettagliato al re, via telegramma. In The Love Parade (Il principe consorte, 1929) la cena fra la regina e il suo promesso sposo è raccontata dai personaggi che li spiano: la cameriera dice: "Lei chiude la porta dietro di lui”; il valletto replica trionfante: "Heaven save the Queen!"; e il racconto che Chevalier fa al maggiordomo di corte è ripreso ancora da oltre la finestra e non ne sentiamo nemmeno una parola. In Ninotchka (id., 1939) l’iniziazione dei tre inviati sovietici alla 'corruzione' del capitalismo si svolge interamente oltre una porta chiusa: le esclamazioni di piacere all’arrivo della colazione crescono quando entra una sigaraia, che esce subito rassettandosi l’uniforme (per fare ritorno poco dopo con due colleghe); esplodono infine all’arrivo dello champagne. Come sottolinea Ermanno Comuzio, parlando proprio di questa sequenza, "qualcuno entra o esce da una porta, e noi ne rimaniamo fuori” (altra forma di reticenza). Subito dopo una dissolvenza sostituirà i tre colbacchi con due bombette e un cilindro. […] Persino Ninotchka fa del denaro la molla di una love story che sembra svilupparsi sul solco delle contrapposizioni ideologiche: non solo per quella storia di gioielli 'rubati' con la rivoluzione e che vengono ripagati con una rinuncia, ma al facchino che si offre di portarle i bagagli perché è il suo lavoro, Ninotchka dice: "Lavoro? È un’ingiustizia sociale"; ma lui replica: "Dipende dalla mancia". Per restare in tema: quali sono i mezzi con cui Melvyn Douglas provvede al proprio sostentamento?




Ninotchka è un film spaccato nettamente in due: la prima parte è solo la preparazione dell’ingresso della protagonista nel mondo della sophisticated comedy che si svilupperà nella seconda. La cerniera è riassumibile in due punti: una risata e un cappellino. Ninotchka scopre la felicità e subito dopo la libertà, quando, dopo essere rimasta grigiamente seria alle storielle del corteggiatore che vuole iniziarla ai piaceri del capitalismo, lo vede cadere sia per terra che nel ridicolo, e scoppia a ridere. In quel momento il cappellino che aveva guardato con disgusto nella prima parte diventa il simbolo di un’emancipazione tutt’altro che eroica (dopo tutto viene acquistato coi soldi del popolo sovietico); non ha niente a che vedere con l’ambiguità del cappello di Angel: in quanto conquista, scopre definitivamente il volto della Garbo, proprio come un sorriso.

Giorgio Cremonini in Ernst Lubitsch, a cura di Arturo Invernici, Angelo Signorelli, Edizioni di Cineforum, 2005


Il sonoro: ciò che non si vede si sente. E Lubitsch trae ogni partito dalle possibilità del cinema sonoro. Gli esempio che si possono fare sono innumerevoli. Si va da quelli di puro virtuosismo tecnico (come nel ritmo perfetto delle entrate e delle uscite attraverso la porta di un locale notturno di Maurice Chevalier, che ha abbracciato con troppa effusione una ragazza, e di E. Everett Horton, che è l’accompagnatore geloso di tale fanciulla: La vedova allegra) a quelli di folgorante significazione, passando attraverso gli episodi di schietto rilievo comico come nel momento famoso di Ninotchka in cui i tre commissari sovietici conoscono la dolcezza del capitalismo occidentale. Tutta la scena è vista dal corridoio dell’albergo:

- Un cameriere entra nell’appartamento dei tre commissari. La porta si chiude.
- La cinepresa accompagna nel corridoio una giovane venditrice di sigarette, in gonnellina corta, crestina e grembiulino. La ragazza entra nell’appartamento e chiude la porta. La cinepresa è ferma, in silenzio, davanti alla porta chiusa. Dopo un momento si ode un’esplosione di voci gioiose.
- Dalla porta esce prima un cameriere (dall’interno escono delle voci, troncate dalla chiusura della porta), poi, dopo un momento, la sigaraia, che si rassetta i capelli un po' sgomenta. La ragazza percorre il corridoio e scende le scale, accompagnata dalla cinepresa.
- Movimento inverso su un cameriere che entra nella porta con tre bottiglie di champagne in un secchiello col ghiaccio. Voci escono dalla porta; silenzio quando si richiude alle spalle del cameriere.
- Dalle scale salgono tre sigaraie sorridenti, seguite fino alla porta dell’appartamento. Quando entrano, dall’interno si alzano grida entusiaste. La porta si richiude. La cinepresa si ferma in silenzio davanti alla porta chiusa».

Ermanno Comuzio, E poi, che cos'è il “tocco alla Lubitsch”?, “Cineforum”, n. 221, gennaio/febbraio 1983.